La conoscenza se non viene condivisa non serve, e anche la vera intelligenza, è tale, solo se gli altri la possono condividere
Feb 23 2009
La conoscenza se non viene condivisa non serve, e anche la vera intelligenza, è tale, solo se gli altri la possono condividere
Feb 23 2009
L’organo mondiale sbugiarda le norme molto piu’ generiche dello stato italiano
Qui c’è tutto quello che lo Stato italiano nega, smentisce, tiene accuratamente nascosto. E che spesso, in molte prese di posizione pubbliche e sui mezzi di comuni cazione, viene ancora oggi sottovalutato, svilito quando non apertamente irriso. Piemontese, Ligure, Lombardo, Veneto, Emiliano-romagnolo, Gallpitalico siciliano, Napoletano-calabrese, Siciliano sono vere e proprie lingue in pericolo.
A ribadirlo ènienemeno che l’Unesco, nella nuova edizione dell’Atlante on line delle lingue in pericolo, pubblicato venerdì scorso in occasione della Giornata internazionale della lingua madre, celebrata ieri in tutto il.mondo.
Nell’ Atlante un’opera interattiva e aperta a nuovi contributi, vengono censite – con tanto di classificazione del livello di rischio corso – almeno 2.500 lingue per le quali si avvicina la scomparsa in tutto il Pianeta.
Una vera e coraggiosa denuncia della sofferenza vissuta dalla nostra biodiversità culturale, messa sempre più in pericolo da quella globalizzazione i cui effetti perversi in economia stiamo in questo periodo conoscendo tutti a nostre spese. Collegandosi al sito internet dell’Unesco è così possibile conoscere, Stato per Stato, con tanto di collegamento alla cartina interattiva di Google, la situazione delle lingue a rischio di tutto il mondo.
La “sorpresa”- ma fino ad un certo punto – che riguarda da vicino i popoli che vivono nello Stato italiano è proprio quella dell’enorme disparità tra l’elenco di lingue a rischio riconosciuto dall’Unesco e l’elenco delle lingue riconosciute da Roma, riportate nello specchietto qui sotto.
Una precisazione: in alcuni casi l’Unesco considera a sé ” diverse varianti di una” stessa lingua considerata invece Unitaria dalla lista della legge italiana.
Per esempio, la Lingua sarda (riconosciuta dallo Stato di fatto come unitaria) viene considerata divisa nelle sue tre componenti tipologiche, oltre naturalmente all’algherese, comunque tutelato a parte nella 482 come “catalano”.
Le “piccole” minoranze nella legge italiana comunque ci sono, ma è tutto il resto che manca.
L’Italia non tutela il Piemontese, il Veneto, il Lombardo (lo fanno – con diverse profondità di intervento – le rispettive Regioni), e molti altri idiomi locali e regionali che invece, per l’Unesco, sarebbero da salvaguardare
Un brutto colpo per chi, ancora oggi, auspica la cancellazione delle identità linguistiche in base ad una non meglio specificata ideologia della “cittadinanza_mondiale”, e a questo punto smentita proprio dalle stesse Nazioni unite.
La lezione che arriva dall’Unesco, e dalla Giornata della Lingua madre appena conclusa è proprio questa: c’è da riflettere e continuare con rinnovato vigore la lotta per il rilancio verso le nuove generazioni di questi veri e propri patrimoni dell’umanità che rischiamo di veder scomparire nel giro di brevissimo tempo. .
UNESCO: LE LINGUE IN PERICOLO DI ESTINZIONE IN ITALIA.
Toitschu, Croato del Molise, Griko del Salento, Griko della Calabria e Gardiol, Occitano, Franco- provenzale, Piemontese, Ligure, Lombardo, Mocheno, Cimbro, Ladino, Sloveno, Friulano, Emiliano-romagnolo, Faetano, Arbereshe, Albanese, Gallo-siciliano, Campidanese, Logudorese, Catalano-algherese, Sassarese e Gallurese, Corso, Walser-Germanico, Veneto, Napoletano-calabrese, Sicilano.
PER LO STATO ITALIANO
legge 482/99 Art. 2
In attuazione dell’articolo 6 della Costituzione e in armonia con i principi generali stabiliti dagli organismi europei e internazionali, la Repubblica tutela la lingua e la cultura. delle popolazioni albanesi, catalane, germaniche, greche, slovene e, croate e di quelle parlanti il francese, il francoprovenzale, il friulano, il ladino, l’occitano e il sardo.
Fonta: srs di GIOVANNI POLLI, da la Padania del 22,02,2009
Feb 22 2009
LIVORNO. L´Unesco ha lanciato a Parigi la versione internet del suo nuovo Atlante delle lingue in pericolo nel mondo. Questo strumento interattivo propone dati aggiornati su circa 2.500 lingue in pericolo nel nostro mondo globalizzato e può essere completato, corretto, attualizzato in diretta grazie al contributo dei suoi utilizzatori. L´Atlante è stato presentato alla vigilia del 21 febbraio, giornata internazionale delle lingua materna e permette di ricercare, secondo diversi criteri e classificazioni, le 2.500 lingue in pericolo di estinzione divise in: vulnerabile, in pericolo, sériamente in pericolo, in situazione critica ed estinta dopo il 1950.
«Alcuni di questi dati sono particolarmente inquietanti – spiega la nota di presentazione dell´Unesco – su circa 6.000 lingue esistenti nel mondo, più di 200 lingue si sono estinte nel corso delle ultime tre generazioni, 538 sono in situazione critica, 502 seriamente in pericolo, 632 in pericolo e 607 vulnerabili».
199 lingue sono ormai parlate da meno si 10 persone, alter 178 hanno ormai tra 10 e 50 locutori. Tre i linguaggi ormai praticamente morti e dimenticati viene citato il Manx, la parlata tradizionale dell´isola di Man, estinto nel 1974 con la scomparsa di Ned Maddrell; l´Aasax della Tanzania, estinto nel 1976, l´Ubykh della Turchia, sparito nel 1992 insieme al signor Tevfik Esenç, l´Eyak dell´Alaska, scomparso nel 2008 con la morte di Marie Smith Jones.
Il direttore dell´Unesco, Koïchiro Matsuura, ha detto che «la scomparsa di una lingua porta alla sparizione di numerose forme del patrimonio culturale immateriale, in particolare della preziosa eredità costituita dalle tradizioni e dalle espressioni orali, dai poemi alle leggende, fino ai proverbi e ai motti di spirito, della comunità che le parla. La perdita delle lingue avviene così a detrimento del rapporto che l´umanità intrattiene con la biodiversità, perche esse veicolano numerose conoscenze sulla natura e l´universo».
Alla redazione dell´Atlantte hanno collaborato più di 30 linguisti che con questo imponente lavoro dimostrano che il fenomeno della scomparsa delle lingue si manifesta in tutti I continenti e in condizioni economiche molto diverse tra loro. Nell´Africa sub-sahariana, dove vengono parlate circa 2.000 lingue diverse (un terzo del totale mondiale) è probabile che nei prossimi cento anni ne scompaiano il 10%.
In India, Usa, Brasile, Indonesia e Messico, Paesi con grande diversità linguistica al loro interno, sono anche quelli che contano il maggior numero di lingue in pericolo di estinzione. In Australia l´inglese sta mettendo a rischio o degradando 108 lingue.
In Italia le lingue a rischio sono 31: 5 sono seriamente in pericolo (Töitschu, Croato del molise, Griko del Salento, Griko della Calabria e Gardiol); 22 in pericolo (Occitano, Franco-provenzale, Piemontese, Ligure, Lombardo. Mocheno, Cimbro, Ladino, Sloveno, Friulano, Emiliano-romagnolo, Faetano, Arbëreshë-Albanese, Gallo-siciliano, Campidanese, Logudorese, Catalano-algherese, Sassarese e Gallurese, Corso), 4 sono vulnerabili (Walzer-Germanico, Veneto, Napoletano-calabrese, Sicilano).
L´Unesco avverte che «La situazione quale presentata nell´Atlante non è però sistematicamente allarmante. Così Papua Nuova Guinea, il Paese che registra la più grande diversità linguistica del pianeta (più di 800 lingue vi sarebbero parlate) è anche quello che ha relativamente meno lingue in pericolo (88)».
Così come, anche se nell´Atlante vengono classificate come estinte, alcune lingue sono oggetto di un´attività di riscoperta e rivitalizzazione il Cornique (Cornovagliese) o il Sîshëë della Nuova Caledonia ed è possibile che queste lingue morte risorgano a nuova vita.
Inoltre, grazie a politiche linguistiche favorevoli, diverse lingue autoctone vedono aumentare i loro locutori. E´ il caso dell´Aymara centrale e del Quetchua in Perù, del Maori in Nuova Zelanda, del Guarani in Paraguay e di diverse lingue amerindie (ed inuit) in Canada, negli Usa e in Messico. L´Atlante dimostra anche che una stessa lingua a destini diversi, per ragioni economiche, per le politiche linguistiche e per fenomeni sociologici, a seconda dei Paesi in cui viene parlata la stessa lingua non mantiene la stessa vitalità.
Per Christopher Moseley, un linguista australiano che ha curato la pubblicazione dell´Atlante, «Sarebbe naif e semplicistico affermare che le grandi lingue che sono state lingue coloniali, come l´Inglese, il Francese e lo Spagnolo) sono dappertutto responsabili dell´estinzione delle altre lingue. Il fenomeno di un sottile equilibrio di forze rilevato in questo Atlante permette ad ognuno di comprendere meglio questo equilibrio».
Secondo l’Unesco, quindi le Nazioni Unite, le lingue in pericolo parlate nello Stato italiano sono 31.
Secondo lo Stato italiano (Legge 482/99), le lingue in pericolo parlate nel suo territorio sono 12.
Non sarebbe forse ora – anche per lo Stato italiano, così come per gli altri Stati – di mettersi al passo con la civiltà anche per quanto riguarda questo delicatissimo argomento, sempre più attuale in un periodo come questo, in cui ci troviamo a fare i conti con il più disastroso fallimento della globalizzazione e della sua ideologia culturalmente genocida? Non c’è altro da aggiungere, a questo punto.
Fonte: Linguedialetti.splinder.com
Feb 22 2009
Il Veneto è la mia Patria.
Sebbene esista una Repubblica Italiana, questa espressione astratta non è la mia Patria.
Noi veneti abbiamo girato il mondo, ma la nostra Patria, quella per cui, se ci fosse da combattere, combatteremmo, è soltanto il Veneto.
Quando vedo scritto all’imbocco dei ponti sul Piave fiume sacro alla Patria, mi commuovo, ma non perché penso all’Italia, bensì perché penso al Veneto.
Goffredo Parise, Il Corriere della Sera, 7 febbraio 1982
Feb 22 2009
Mia nonna tra fratelli e sorelle erano in 15 persone, metà di esse non superarono l’adolescenza, morirono di pellagra, che tradotto, vuol dire, di denutrizione, di fame.
Viveva in una famiglia allargata di quasi 70 persone, e il lavoro, come lo conosciamo oggi, non esisteva, si doveva inventarlo giornalmente; di stabile vi era solo la miseria e la fame, e che fame!
Il lontano ricordo di una miseria “autosufficiente” del periodo veneziano, si era persa nel tempo, e solo qualche amara filastrocca ne riportava in auge il rimpianto.
Me conservo una veronese che, aggiornata al 1870, dice così:
Con San Marco che comandava
se disnava e se senava.
Con la Francia, se disnava solamente
Sotto la casa dei Lorena
un pochetin se disnava e se senava
Sotto Casa de Savoia
de magnar te ga solo voja
i n’à portà na fame roja
e ne toca andar via… vaca troja…vaca troja
Fu così che milioni di veneti, di meridionali, di cittadini di un’ Italia, generata malissimo e vissuta peggio, sudditi di una delle peggiore monarchie europee, al grido di “porca italia” furono costretti ad emigrare.
Finirono sparsi in Europa e nelle Americhe a fare quello che gli schiavi negri, da poco liberati, non volevano più fare.
Feb 22 2009
Invictus
Nella notte che mi avvolge,
Nera come la voragine infinita,
Ringrazio qualsiasi divinità vi sia
Per la mia anima invincibile.
Stretto nella morsa della circostanza
Non ho battuto ciglio o pianto ad alta voce.
Sotto le mazzate del fato
La mia testa sanguina ma non si piega.
Oltre questo luogo di odio e lagrime
Incombe solo l’orrore dell’ombra.
Eppure la minaccia futura
Mi trova, e mi troverà, senza paura.
Non importa quanto angusto è il passaggio
O quanto pesante la sentenza,
Sono padrone del mio destino:
Sono il capitano della mia anima.
William Ernest Henley (1849-1903)
Feb 22 2009
Grasie al so patrimonio paesagistico, storico, artistico e architetonico, el Veneto l’è, con oltre 60 milioni de turisti al’ano, la region pì visità d’Italia.
Le lingue pì parlè i è el Veneto e l’Italian.
In certe zone se parla el ladin, el furlan e el cimbro.
La proposta de lege volta a tutelar la lengua veneta come espresion del patrimonio culturale dei Veneti l’è stà approvà dal consiglio regional a stragrande magioransa el 28 marso 2007.
El Veneto, insieme ala Sardegna, l’è una dele do regioni italiane che vede i so abitanti riconosui uficialmente come popolo.
Fonte: Dino de sandra
Feb 22 2009
El Dino da Sandrà no l’è un politico. No l’è un scritor. No l’è un giornalista e gnanca un profesor.
Seto ci l’è el Dino?
El Dino l’è un butel che ga oia de pasar la duminica al bar coi so amisi a vardar le partìe.
El Dino l’è un butel che de tanto in tanto ga oia de ciavar co la so morosa, e se la morosa no la gh’è el se ciava anca na galina coi calseti.
El Dino l’è un butel che ga oia de farse na bela magnada e in mona tuti i rompibale.
El Dino l’è un butel che vol goderse le belese del mondo ndo sen capitè a vivar.
El Dino te sé ti!
Fonte: dino.da.sandra
Feb 22 2009
Adriano Olivetti, l’utopico e allo stesso tempo concreto programmatore di futuro e di Comunità, sul primo numero della rivista dell’Istituto nazionale di urbanistica, nel 1949, scriveva:
“L’urbanistica reclama la pianificazione; e può darsi una pianificazione democratica, cioè libera? Questo interrogativo dominerà implicitamente o esplicitamente il nostro lavoro. E’ soltanto nella soluzione del rapporto individuo-collettività… che è possibile anticipare la soluzione”.
Sei anni dopo, nel 1954, in una lettera agli urbanisti italiani, commentava amaro la dissennata dissipazione del territorio italiano:
“La politica italiana non ha voluto accettare il metodo scientifico e con esso moderne tecniche di pianificazione urbana e rurale, non ha voluto né potuto dar luogo ad audaci e preveggenti piani regolatori, onde le nostre città stanno impaludando in un caotico disordine”.
Feb 21 2009
La prima evidenza scritta della convinzione religiosa della separazione tra anima e corpo nelle antiche civiltà del Medio Oriente, è stata scoperta da un gruppo di archeologi americani nel sito di Zincirli, in Turchia, vicino al confine con la Siria.
Fino a questo momento si riteneva che in tutte le culture semitiche (Arabi, Ebrei, Cananeo-Fenici, Cartaginesi) l’anima e il corpo fossero considerati indissolubili, tanto che la cremazione del defunti era espressamente vietata. Soltanto nelle popolazioni camite dell’Africa, come gli Egizi, si riteneva che dopo la morte l’anima sopravvivesse indipendentemente dal corpo.
Scavando nell’antica città di Sam’al, presso l’attuale Zincirli, gli archeologi dell’Università di Chicago hanno rinvenuto una stele di basalto, che risale a circa l’800 a.C., con scritte in una lingua semitica che sembra essere una arcaica variante dell’aramaico. La stele, pesante 400 chili e alta 1,2 metri, era stata fatta costruire da un funzionario reale, Kuttamuwa, come luogo di riposo della sua anima dopo la morte.
Sulla stele si legge: “lo, Kuttamuwa, servo del re Panamuwa, ho provveduto in vita alla produzione di questa stele. L’ ho posta nella camera eterna e ho disposto un banchetto per (il dio della tempesta) Hadad, un montone per (il dio del Sole) Shamash, … e un montone per la mia anima che è in questa stele”.
Accanto alla scritta è incisa la figura di un uomo, presumibilmente Kuttamuwa, con la barba e un copricapo, nell’atto di sollevare un calice di vino, mentre è seduto davanti a una tavola imbandita con pane e un’anatra arrostita.
Un’immagine del genere, sottolineano gli studiosi, rappresentava un invito a portare offerte votive di vino e cibo davanti alla tomba di un defunto. Come ha precisato Joseph Wegner, egittologo dell’Universitàdella Pennsylvania, in Medio Oriente era pratica diffusa portare offerte votive ai morti, ma fino a questo momento non esisteva alcuna testimonianza del concetto della separazione tra anima e corpo in queste civiltà. Peraltro, il ritrovamento nel sito di urne che sembrano dovessero contenere le ceneri dei defunti fa supporre che le popolazioni di Sam’al praticassero la cremazione. La stele di Zincirli rappresenta dunque il più antico (e finora unico) “monumento all’anima” rinvenuto nel Medio Oriente.
Inoltre la scoperta getta una nuova sorprendente luce sulle credenze della vita ultraterrena nell’Età del ferro, e in particolare sulla credenza che l’identità, “l’anima”, del defunto, permanesse abitando all’interno del monumento su cui era stata tracciata la sua immagine, come sottolinea la frase finale dell’incisione
Fonte: Storica – National Geographic – numero 1, marzo 2009
Feb 21 2009
L’importanza storica della pietra di Palermo è stata lungamente oscurata dalla famosa pietra di Rosetta, ma Jill Kamil dice che ora la sta riconsiderando come autentico documento storico dell’antico Egitto. La cosiddetta pietra di Palermo è il più grande e meglio conservato dei frammenti di una lastra rettangolare di basalto, conosciuta come gli annali reali dell’Antico Regno d’Egitto. La sua origine è sconosciuta, ma può provenire da un tempio o da un’altra costruzione importante.
Dal 1866 la pietra è a Palermo in Sicilia – città da cui prende il nome – ed ora si trova nel Museo Archeologico Regionale “Antonio Salinas”. La parte restante misura cm 43 d’altezza per 30,5 di larghezza, mentre in origine si ipotizza che avesse una lunghezza di circa 2 metri ed un’altezza di 60 cm.
Altri frammenti della stessa lastra comparvero sul mercato antiquario fra il 1895 ed il 1963 e sono ora nel Museo Egiziano al Cairo e nel museo Petrie, presso l’Università di Londra.
Estratta dagli annali reali, la “Lista dei Re” predinastici è nel registro superiore della pietra di Palermo. È seguita dagli annali del regno dell’Egitto dall’inizio sino ai re della quinta dinastia. Sotto ogni nome sono indicati gli anni degli eventi importanti, la maggior parte di una natura rituale, e l’altezza dell’inondazione del Nilo è notata alla parte inferiore. Circa 13 studi importanti sono stati intrapresi sui frammenti della pietra e, da quando i primi sono stati pubblicati da Heinrich Schöfer nel 1902, gli eruditi sono stati divisi quanto a come interpretare le implicazioni del testo. Alcuni hanno insistito che i re predinastici elencati sulla pietra effettivamente esistessero, anche se nessuna ulteriore prova ancora era emersa. Altri hanno mantenuto il parere che la loro inclusione su una lista di re era soltanto un espediente ideologico, per indicare che prima dell’unificazione delle due terre dell’Egitto superiore e inferiore, da parte di Narmer/Menes, c’era il caos. Disordine prima di ordine. Sconosciuta fuori della cerchia degli studiosi, la pietra non è abbastanza conosciuta dal pubblico, forse perché è in diversi frammenti e non le viene attribuito nessun valore artistico.
Ora, tuttavia, conosciamo la verità, perché gli archeologi hanno identificato 15 re predinastici, realmente esistiti, tra quelli elencati sulla pietra di Palermo. La pietra di Palermo, con la relativa serie di notazioni apparentemente enigmatica, può essere stata il primo documento storico dell’Egitto. La pietra rivela che i re più antichi, prima dell’inizio del periodo storico, si spostavano ad ampio raggio e con una certa regolarità. Inoltre registra che nei primi periodi dinastici, fra il 2890 ed il 2686 a.C., si conosceva già la fusione del rame e si realizzavano statue. Inoltre che le campagne militari effettuate in Nubia portarono alla cattura di 7.000 schiavi e di 200.000 capi di bestiame. Si facevano spedizioni alle miniere di turchese del Sinai; e 80.000 misure di mirra, 6.000 unità di electrum, 2.900 unità di legno e 23.020 misure di unguenti erano importate da Punt, sul litorale della Somalia moderna. Non era una società primitiva dedita alle lotte, alla soglia della civilizzazione, ma una già stabilita che stava forgiando il proprio carattere e affermava la propria identità.
Quando Toby Wilkinson dell’università di Cambridge, autore del libro “Early Dynastic Egypt”, ha presentato un documento sulla pietra di Palermo al congresso internazionale di Egittologia tenuto a Londra nel dicembre 2000, ha rianimato l’interesse sulla pietra. Infatti, è stupefacente che in quest’epoca di tecnologie informatiche egli fosse il primo erudito a riunire ed esaminare tutti e sette i frammenti della pietra insieme. Ha citato le discussioni iniziali pro e contro l’importanza del testo ed ha concluso che è stato intagliato, come la pietra di Rosetta, come corredo ad un culto degli antenati, un progetto di una sequenza continua della successione fino al regno del re Sneferu della Quinta Dinastia, che raggiunse un gran picco di prosperità; nel periodo quando i grandi monumenti sono stati costruiti ed in cui non meno di 40 navi portarono legno da una regione sconosciuta fuori del paese.
Nella loro forma originale gli annali reali erano divisi in due registri. Il registro superiore a sua volta era suddiviso nelle parti che descrivono i nomi dei re predinastici con gli anni di regno e gli eventi importanti nei loro regni, seguiti dalle notazioni di tali eventi come l’inondazione del Nilo, il censimento biennale del bestiame, cerimonie di culto, tasse, la scultura, le costruzioni e la guerra. Sono elencati centinaia di regnanti. È il testo storico più vecchio sopravvissuto dell’Egitto antico ed è la base dei dati storici e delle cronologie successive.
Alcuni re hanno registrato esplicitamente che le divinità egiziane sono arrivate simultaneamente con il loro regno. Il dio Sheshat, per esempio, è stato associato con un’attività conosciuta come “allungamento della corda” (probabilmente riferendosi al fatto di misurare le zone per le costruzioni o i santuari sacri). Altri gettano le basi delle costruzioni che sono state denominate “trono degli Dei”. Tali attività erano considerate sufficiente importanti da servire da punti di riferimento e sono state espresse in tali termini specifici come la “nascita di Anubis”, “la nascita di Min” e la “nascita” di altri dei associati con fertilità e la potenza del maschio quale Min di Coptos e Heryshef che è rappresentato solitamente sotto forma d’un ariete.
Finora, tali notazioni sembravano avere poco significato. Ma oggi gli eruditi conoscono tanto più circa il periodo di formazione della civiltà egiziana che possiamo riconsiderare almeno 21 delle 30 entrate dispari sulla pietra di Palermo, particolarmente quelle che si riferiscono al fatto di creare le immagini degli dei da quelle dei re, perché la prova archeologica sostiene l’idea dello sviluppo uniforme del centro di culto; cioè, gli scavi effettuati in alcuni dei luoghi di stabilimento più antichi ne rivelano l’uniformità. Una caratteristica comune, per esempio, è che tutti i recinti sacri erano sottratti agli occhi del pubblico e circondati da muri. Un altro sono i ritrovamenti delle offerte votive, oggetti grezzi o cotti d’argilla che a volte si contano a centinaia, probabilmente fatte dagli artigiani locali per la gente semplice che desiderava fare le offerti al dio. Effettivamente, l’uniformità può essere veduta chiaramente negli stessi dei. In forma umana, o in un corpo umano con testa d’animale, d’uccello, di rettile o d’insetto, sono rimaste uguali agli archetipi per tutte le generazioni successive.
Abbastanza interessante è il fatto che gli dei mantennero caratteri vaghi durante la storia egiziana, più tardi descritti nei termini quale “quello di Ombos” (Set), “quello di Edfu” (Horus), “quella di Sais” (Neith) e “quello di Qift” (Coptos). Nessuno di loro era più importante degli altri. Le preghiere e gli inni indirizzati loro differivano soltanto negli epiteti e negli attributi. Era chiaramente il posto, non il dio, che importava, il posto scelto per la sua posizione strategica.
Il centro di culto della dea dalla testa d’avvoltoio Nekhbet, per esempio, era sulla sponda orientale del Nilo a Nekheb (Al-Kab moderno), che dava accesso al deserto orientale ricco di minerali con giacimenti di rame, d’agata e di diaspro. Quello di Pe (Buto) nel delta del Nilo, era un punto di partenza per il commercio con il Medio Oriente. Coptos (Qift) era quasi di fronte alla bocca del wadi Hammamat, la via più breve verso il Mar Rosso e le vene aurifere del deserto orientale.
La creazione delle immagini e l’istituzione dei centri di culto accennati sulla pietra di Palermo si trova anche nei testi della piramide (iscritti sulle pareti dai re che hanno regnato verso la conclusione dell’Antico Regno) e nel cosiddetto Dramma di Memphis (un testo sopravvissuto in una copia tardiva, esplicito sulla creazione dei culti, sull’istituzione dei santuari e sulla fabbricazione delle statue divine con i loro segni distintivi raffiguranti una pianta, un uccello o un animale totemico della comunità, “fatti con ogni legno, ogni pietra, ogni pezzo di creta”).
Oltre all’identificazione con il re, servivano al livello popolare. Gli antichi Egizi giunsero a credere che la statua nel santuario tenesse la chiave per un buon raccolto, salute e fertilità e compivano gesti pii che non erano molto differenti da oggi, con le offerte e preghiere ai santuari dei santi cristiani e degli sceicchi musulmani. I gesti di devozione sono una pratica consacrata che ha chiare radici nel passato più antico.
Questo è così affascinante negli studi di Wilkinson sulla pietra di Palermo. I successi materiali di una condizione unificata dipendevano dalle risorse della terra e dal commercio e c’è ogni indicazione che la relativa gestione fosse stata tracciata sin dalla fase iniziale. La creazione dei centri di culto non solo ha neutralizzato le differenze fra i vari insediamenti dell’Egitto superiore e inferiore, ma ha generato un forte legame fra la gente di tutti gli strati della società. E, più importante, quando il re assisteva alle feste di “nascita” degli dei e faceva le dotazioni reali sotto forma di pane e torte, buoi ed altro bestiame, oche ed altri uccelli e vasi di birra e di vino, l’occasione della sua visita era accompagnata dalle celebrazioni annuali che comportavano il macello degli animali sacrificali in suo onore. Queste offerte, poste sull’altare del santuario e soddisfacenti una volta una funzione religiosa, erano prese dal “servi del dio” , ossia i sacerdoti che curavano i santuari e le statue degli dei, in parte per trattenerle ed in parte per distribuirle alla gente. La costruzione degli edifici per il culto reale sembra essere stato il progetto più importante del regno di ciascun re, ed assorbiva gran parte del reddito di corte. Il concetto che gli dei ed il re avessero richieste reciproche l’uno nei confronti dell’altro dovevano essere forti, ma c’era sempre il rischio della resistenza e quando questo accadeva il re, a quanto pare, negava la prestazione del culto. Nei testi della piramide (molti dei quali sono datati ai periodi predinastici, come quelli che comprendono le frasi che si riferiscono ad un periodo in cui i morti erano posti a riposare in semplici fosse nella sabbia ed in cui gli animali del deserto potevano profanare i corpi), sono le espressioni in cui il re enfatizza il fatto che ha potere sopra gli dei, e che è lui che “concede il potere e toglie il potere, cui nessuno sfugge”.
L’effetto di una tal minaccia su una comunità che già aveva una forte identità e sui “servi del dio”, che prestavano assistenza ai santuari, può essere immaginato bene. Arrivava alla minaccia di annientamento ed alla perdita di prestigio. Secondo Erodoto, sopravviveva una tradizione che sosteneva che Khufu, il costruttore della grande piramide, avesse chiuso nel Paese i templi. Fra le sue prescrizioni, ricordate sin dai tempi antichi, erano la “cacciata” di Horus; , la “cattura” di Horus; e la “decapitazione” di Horus;. In un cartiglio d’avorio trovato a Abydos che data al regno del re Den, della Prima Dinastia, il re è indicato in una posa che doveva diventare classica: mentre schiaccia un nemico con un randello levato. Il re dell’Egitto, padrone degli accessi alle risorse naturali e alle terre vicine; e dei santuari costruiti agli dei, come è registrato sulla pietra di Palermo, possedeva e condivideva una caratteristica comune con i capi di molte antiche società? Era un signore della guerra?
La PROVA è che le immagini impresse in sigilli e terraglie del primo periodo dinastico rivelano le immagini dei Faraoni impegnati in varie attività rituali ed alcuni dei testi di accompagnamento si riferiscono a statue fatte d’oro e di rame. Questa immagine proviene dal quinto registro della pietra di Palermo e si riferisce ad una statua di rame fatta nel regno di Khesekhemwy, o del suo successore dello stesso nome. Qui è scritta la prova che il rame statuario era noto e prodotto molto prima delle immagini ben note di Pepi I e di Merenre, trovate nel tempio di Hierakonpolis ed ora nel museo egiziano. I re sono raffigurati talvolta con la corona rossa, a volte con quella bianca, come quello qui rappresentato. Alcuni bassorilievi mostrano il re che cammina, o che accenna un passo in avanti.
Fonte: Al Ahram Weekly, 12-18 febbraio 2009.
Feb 21 2009
Tra due ali di folla sfila in piazza Bra il carro «Anche i tosi ballano la tarantella» del gruppo Brusalitri di Oppeano: una maxicaricatura del sindaco Tosi circondato dai cartelli con i suoi ormai famosi divieti
Si rinnova per la 479ª volta la tradizione del Carnevale di Verona, il corteo nelle strade del centro richiama cittadini di ogni età
Di Alessandra Galetto
Foto Marchiori
Partecipazione record nonostante il freddo, suggestivo anche lo spettacolo «by night» dopo il tramonto
In almeno 40mila hanno sfidato ieri un rigido pomeriggio di febbraio per seguire la sfilata dei carri e partecipare alla festa del 479° «Bacanal del Gnoco», il primo ad offrire i carri illuminati, al calar delle tenebre. Insomma un Venardi gnocolar con un corteo che si è chiuso in notturna. E, come avviene da qualche anno, ieri il carnevale veronese ha offerto anche quella vena ironica sui problemi dell’oggi e sull’attualità politica.
Lo dimostrano i due carri «dedicati» al sindaco Flavio Tosi (nella foto, quello sui divieti istituiti), sindaco che anche con la sua partecipazione «popolaresca» alla sfilata, ha accentuato questo nuovo aspetto del Bacanal che «riflette» sul presente.
Sarà ricordato come il carnevale di Flavio Tosi.
E c’è da sperare che il 479° Papà del Gnoco, al secolo Pietro Robbi detto Sandokan, non sia un tipo troppo permaloso, perché il suo primato ieri pomeriggio ha rischiato di essere scalzato dal successo ottenuto dall’apparizione del sindaco Tosi tra la folla della Bra, salito di persona sui due carri a lui ispirati, il numero 39 intitolato «Se fossi sceriffo» ideato da Pozzomoretto, e il 49 «Anche i tosi ballano la tarantella» dei Brusalitri di Oppeano. Salito a metà del Liston sul primo e poi davanti a palazzo Barbieri sul secondo, Tosi ha salutato con cappello da sceriffo in testa la folla che lo applaudiva, togliendo almeno in parte la prima pagina al sovrano che (ancora) detiene il «piron», che nel caso della tradizione nostrana vale come scettro, cioè il Papà del Gnoco.
«Mi sono calato nella parte», ha ammesso il sindaco, a proposito del look da sceriffo, aggiungendo: «A carnevale ogni scherzo vale, anche questo. E poi ci ho guadagnato: nel carro sono stato ritratto più bello di quanto sia in realtà, mi è andata bene».
Ma andiamo con ordine. La manifestazione, cominciata alle 14 circa con la partenza da porta Nuova del corteo lungo sei chilometri, costituito da una settantina di carri e oltre 7.500 figuranti, è stata favorita dal tempo: se il 2008 aveva visto una giornata grigia e nebbiosa, questa volta il cielo sereno, nonostante l’aria fredda, ha invogliato i veronesi a partecipare.
Circa 40mila persone, secondo i dati forniti dai vigili, hanno assistito alla sfilata, con tutti i parcheggi a ridosso del centro presi d’assalto. Solo pochi però hanno resistito fino alla fine. Infatti che il 479° Bacanal del gnoco, oltre che come il carnevale di Tosi, potrà essere ricordato anche come quello del corteo senza fine: anche troppo lungo. È vero che gli organizzatori lo avevano annunciato e il patron Luigi D’Agostino, ieri prima delle 15 in Bra lo aveva ribadito: «La novità di questa edizione è l’arrivo in notturna a San Zeno, con i carri illuminati». Ma è finita verso le 21, oltre le previsioni.
Il colpo d’occhio c’è stato, va riconosciuto, maschere e carri dopo il tramonto sono apparsi suggestivi, ma eccessive pause tra un carro e l’altro, soprattutto nella seconda parte della sfilata, hanno reso difficile per il pubblico assistere a tutto lo spettacolo.
Un peccato, perché proprio alla fine hanno sfilato alcuni dei nuovi carri, grandi e sgargianti nei loro colori: come «Dei e miti di oggi», «il Pandamonio», «Perbacco che Venere», «Inferno 2009». Da segnalare per l’ironia il carro riferito a Tosi, «Anche i tosi ballano la Tarantella»: il viso gigante del sindaco sbuca dall’Arena circondato dai cartelli dei «suoi» divieti: dai panini alla prostituzione, dall’accattonaggio agli alcolici.
Qualche problema si è avuto all’altezza della svolta di ponte Nuovo: alcuni carri, di grandi dimensioni, non sono riusciti subito a compiere la manovra necessaria per immettersi su lungadige Rubele e si sono incastrati, c’è voluto un intervento speciale per riprendere la sfilata. Anche questo ritardo ha reso più difficile per il pubblico seguire tutta la sfilata: quando gli ultimi carri sono passati, in giro c’era poca gente. Molto efficiente invece il servizio dell’Amia: già intorno alle 18.30 le macchine pulitrici erano in azione in stradone Maffei e corso San Fermo.A.G.
Fonte: srs di Alessandra Galetto, da L’arena di Verona del Sabato 21 Febbraio 2009
CRONACA, pagina 7 /Foto Marchiori
Feb 21 2009
Ondata di calore del 2003 – Image courtesy of NASA
In un torrido pomeriggio di quell’Agosto del 2003, intrappolato, per motivi di lavoro, in una rovente Milano, recandomi per una passeggiata al Parco Sempione, fui assolutamente sorpreso da una sensazione di refrigerio che andava ben al di là delle mie aspettative. Quell’ondata di calore causò un incremento della mortalità di circa 35.000 persone su scala europea colpendo sopratutto le popolazioni delle grandi aree urbane del nostro continente.
Anche in assenza di tali episodi eccezionali non è però difficile rendersi conto delle marcate differenze climatiche esistenti tra le città e i loro immediati dintorni.
Considerando che quasi la metà della popolazione mondiale e circa i tre quarti di quella dei paesi sviluppati vivono ormai nelle città, stupisce la scarsa popolarità di cui il fenomeno delle isole di calore urbane (urban heat islands) gode tra i mass media.
Tale fenomeno infatti, oltre a riguardare un’altissima percentuale della popolazione mondiale, determina delle anomalie termiche locali ben superiori rispetto a quelle causate dal più noto global warming1. Da non sottovalutare, inoltre, l’effetto sulle precipitazioni con incrementi dell’ordine del 30% nei centri urbani rispetto alle zone periferiche e l’impatto su umidità e ventilazione.
Gli scarti termici positivi risultano notevoli durante la notte (particolarmente nella stagione invernale) mentre si attenuano notevolmente (e in taluni casi si annullano o diventano negativi) nelle ore diurne. Quest’ultimo fenomeno è attribuibile ai moti convettivi generati dall’isola di calore stessa che, rimescolando le masse d’aria, comportano l’afflusso di aria più fresca dagli strati più in alto nonché una convergenza nei bassi strati verso il centro di brezze che spirano dalla periferia.
Date le particolari peculiarità delle aree ad alta intensità urbana le cause del fenomeno delle isole di calore urbane vanno ricercate in un complesso insieme di fattori:
1. le proprietà dei materiali predominanti in termini di conducibilità e capacità termica determinano un maggiore assorbimento di energia solare. Le pareti degli edifici o l’asfalto delle strade possono, ad es., raggiungere, durante la stagione estiva, temperature fino a 90°C e oltre.
2. le caratteristiche orografiche delle città e le proprietà dei materiali predominanti in termini di emissività ed effetto albedo, danno luogo al cosiddetto “effetto canyon”. L’emissione in termini di radiazione infrarossa uscente da parte delle superfici urbane rimbalza su analoghe superfici a causa dell’assetto geometrico delle città, come in un gioco di specchi, rimanendo a lungo intrappolata tra le facciate degli edifici ed il fondo stradale prima di venire rilasciata nell’atmosfera.
3. la progressiva scomparsa dall’ambiente urbano della vegetazione annulla l’effetto dell’evapotraspirazione delle piante.
4. Per ogni grammo di acqua evaporata le piante assorbono 633 calorie
5. New York: le zone con più vegetazione sono più fredde – Image courtesy of NASA
6. Quest’ultima è legata alla fotosintesi clorofilliana che implica l’assorbimento da parte delle piante di grandi quantità di energia (luce nelle porzioni rossa e azzurro-violetta dello spettro visibile) per la produzione di NADPH2 e ATP3 utilizzati per ridurre l’anidride carbonica e sintetizzare gli zuccheri. Durante l’assunzione di biossido di carbonio dall’atmosfera le piante rilasciano, tramite le aperture stomatiche, vapore acqueo. In altre parole, le foglie colpite dai raggi solari, per poter assumere anidride carbonica dall’atmosfera, cedono acqua all’ambiente circostante sottoforma di vapore. Per tale passaggio di stato dell’acqua le piante necessitano di una notevole quantità di energia che sottraggono all’ambiente circostante4. Un’area di 100 mq a piante ad alto fusto può raggiungere un livello di traspirazione di 50.000 litri al giorno, sottraendo all’ambiente circostante circa 31.650.000 calorie, altrimenti assorbite dagli edifici e rilasciate come calore5. Un altro effetto microclimatico da non sottovalutare consiste nella riduzione della radiazione solare incidente su edifici ombreggiati da vegetazione.
7. la maggiore concentrazione di fattori inquinanti e in particolare degli aerosol ha un effetto misto e parzialmente mitigante per quanto riguarda il campo termico oltre a determinare un incremento delle precipitazioni e un minore soleggiamento.
8. l’immissione di calore artificiale generato da impianti industriali, impianti di condizionamento e riscaldamento, frigoriferi, mezzi di trasporto e altre fonti di calore aggiuntivo legate, in generale, alle attività antropiche.
9. i processi metabolici degli abitanti (umani e non) implicano un’aggiunta di circa 10-20 Watt per metro quadro e oltre6.
In ambito scientifico si tende a considerare il fenomeno delle urban heat islands come avente un impatto irrilevante7 o di modesta entità8 sui trend climatici globali.
Tali valutazioni non ci devono però indurre a minimizzare la portata delle trasformazioni climatiche negli ambienti nei quali viviamo imponendoci una diversa pianificazione delle città con una diversa attenzione ai materiali utilizzati includendo “pareti verdi”9, giardini pensili e “tetti verdi”.
In un contesto di global warming in cui le estati urbane sono sempre più a rischio, non possiamo permetterci il lusso di ignorare il fatto che una parete inverdita possa avere una temperatura invernale superiore di 5°C e una estiva di 30°C inferiore rispetto a una parete tradizionale10, oppure che sempre, una parete inverdita può ridurre la dispersione di calore di un edificio del 38%11 permettendo un enorme risparmio energetico.
Secondo uno studio dell’Università di Singapore12, invece, solo cambiando il colore della facciata dei palazzi da scuro a chiaro la temperatura della stessa può scendere di ben 6°C permettendo un risparmio energetico nelle abitazioni di circa il 9%. Lo stesso studio rilevava, inoltre, l’enorme effetto mitigante esercitato dalla presenza di parchi con differenze della temperatura dell’aria anche di 5°C tra le diverse zone dell’isola di Singapore13. Sempre questo studio, infine, rilevava come gli appartamenti situati nelle zone prospicienti i parchi avessero un consumo medio di energia inferiore di circa il 10% data la loro minore necessità di climatizzazione.
Concludendo possiamo dunque affermare che una più attenta pianificazione degli spazi urbani, con il contributo ad es. della bioedilizia, associata all’utilizzo di tecnologie che consentano un maggiore risparmio energetico possa avere potenzialmente enormi effetti mitiganti nell’ordine di grandezza di alcuni gradi ovvero tali, in molti casi, da controbilanciare localmente il trend positivo globale previsto per i prossimi decenni.
Note
1 Tale surriscaldamento è valutato nell’ordine degli 1-6°C (fonte: United States Environmental Protection Agency).
2 Nicotinammide adenina dinucleotide fosfato ridotto, composto riducente ad alta energia.
3 L’Adenosintrifosfato o ATP è un ribonucleotide trifosfato formato da una base azotata, cioè l’adenina, dal ribosio, che è uno zucchero pentoso, e da tre gruppi fosfato.
4 Per ogni grammo di acqua evaporata le piante assorbono 633 calorie.
5 F.Margelli (CNR-ISAC Laboratorio LaRIA), S. Rossi (CNR-IBIMET),. T.Georgiadis (CNR-IBIMET)
6 Vedi http://www.globe.gov/fsl/scientistsblog/?m=200702.
7 Thomas C. Peterson: Assessment of Urban Versus Rural In Situ Surface Temperatures in the Contiguous United States: No Difference Found (Journal of Climate, Volume 16, Issue 18, September 2003).
8 Secondo l’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change), l’effetto globale sulle terre emerse consisterebbe in un riscaldamento inferiore a 0,006°C per decade.
9 Per parete verde viene inteso un fronte edilizio ricoperto da specie vegetali aventi intrinseche caratteristiche rampicanti e/o ricadenti aggrappate direttamente o indirettamente, tramite supporti verticali di sostegno, alla muratura (Antonella Bellomo, “Pareti verdi”, 2003).
10 Rudi Baumann, Begrünte Architektur. Bauen und Gestalten mit Kletterpflanzen Callwey München 1985.
11 Häuser mit grünem Pelz, Minke / Witter, Fricke Verlag, 1983.
12 “A Study of Urban Heat Island in Singapore”, Associate Professor Wong Nyuk Hien, Programme Director, MSc (Building Science), National University of Singapore.
13 E’ questo il caso dell’area industriale di Tuas comparata alla zona ad alta densità di vegetazione vicino Tengah, nel nord-ovest dell’isola.
Bibliografia
http://en.wikipedia.org/wiki/Urban_heat_island
http://www.scienzaonline.com/ambiente/riscaldamento_della_citta.html
http://www.epa.gov/heatislands/
http://www.nus.edu.sg/corporate/research/gallery/research34.htm
http://geography.about.com/od/urbaneconomicgeography/a/urbanheatisland.htm
Fonte: da srs di Andrea Binetti/clima.meteogiornale /04 aprile 2007
Feb 21 2009
La sonda automatica giapponese Kaguya ha da poco trasmesso quest’immagine splendida della Terra che eclissa il Sole, vista dalla Luna, scattata il 10 febbraio scorso.
Il Sole è quasi completamente occultato dal nostro pianeta, e illumina in controluce l’atmosfera terrestre, formando un anello sottile che rende molto chiaramente l’idea di quanto sia tenue lo strato d’aria nel quale vivono tutte le creature del nostro mondo e nel quale rigurgitiamo ogni sorta di porcherie.
A cosa serve l’esplorazione spaziale? A fare scienza, certo, ma anche, e forse soprattutto, a fornire immagini come questa, che più di mille grafici fanno capire quando sia fragile l’ambiente in cui viviamo. E ci fanno ricordare che è l’unico che c’è: rovinato quello, non possiamo andare al centro commerciale a comperarne un altro.
L’immagine è stata scattata mentre la Terra era parzialmente coperta dall’orizzonte lunare, che in questo fotogramma è buio e taglia l’anello dell’atmosfera terrestre in basso.
Fonte: JAXA/NHK/ attivissimo