Feb 16 2009

Giuseppe Segato (detto Bepi o Bepin) il Patriota

Category: Veneto e dintornigiorgio @ 21:22

Veneto: esempi di patriottismo

Ore 7.30 del mattino de 9 maggio 1997

Lo speaker del TG l annuncia che il gruppo asserragliato all’interno del Campanile di San Marco sta aspettando il suo Ambasciatore per ricevere disposizioni: solo lui ha il potere di trattare con le forze dell’ordine e avanzare le condizioni del gruppo.

L’annuncio si ripete anche successivamente, ma alle 8.30, quando i reparti speciali dei Carabinieri irrompono nell’ edificio e catturano gli otto del commando, il misterioso Ambasciatore ancora non c’è. Le questure di tutto il Veneto battono una caccia a tappeto: verrà catturato il giorno dopo mentre rientrava a casa.

La notte di quell’impresa, a Venezia c’era anche lui. Magro, minuto, veloce, girava per le calli; e non da solo.  L’accordo era che intervenisse con la sua scorta personale prima di mezzogiorno, possibilmente alle 10.30/11.00, perchè a quell’ora, secondo contatti precedenti, ci si aspettava la presenza anche della CNN, che avrebbe trasmesso all’estero la trattativa.

Evidentemente non era stata messa in conto un’irruzione delle teste di cuoio così repentina.

Forse l’Ambasciatore Segato non si era reso conto che la situazione stava sfuggendo di mano, che l’accerchiamento al manipolo della Serenissima, in Piazza S. Marco, non si stava realizzando secondo i piani. Stava dando le ultime istruzioni ai suoi collaboratori esterni prima di entrare in scena? Non lo sapremo mai, non lo ha mai voluto dire.

Qualche segreto Bepin se l’è portato nella tomba, e questo ha risparmiato un bel po’ di grane giudiziarie a più di qualcuno.

Quello che sappiamo, però, è che ha subito le sue carcerazioni con un atteggiamento dignitoso e fermo. Non ha mai collaborato con le indagini ed al procuratore di Verona che arrivava alla Casa Circondariale di Vicenza per interrogarlo mandava ironicamente a dire che non aveva tempo di parlare con lui perche’ doveva studiare. In primo grado fu condannato pesantemente a 6 anni e 4 mesi per merito delle dichiarazioni di un collaboratore di giustizia.

Ecco la sua via crucis: dal 9 maggio al 23 ottobre 1997 dietro le sbarre, e poi, fino al 10 gennaio 1998, agli arresti domiciliari.  Ridotta la condanna a 3 anni e 7 mesi in appello nel dicembre del 1999, fu riportato un mese dietro le sbarre il 2 febbraio 2000, il giorno stesso in cui aveva annunciato la sua partecipazione alle elezioni regionali.

Respinta la richiesta del suo legale per l’applicazione di pene alternative, venne incarcerato nuovamente al Due Palazzi di Padova, questa volta per quasi un anno, dal 25 luglio 2000 al 4 giugno 200 l e poi affidato ai servizi sociali per un altro anno e mezzo. Per la Causa Veneta ha patito complessivamente 20  mesi di arresto, dei quali 17 in prigione.

E che durezza di trattamento: a Vicenza era in celle sovraffollate con dei sieropositivi, al Due Palazzi, ricoverato d’urgenza in ospedale per una peritonite il 20 maggio 2001, lo tenero ammanettato sul letto perfino durante l’intervento!

“La mia vita – ripeteva con gli amici –  sarà sempre un andirivieni per carceri, aule di Tribunale, ricorsi ed appelli vari; ciò che conta, però, e’ continuare ad animare la causa vene/a. Alla lunga l’avremo vinta noi”.

Chi era dunque il dottor Bepìn Segato? Affabile e, gentile, sempre positivo, loquace fino al rischio di diventare logorroico. Razionale nelle analisi, estremamente pragmatico nelle soluzioni, ma con un “sogno”, come lo chiamava lui, fisso nella testa: il riscatto della Sua Terra, il ritorno ad un Veneto protagonista.

La sua è stata una figura di intellettuale “impegnato” sui generis, più unica che rara, e che precede la partecipazione ai fatti del Maggio 1997 di parecchio.

Laureato in Scienze Politiche a Padova, aveva iniziato un’attività di produzione ed autodistribuzione di testi, carte geografiche, calendari more veneto.

Si badi bene al concetto: si può fare “cultura” e “ideologia” anche saltando a piè pari i mezzi di comunicazione e i circuiti librari, lui lo ha dimostrato.

Quale piccola o media impresa di Treviso, Padova, Vicenza o Verona non aveva ricevuto la visita di questo insolito intellettuale? Con testi come “Il Mito dei Veneti” o i “Triangoli di Dio” girava per le zone industriali nostrane a diffondere de visu un sentimento di revanscismo veneto che infiammava gli animi di orgoglio ed appartenenza.

All’inaugurazione dell’anno giudiziario, il Procuratore Capo della Corte d’Appello di Venezia aveva parlato di turbolenze venetiste come di un possibile fattore di instabilità per lo stato centrale.  Un paragrafo di quella relazione era dedicato ad un soggetto in particolare, un instancabile personaggio fuori da ogni controllo dedito a diffondere tramite opuscoli l’ideale indipendentista: Giuseppe Segato.

La notte fra il 24 ed il 25 Marzo 2006 è morto improvvisamente a casa sua. E’ morto un Patriota vero. Oggi riposa nel cimitero di S. Martino delle Badesse.

Non ci resta che prendere esempio dal suo entusiasmo, dalla sua tenacia, dalla fermezza dimostrata durante la prigionia, dalla sua fede incrollabile nella causa veneta e raccogliere il testimone.

I suoi ideali non moriranno mai.

Terminiamo con questa sorta di testamento politico dell’ Ambasciatore Veneto, contenuto in uno dei suoi ultimi lavori:

Io non so ancora, in realtà, se ho vinto o se ho perso, probabilmente ci vorrà parecchio tempo per saperlo. Intanto so che formalmente ho perso e so che mi spetta ora pagare il fio delle mie colpe: quasi tre anni di pena residua con gravi limitazioni alla libertà, salvo ulteriori sorprese dal Tribunale di Verona per un altro processo politico.

La mia sarà una “legislatura” lunga e pesante, di quelle che non si dimenticano.

Io credo che per essere bisogna voler essere.

Il Popolo Veneto ha innate la volontà, le idee e l’ambizione per essere.

Le vicissitudini dei tempi possono frapporre qualche ostacolo; la forza e le minacce possono frenare momentaneamente la manifestazione della volontà veneta ma non impedire la sua realizzazione.

Le vie possono risultare complesse, lente e compromissorie ma prima o poi al reciproco sentimento di diffidenza-paura tra Veneto e Italia, dovrà subentrare la ragione e la progettualità.

Sarà impossibile per l’attuale classe politica italiana imbrogliare le cose facendo finta di cambiare tutto con qualche concessione amministrativa per conservare in realtà lo status quo e spacciarlo per vero federalismo.

l veneti hanno il proprio concetto sovrano irrinunciabile, in virtù del quale possono autolimitarsi per una vita collaborativi in solidarietà e in mutuo soccorso con altre genti.

Io penso che la politica italiana con la forza e le minacce più o meno velate non avrà futuro durevole.  Solo un patto flessibile fra le parti in causa potrà portare a obiettivi durevoli.

La paura non spegnerà la volontà veneta! E’ meglio trattare! L ‘imperio con la forza dura finche dura.

Io credo che i Veneti continueranno … a essere!”

Srs di Giuseppe Segato “lo Credo”, Editoria Universitaria, 2000, Venezia. Pag.112¬113.

Fonte: Esempi di patriottismo,  da Quaderni Veneti  di coscienza etnica 2008/


Feb 16 2009

La chiave

Category: Scuola e università,Veneto e dintornigiorgio @ 13:23

Chi ha vissuto nel Veneto degli anni ‘30 ( in pieno ventennio) può capire che cosa voglia dire questo racconto e quanta angoscia ci si portasse dentro mentre si vivevano gli avvenimenti che sto per narrare.

Al mio paese tutti parlavano veneto, tranne forse qualche persona ligia ai dettami del fascismo o che volesse fare risaltare il suo alto livello culturale rendendosi ridicola alla popolazione intera.

Si parlava il veneto in casa, in chiesa, nelle strade, al bar, nelle feste; si parlava veneto tra di noi bambini che lo utilizzavamo a scuola come nel resto della giornata.

Ma in nome della creazione di una lingua nazionale, di un distorto senso didattico che vedeva l’uso del dialetto come un problema per l’apprendimento dell’italiano (beh, le doppie le sbagliavamo anche quando parlavamo italiano!) e dello “sviluppo culturale della popolazione rurale”, ad un certo punto ci è stato proibito di parlare il dialetto a scuola.  Un problema enorme!

Si trattava di dimenticare la nostra lingua per parlarne un’altra, una nuova, una che raramente sentivamo.  Si trattava di dare un nome nuovo alle cose, alle azioni che facevamo e agli amici stessi che mai avremmo chiamato Domenico perché “Menego” ci bastava per capirci o mai Antonio perché per noi “Toni” era il suo nome.

Insomma era un mondo veneto che si voleva trasformare, attraverso la scuola, in un mondo italiano.

Noi un po’ ce la ridevamo e un po’, invece, eravamo guardinghi.

Era per questo che i crocchi si formavano sempre lontano da porte o finestre e che occupavamo gli angoli del cortile o ci nascondevano dietro gli alberi per fare quella terribile cosa proibita: parlare in dialetto.

Ma ecco il colpo di genio dei nostri insegnanti: il gioco della chiave.

Il disegno era semplice e diabolico: non riuscendo a controllarci volevano trasformarci tutti in spie.

Il gioco era banale: al mattino l’insegnante consegnava una piccola chiave, quelle da scrivania, non di quelle piatte e sottili di oggi, ma sufficientemente piccola da passare inosservata, in assoluta segretezza ad un alunno che aveva sentito parlare il dialetto.

Questi, girando per la classe e per i cortili poteva passare la chiave, sempre di nascosto, a colui che avesse sentito parlare in dialetto.

Alla fine della giornata, marcata dalla campanella che il bidello agitava per segnalare l’orario di uscita alle dodici e mezza, colui che fosse stato trovato in possesso della chiave sarebbe stato punito con punizioni “esemplari” che quasi sempre consistevano nello scrivere: “Non devo parlare in dialetto”.

E quando la punizione toccava ad uno di noi fratelli, mia mamma, poco istruita, ma piena di buon senso, ci diceva: “Te lo gavea dito de stare tento” (Te lo avevo detto di stare attento), ovviamente in veneto.  Non ci sgridava per averlo fatto, ma perché ci eravamo fatti “beccare” e questo bloccava qualunque nostra lamentela rispetto alla punizione.  Tutto semplice e banale, all’apparenza, ma non così scontato.

A parte la tremarella che aveva colpito i più insicuri e le bambine (erano gli anni trenta e noi femmine ancora non avevamo la grinta necessaria a ribellarci ai nostri maschietti) c’erano diverse crepe nel sistema.

Una prima era quella di accordarci tra di noi per dare la chiave ai “secchioni” o ai “cocchi del maestro”.  Certo, questo insospettiva gli insegnanti, ma non potevano fare altro che prendere atto della situazione dato che, come proclamavano, “La legge è uguale per tutti”.

Alcuni di noi, poi, si erano specializzati nel far scivolare in modo insensibile la chiave nelle tasche degli altri.  Se qualcuno non si fosse accorto della chiave, l’avrebbe incoscientemente portata fino alla fine della giornata lasciando gli altri liberi di respirare.

Questo era più facile farlo con noi bambine perché le ampie e facilmente raggiungibili tasche dei grembiuli ci rendevano poco sensibili.

Ma il timore di avere la chiave era tale che, dopo poco tempo, si era cominciato a toccarsi sistematicamente le tasche anche perché spesso, assieme alle frasi da scrivere, ci scappava anche qualche scappellotto “orale”.

Altri la usavano scientemente per vendette personali. Guai a fare dispetti a qualcuno o a farsi un nemico. Potevi stare sicura che la chiave, parlassi dialetto o no, te l’avrebbe rifilata, in un modo o nell’altro.  C’erano anche le “associazioni a delinquere” che prendevano di mira alcuni nostri compagni e che utilizzavano la chiave per lottare contro il gruppo nemico.

Nei periodi di massima coesione eravamo riusciti ad escogitare un sistema per cercare di turlupinare il maestro.  La chiave veniva “persa” in cortile e così, alla fine delle lezioni, nessuno ce l’aveva in tasca. L’indagine, necessariamente approssimativa, perché non si era in grado di rilevare le impronte digitali, finiva inevitabilmente con qualcuno che non ricordava più a chi l’avesse data.

Del resto, neppure l’insegnante poteva insistere eccessivamente perché la segretezza del gesto era un fatto indispensabile per la riuscita del gioco e portare in piazza i passaggi tra l’uno e l’altro poteva rivelare trame.

Ma anche questa si è rivelata una cuccagna effimera perché, dopo, per due o tre volte, il compito di punizione è stato dato a tutta la classe e così ci siamo trovati tutti a dover scrivere cento volte “Non devo parlare in dialetto”. Il trucco è stato abbandonato perché inefficace.

Qualche volta abbiamo anche tentato di scrivere a più mani le cento frasi di punizione. Ma la grafia ci ha traditi.  Infine, i più rassegnati, o i più saggi, per così dire, “si portavano avanti con il lavoro”.

Sapendo che prima o poi sarebbe toccato a tutti, compilavano preventivamente qualche pagina, magari durante l’intervallo. Così, al momento della punizione, una parte del compito sarebbe risultata già fatta.

Mi è restato dentro un senso di angoscia e di rabbia per quella che mi sembrava un’assurda ingiustizia. Non so se lo fosse davvero, ma io, quando ci penso ora, ancora la vivo così e ricordo l’odio, vero odio, che provavo per quella chiave, chiunque l’avesse, quando si arrivava alla fine delle lezioni.

E, comunque, ho 84anni, vivo ad Aosta da 56 anni eppure parlo ancora il dialetto con i miei figli e con coloro che lo capiscono e, quando torno al mio paese, sento parlare tutti dialetto tranne coloro che vogliono fare risaltare il loro alto livello culturale rendendosi ridicoli alla popolazione intera.

Non ha funzionato.

Fonte:  srs Giuseppina Verza


Feb 16 2009

I Veneti e la loro storia – tutte le fonti letterarie

Category: Libri e fonti,Veneto e dintornigiorgio @ 12:55

 

Aristotele

 

Presso i Veneti succede, a quanto si dice, un fatto stranissimo. 

Sulle loro terre infatti calano a migliaia le “cornacchie” e saccheggiano il grano da loro seminato. 

I Veneti allora offrono loro, prima che oltrepassino i confini della regione, dei doni, gettando semi di ogni genere, se le “cornacchie” li mangiano, non passano sul loro territorio e i Veneti sanno di poter stare tranquilli; se non ne mangiano, pensano che costituiranno una minaccia, tale quale un attacco nemico.

 

Teopompo di Chio

 

Teopompo narra che gli Eneti abitanti lungo l’ Adriatico, quando è il momento dell’ aratura e della semina, offrono alle “cornacchie” doni consistenti in specie di pani e focacce, impastate molto bene.


L’offerta di questi doni vuole allettare e stabilire una tregua con le “cornacchie”, in modo che esse non scavino e non raccolgano il frutto di Demetra affidato alla terra.


Lico concorda con questo racconto e vi aggiunge che (gli Eneti portano) anche cinghie purpuree e che gli offerenti poi se ne vanno. 

Gli stormi delle “cornacchie” rimangono fuori dei confini, mentre due o tre di esse sono scelte e mandate verso i messi che vengono dalle città, per rendersi conto dell’insieme dei doni. 

Queste, dopo l’esame, fanno ritorno e chiamano le altre, per l’istinto naturale per il quale le une chiamano e le altre obbediscono.


Arrivano dunque a nugoli e, se assaggiano le offerte suddette, gli Eneti sanno di essere in stato di intesa con gli uccelli in questione; se invece non le curano e, sprezzandole come modeste, non le gustano, gli indigeni restano convinti che il costo di quel disprezzo sia per loro la fame. 

Se infatti i predetti uccelli non ne mangiano e, per così dire, non si lasciano corrompere, essi calano sui campi e saccheggiano la maggior parte delle sementi, scavando e cercando con rabbia tremenda.

 

Timeo

 

Molti poeti e storici dicono infatti che Fetonte, figlio di Elio, ancora in età infantile, convinse il padre a dargli, per un giorno, la guida del suo carro. 

Ottenutolo, Fetonte, nel condurre il carro, non riusciva a reggere le briglie e i cavalli, sprezzando la guida del ragazzo, uscirono dalla solita orbita. 

Dapprima, girovagando per il cielo, lo incendiarono e formarono quella che oggi è definita Via Lattea, poi, arsa molta parte della terra abitata, devastarono con le fiamme non poche regioni. 

Perciò Zeus, indignato per l’accaduto, scagliò un fulmine su Fetonte e fece tornare Elio sulla sua solita orbita. 

Fetonte cadde alle foci del fiume ora detto Po e in passato chiamato Eridano e le sorelle, a gara, piansero la sua morte e, per l’intensità del lutto, persero il loro primitivo aspetto, trasformandosi in pioppi. 

Questi, ogni anno nello stesso periodo, stillano una lacrima che, induritasi, produce la cosiddetta ambra. 

Questa supera per splendore le pietre dello stesso tipo e, nella regione, viene usata in segno di lutto alla morte dei giovani . (…)

 

Catone

 

La maggior parte della Gallia coltiva soprattutto l’arte militare e l’eloquenza.

 

Polibio

 

Un altro popolo, già da tempo, si era insediato lungo il litorale adriatico; sono chiamati Veneti e, per costumi e abbigliamento, sono poco diversi dai Celti, ma usano un’altra lingua. (…)

I Galli della Cisalpina desiderano seguire Annibale, ma se ne restano tranquilli per timore dei Romani; alcuni sono poi costretti a militare tra le fila romane.

 

Catullo

 

Ma morranno gli Annali di Volusio proprio vicino alla sua Padua e forniranno spesso ampi cartocci per gli sgombri.

 

Cicerone

 

Gli abitanti di Vicenza mostrano grande rispetto verso di me e verso M. Bruto. 

Ti prego perciò di fare in modo che non subiscano un torto in senato per la questione dei vernae. 

La loro causa è più che legittima, la loro lealtà verso lo stato è provata, i loro avversari invece sono tipi indegni totalmente di fiducia e turbolenti. 

Da Vercelli, 21 maggio (43 a.C.).

Non si può certo passare sotto silenzio il valore, la fermezza e la dignità della provincia della Gallia. 

Essa costituisce davvero il fiore d’Italia, il sostegno del popolo romano, l’ornamento della sua grandezza. (…)

 

Ovidio

 

Mantova è fiera di Virgilio, Verona di Catullo (…).

 

Stradone

 

Si tratta di una pianura estremamente ricca e costellata di fertili colline. 

E’ divisa circa a metà dal Po in due regioni, chiamate rispettivamente Cispadana e Transpadana; la Cispadana quella verso i monti Appennini e la Liguria, la Transpadana quella restante. 

La prima è abitata da stirpi liguri e celtiche, le une sulle montagne, le altre in pianura, la seconda è abitata da Celti e da Veneti. 

Questi Celti sono della stessa razza dei Celti transalpini, mentre per quanto riguarda i Veneti la spiegazione è duplice. 

Alcuni sostengono infatti che siano un ramo degli omonimi Celti abitanti lungo l’Oceano, altri che siano dei Veneti della Paflagonia, salvatisi qui con Antenore dopo la guerra di Troia. 

A prova di questa loro affermazione costoro citano il loro zelo per l’allevamento dei cavalli, attività oggi completamente scomparsa, ma un tempo molto in onore presso di loro e derivante da una antica predilezione per le cavalle generatrici di muli, cui allude Omero: “dal paese dei Veneti, da cui (proviene) una razza di muli selvatici”. 

E Dionigi, il tiranno di Sicilia, aveva fatto venire di qui il suo allevamento di cavalli da corsa, tanto che i Greci conobbero la fama degli allevatori veneti e questa razza divenne per lungo tempo celebre presso di loro.


L’intero territorio abbonda di fiumi e di lagune, soprattutto nella parte abitata dai Veneti (…).
(…) 

Sono un fatto accertato invece gli onori resi a Diomede presso i Veneti. 

Gli si sacrifica infatti un cavallo bianco e si mostrano due boschi sacri l’uno ad Era Argiva, l’altro ad Artemide Etolia. 

Si favoleggia poi, com’è ovvio, che in questi boschi le fiere diventino domestiche, che i cervi vivano in branco con i lupi, lasciandosi avvicinare ed accarezzare dagli uomini, che la selvaggina inseguita dai cani, non appena rifugiatasi qui, si salva dall’inseguimento.


Si racconta anche che uno dei maggiorenti del luogo, conosciuto perché amava offrirsi come garante e per questo deriso, incontrò dei cacciatori che avevano preso in trappola un lupo.


Costoro, per scherzo, gli promisero che, se dava garanzia per il lupo e pagava il prezzo dei danni che poteva fare, lo avrebbero liberato dai lacci ed egli acconsentì. 

Il lupo, liberato, si imbatté in un gruppo di cavalle non marchiate e le spinse verso la scuderia del suo garante; questi, sensibile a una tale prova di riconoscenza, marchiò le cavalle con un lupo e le chiamò licofore, bestie più rinomate per velocità e per bellezza.


I suoi discendenti conservano il marchio e il nome di questa razza di cavalli e si fecero come legge di non vendere all’estero neppure una giumenta, per mantenere solo per sé la razza autentica, dato che là questo allevamento era diventato famoso.


Ora però, come abbiamo detto, questa attività è del tutto scomparsa (…).

 

 

Fonte: Da “Le fonti letterarie per la storia della Venetia et Histria”
Clizia Voltan, 

 

“Da Omero a Strabone”, Volume I – (Venezia, 1989. Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti)

 

Storia – Veneto – Veneti – Origini

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Feb 16 2009

Meteorologia: I record delle temperature

Category: Geografia e ambiente,Natura e scienzagiorgio @ 07:37

Stazione meteorologica di Vostok

 

Dopo anni  di controversie,  e ripuliti dai valori  che da sempre infestano e che per ancora  molti anni  infesteranno  testi,  atlanti e libri di geografia,  ecco i dati corretti  e reali  degli estremi storici  delle temperature  minime e massime.

 

Record Mondiali


MIN -89,2°C a Vostok, in Antartide, il 21 Luglio 1983


MAX +53,9°C nella Death Valley, negli Stati Uniti, il 18 Luglio 1960, 17 Luglio 1998, 19 Luglio 2005 e 6 Luglio 2007


Record Africani


MIN -23,9°C a Ifrane, in Marocco, l’11 Febbraio 1935


MAX +50,7°C a Semara, nel Sahara Occidentale (Marocco), il 13 Luglio 1961


Record Asiatici


MIN -67,7°C a Oymyakon, in Russia, il 6 Febbraio 1933


MAX +52,8°C a Jacobâbâd, in Pakistan, il 12 Giugno 1919


Record Europei


MIN -58,1°C a Ust’Schugor, in Russia, il 31 Dicembre 1978


MAX +48,5°C a Catenanuova, in Italia (Sicilia) il 10 Agosto 1999


Record Nord Americani


MIN-69,6°C a Klinck, in Groenlandia, il 22 Dicembre 1991

MAX +53,9°C nella Death Valley (Stati Uniti) il 18 Luglio 1960, il 17 Luglio 1998, il 19 Luglio 2005 e il 6 Luglio 2007


Record Sud Americani


MIN -40,0°C a Puesto Viejo, in Cile, il 21 Giugno 2002

MAX +47,3°C a Campo Gallo, in Argentina, il 16 Ottobre 1936


Record Oceanici


MIN -23,0°C a Charlotte Pass, in Australia, il 29 Giugno 1994 


MAX+50,7°C a Oodnadatta, in Australia il 2 Gennaio 1960


Record Antartici


MIN-89,2°C a Vostok il 21 Luglio 1983


MAX +19,8°C a Signy Island, nelle South Orkney Islands, il 30 Gennaio 1982