Nell’intervallo di tempo che corse dall’estate del 1861 all’autunno del 1863 si svolsero in Puglia le gesta più formidabili del brigantaggio; il quale per audacia di tentativi e per numero di seguaci, arrivò a tal segno da infrangere la fiducia d’ogni classe di cittadini nelle nuove istituzioni.
A nord, fra il basso Molise, il Beneventano e la Capitanata, imperversavano le bande di Varanelli, Schiavone, Del Sambro e Caruso di Torremaggiore, che era il più sanguinano e crudele dei briganti pugliesi; nel montuoso Gargano infuriava con Palumbo, Sammarchese, Scirpoli, Paletta ed altri fuoriusciti il feroce Gatta, orbo da un occhio; e a mezzogiorno della medesima provincia, tiranneggiava Palliacello: erano centinaia e centinaia di predoni, che sovente si adunavano al bosco delle grotte, non lungi dal Fortore, ove anche convenivano, per macchinare più arrischiate imprese, Crocco, Minelli, Cicogna e simili protagonisti della reazione borbonica.
A sud, nella penisola salentina, scorazzavano altre numerose, ma piccole bande, capitanate da La Veneziana, Mazzeo, Trinchera, Monaco, Valente, Scarati, Perrone, Cristilli e Locaso, che con una orda composta in gran parte di contadini di Santeramo batteva gli estremi limiti di Puglia, Basilicata e Calabria. Al centro della regione, in Terra di Bari, oltre al sergente Romano, correvano le nostre pianure Francesco Saverio l’Abbate di Polignano, Cataldo Franchi di Ruvo, Luigi Terrone di Corato, Riccardo Carbone e Riccardo Colasuonno (Ciucciariello) di Andria; Marco e Scipione de Palo di Terlizzi, Bellettieri di Spinazzola ed altri minori duci.
Alle quotidiana rappresaglia di torme indigene si aggiungevano qui le irruzioni delle masnade finitime, favorite dall’intermedia positura dell’agro barese. Carmine Donatello, che stanziava d’ordinario sulle rive dell’Ofanto, Giuseppe Nicola Summa, che soggiornava nei boschi di Lagopesole, Tortora, Cavalcante, Coppolone, Serravalle, il Capraro, Nenna Nenna e Pizzichicchio, il quale aveva il suo quartiere fra le macchie di San Marzano, in Terra d’Otranto; quasi tutti i capi banda di Basilicata e Lecce, a brevi intervalli, connivente il Romano, piombavano sull’agro barese, apportandovi calamità inaudite. Gravi minacce incombevano sulla provincia di Bari nell’autunno del 1861. Un ufficio riservatissimo, inviato dalla nostra prefettura al presidente della Gran Corte Criminale di Trani, riferendosi agli arresti compiuti nel comune di Gioia in conseguenza della nota sommossa, si esprime così circa il contegno delle nostre popolazioni:
“Credo opportuno mettere sotto gli occhi di V.S. che la condizione dei tempi che corrono, è più grave di quella in cui furono eseguiti gli arresti; che la ridicola credenza dell’avvenuta o possibile restorazione dei Borboni è generale nel basso popolo, che l’impudenza nell’agitarsi e spargere tali notizie, precisamente dalle famiglie dei detenuti, è massima, che il Governo è vivamente preoccupato dalla possibilità di una invasione generale nel Barese dei numerosi briganti concentrati sul confine della Basilicata”.
E vari dispacci, anch’essi urgenti e riservati, spediti nei primi di ottobre dal Ministero degli Interni al nostro governatore, esortavano le autorità a vigilare sui movimenti delle torme lucane, le quali ordinavano tentativi reazionari ed incursioni ai danni di queste ubertose contrade.
Infatti, nel successivo novembre, il generale carlista José Boryes, che aveva assunto la direzione suprema delle ciurme operanti nella Basilicata, apparve minaccioso tra le colline di Altamura; ma, fossero i dissensi e le gelosie che allora agitavano la comitiva del Donatello, invido e sospettoso della presenza e della superiorità dell’avventuriero catalano, fossero le provvidenze dei nostri governanti o altri motivi che non ci è dato conoscere, la spedizione si fermò, a quanto pare, sul confine delle due province, e non ebbe ulteriori effetti.
Di lì a tre mesi, però fu ritentata, e compiuta.
Duecento banditi a cavallo, agli ordini di Crocco e compartecipe il Romano, il 24 febbraio 1861 entrano in Terra di Bari e avanzano fin sotto le campagne di Andria e di Corato.
Qui uccidono a fucilate alcuni militi coratini che andavano in cerca di sbandati, depredano le masserie e, fatto un copioso bottino, riprendono il cammino in direzione ovest. A tali notizie il maggiore Alfonso Grilli, della guardia nazionale di Corato, corre sulla Murgia con un centinaio di gregari, ansiosi di vendicare la morte dei commilitoni: ma non trovò la masnada e, recando con sé i cadaveri delle vittime, rientrò in città fra i pianti e l’esasperazione dei conterranei. I predoni, frattanto, si fermano alla masseria Viti, in tenimento altamurano, occupano la strada fra Toritto e Altamura e, intercettate le corrispondenze postali e telegrafiche, spadroneggiano in quei luoghi con ogni sorta di spoliazioni.
Il generale Regis, sorpreso dall’audace scorreria, ordina una celere concentrazione di truppe sulle posizioni occupate dai borbonici; da Gioia, Noci, Alberobello, Acquaviva, Barletta, Matera ed altri comuni partono manipoli di guardie nazionali e soldati del cinquantesimo fanteria; onde, quelli vedendosi minacciati di avvolgimento, fuggono via e, toccando la casa colonica Mercadante, la Risecca di Grumo, i boschi di Cassano e Santeramo, pervengono alla selva di San Basile, ove indugiano alcune ore. Il comandante italiano dispone per telegrafo l’avanzata di qualche compagnia dai quartieri tarantini allo scopo di precludere la ritirata ai fuggiaschi; ma questi, più agili ed. accorti, sfuggono agli inseguitori e si mettono in salvo fra i boschi di Craco.
Nella prima quindicina di marzo un’altra comitiva, se non forse la medesima, composta di centoquaranta uomini, riappare sulle balze altamurane, soggiorna nell’abitato rurale di Claudio Melodia ed occupa il castello di Guaragnone. Agguerrite colonne di fanti e guardie civiche marciano colà; ma, secondo il solito, al primo apparire delle nostre milizie, i briganti si dileguano.
Non trascorre un mese ed un’altra invasione si effettua da parte di Ninco Nanco, che, attraversate le Murge di Spinazzola, minaccia con le bande riunite la nostra pianura. Anche in questa emergenza la guardia coratina, sostenuta da un plotone di carabinieri, affronta la masnada, che, dopo una fugace scaramuccia, abbandona le posizioni, lasciando sul terreno un cadavere e quattro cavalli.
Ai primi di maggio la stessa banda, sorpresa dai cavalleggeri del Mennuni di Genzano, viene gravemente sconfitta; e il tenente generale Cosenz partecipa la lieta novella ai nostri comuni col seguente dispaccio inviato da Bari alle sette pomeridiane del 9maggio 1862:
“Colonna Davide Mennuni ha disfatto comitiva Ninco Nanco. 15 briganti uccisi, molti feriti, ferito Ninco Nanco, cavalli ed armi abbandonati”
Il Prefetto: COSENZ
L’esultanza fu assai breve. Di lì a pochi giorni la compagnia del sergente Romano comparve nei parchi delle Monache Chiariste e nel bosco municipale Bonelli, presso Noci.
Un plotone di cinquanta militi muove per quei luoghi; ma, di fronte al numero soverchiante dei nemici, retrocede e si ferma sulla Murgia d’Albanese, aspettando rinforzi chiesti con urgenza da Bari e da Taranto. Il Romano, informato delle intenzioni avversarie, lascia il territorio di Noci e si rifugia nella foresta di Pianella.
Il 15 giugno, banditi e guardie civiche di Martina vengono alle mani nelle vicinanze della masseria Marrocco; il giorno 8 i masnadieri assaltano sull’imbrunire la fattoria del Chiancarello, appartenente ai signori Cassano di Gioia, e ucciso il fittavolo Domenico Pugliese di Putignano, depredano armi, cavalli ed oggetti di considerevole valore; il 12 commettono ruberie e ricatti nel territorio di Santeramo; il 19 contristano di nuovo le adiacenze di Noci, ove la tranquillità cittadina è ognora turbata “perché i malviventi si fanno vedere in punti diversi, ora uniti ed ora divisi”; fra il 20 e il 25, devastano i campi e le masserie di Alberobello, Cisternino e Locorotondo, e negli ultimi giorni del mese tornano ad occultarsi fra gli inospiti covi di Pianella per prendere nuova lena e commettere nuovi orrori.
Così passano i giorni queste nomadi turbe: è un agitarsi continuo al gelido soffio della tramontana e al torrido sole dell’estate, fra le macchie spinose, che lacerano le carni, e le buie caverne che corrodono le fibre; è un correre vertiginoso ed ansante interrotto da fugaci tregue, una vita di torture inenarrabili, cui pone termine la fucilazione o la galera!
Tener dietro ai movimenti disordinati e molteplici della banda Romano, sarebbe una fatica assai dura e fors’anche priva di interesse storico: barbari eccidi, effimeri trionfi, rotte sanguinose, estorsioni, rapine, vandalismi compiuti sempre in nome del sovrano e della fede, ecco in brevi parole la storia, triste ed uniforme, della comitiva. Sorvolo sui fatti di secondaria importanza e mi avvio rapidamente alla fine, indugiandomi sugli episodi più notevoli.
L’ASSALTO AD ALBEROBELLO
In uno degli ultimi giorni di luglio, le guardie civiche di Alberobello, perlustrando le finitime selve, si presentano alla masseria dei Monaci di San Domenico, frequente rifugio del Romano, e fatta una perquisizione, sequestrano sedici pacchi di cartucce e catturano il reticente guardiano. Di ciò informati, i banditi risolvono di infliggere subito ai temerari militi un’esemplare punizione. Sul declinare del giorno 26, il sergente Romano chiama a raccolta la ciurma, e schieratala in ordine militare con opportuni fiancheggiatori e vedette, muove sulla borgata.
Giunti verso le dieci della sera a poco meno di un miglio dall’abitato, i masnadieri si fermano, e poiché scorgono ancora delle luci e odono dei canti, rimandano l’aggressione a notte più inoltrata. In questo mezzo, favoriti dall’oscurità, pervengono al Romano alcuni messaggeri di quel Comune, fra i quali, secondo le noti4e di autorevoli documenti, ci sarebbe qualche ufficiale della guardia civica, complice del misfatto.
Ottenuti precisi ragguagli e prese le ultime disposizioni, uno stuolo di trenta fuoriusciti, staccatisi dalla masnada, va all’assalto con passi guardinghi e silenziosi. Il milite Tommaso Locorotondo, che era di sentinella, intravveduta fra le tenebre l’insidia, grida : – Alto Chi va là? Ma non ha proferite queste parole che dieci briganti gli sono addosso, lo disarmano e lo legano, imponendogli di tacere.
Quindi, con le baionette innastate, invadono il quartiere e domandano dell’ufficiale di guardia. A tale ingiunzione si presenta il caporale Antonio Greco, da cui chiedono, e ottengono immediatamente, la restituzione delle cartucce sequestrate alla masseria dei Monaci.
Intanto i militi, che erano li presenti, sbigottiti dall’ingrata sorpresa, tentano di fuggire; ma i banditi, coi fucili in pugno, comandano loro di non muoversi, pena la vita.
Alcuni, per disgrazia, trasgrediscono agli ordini e vanno a rifugiarsi in una stanza contigua barricandovisi dentro. I predoni, allora, infrangono la porta, uccidono la guardia Curri, alla quale tolgono la giacca e le scarpe, e feriscono i militi De Felice, De Leonardis e Castellano. Poscia mettono a soqquadro ogni cosa; prendono una trentina di fucili con altrettante baionette, un tamburo, sei daghe, venti bandiere ed altri oggetti.
Da ultimo, schierate a due a due le guardie, se le trascinano dietro, parte libere, parte avvinte con funi, sulla via di Martina. Giunti però all’estramurale, ed impietositi dalle lacrime di quegli infelici, li lasciano andar via. L’aggressione fu compiuta in un quarto d’ora!
GLI ECCIDI DEL 6 AGOSTO
Sul cadere dello stesso mese di luglio, fra i seguaci del Romano erano sorte gravi discordie, per cui un gruppo numeroso di fuoriusciti, Cecere, Guarini, Convertini e Chirico di Cisternino con altri compagni, avevano disertato, aggregandosi alla comitiva di un capobanda napoletano. Poscia, vedendosi deboli e mal protetti, tornarono in cerca del vecchio duce, che allora soggiornava nelle campagne di Ostuni, Locorotondo e Alberobello.
Come i reduci briganti si avvicinano ai nascondigli già noti, avvistati dalle sentinelle e accolti a fucilate, si danno alla fuga; ma due di essi, Vitantonio Cecere e Francesco Chirico, son catturati dai contadini che per caso lavoravano in quei dintorni, e in particolar modo da un tal Riccardo Tanzarella di Ostuni, che, intuito il movente della fuga e punto persuaso delle loro dichiarazioni, insiste presso i compagni, perché sian trattenuti e consegnati alle autorità.
Mentre si discute sul da farsi, sopraggiungono due massari, Francesco d’Errico e Francesco Seleraro, occulti ricettatori del malandrinaggio; i quali, facendosi mallevadori dell’onestà di quei furfanti, non solo dissuadono il Tanzarella dal temerario proposito e ne ottengono la liberazione, ma intercedono presso il Romano, perché li accolga di nuovo alla sua dipendenza.
Riammessi così nella compagnia, implorano dal sergente soddisfazione e vendetta delle patite ingiurie; l’uno, Vitantonio Cecere, contro il Tanzarella che li aveva esposti a sì grave pericolo; l’altro, Francesco Chirico, contro il liberale Oronzo Terruli, agricoltore di quella contrada che nel giugno precedente lo aveva denunciato come un pericoloso reazionario, costringendolo ad abbandonar la famiglia. Il capitano accondiscende alle voglie dei militi ed ordina che la spedizione punitiva si compia, rapida e spietata.
Sul tramonto del 6 agosto, un manipolo di codesti forsennati sorprendono il Tanzarella presso la sua “casedda”, il “trullo” caratteristico di quei luoghi, lo acciuffano, gli avvincono le braccia con una corda in presenza degli atterriti familiari, e lo trascinano a viva forza nella vicina selva.
Verso le undici della notte, la compagnia si scinde: gli uni rimangono con il condottiero in custodia del catturato, gli altri muovono sulla masseria Marangiuli, ove si trovava Oronzo Terruli.
Questi, rassegnato all’inevitabile destino, ma risoluto a vender cara la vita, da un balcone respinge gli aggressori a fucilate e ferisce gravemente un masnadiero di Viareggio, che vien subito condotto alla presenza del Romano.
Come l’impulsivo sergente scorge il compagno ferito e barcollante, preso da repentino furore, ordina, per rappresaglia, l’immediata fucilazione del prigioniero. Il povero contadino implora la vita; ma quegli, acceso dall’ira, non recede dal suo proposito, sì che il Tanzarella cade fucilato nel silenzio delle tenebre. Esegnita la condanna, accorrono tutti alla masseria, sfondano le porte e, saliti al primo piano, ammazzano il vecchio Marangiuli, che era congiunto e socio del Terruli nell’azienda agricola.
Questi si rifugia sotto un letto; ma è tratto fuori dal Chirico, suo implacabile nemico, che, avutolo nelle mani, esclama: – Assassino traditore! Mi hai fatto lasciare i figli miei! – E anche il Terruli cade trafitto da numerosi proiettili e da ventisei pugnalate.
IL MARTIRIO DI VITO ANGELINI
Di li a pochi giorni, sulle prime ore della mattina, un branco di quei fanatici si reca alla masseria Serinello, dove soleva dimorare l’agricoltore Vito Angelini di Putignano, fervido seguace delle istituzioni liberali. Trovatolo colà, lo traggono in arresto a nome di Francesco II, gli legano strettamente i polsi e lo conducono al bosco De Laurentis, fra Santeramo e Gioia. Qui attende il Romano, che lo sottopone ad una specie di interrogatorio e gli chiede: – notizie dell’opera spiegata da lui e dai congiunti nella recente rivoluzione, mostrandosi informato di ogni particolare.
Quindi, consultati i compagni, lo dichiara nemico del Papa, di Cristo e traditore dei figli, ed emana sentenza di morte. L’Angelini si dispera e piange; ma il sergente non si lascia commuovere ed ordina che il verdetto si compia senza esitazione. I gregari denudano il disgraziato, lasciandogli addosso il panciotto e la camicia; e fattolo inginocchiare, gli impongono di recitare il Credo e il Paternoster. Infine lo colpiscono con tre fucilate e, credutolo morto, si allontanano di là.
Taluni, nell’andar via, accortisi che la vittima dava segni di vita, vorrebbero tornare indietro a finirlo coi pugnali; ma uno di loro distoglie i compagni dal truce proponimento, esclamando con gioia feroce: – Così devono trovarsi tutti gli amici di Vittorio Emanuele! L’Angelini, riavutosi dai colpi mortali, si trascina carponi ad una masseria vicina, ove è accolto e curato da mani pietose.
IL CONVEGNO DEL BOSCO PIANELLA
Nell’agosto 1862, i masnadieri delle province di Bari e Lecce, per ordine del comitato centrale romano; convennero al bosco Pianella, nelle adiacenze di Martina Franca, per dare unità direttiva al movimento reazionario e fondere in una grande compagnia tutte le torme fin allora frazionate e disperse.
All’adunanza, che fu tenuta nei profondi recessi di una vicina grotta, capace di oltre ducento cavalli, parteciparono il sergente Romano, Mazzeo, Valente, La Veneziana, De Palo, Trinchera, Locaso, Monaco, Terrone, Testino; e tutti riconobbero l’opportunità dell’accordo, nel duplice intendimento di fronteggiare con maggiore vigoria le ostilità sempre più minacciose della truppa ed effettuare con sollecitudine il vagheggiato programma della restaurazione borbonica.
Giurati i vincoli dell’alleanza e costituita un’orda di circa ducento uomini, quasi tutti a cavallo, il sergente Romano, che fra quelle turbe destituite d’ogni cultura eccelleva per intelligenza ed autorità, ottenne il comando supremo con il grado di “maggiore”, mentre gli altri condottieri, in conformità alle attitudini personali e a seconda del maggiore o minor numero di seguaci fino ad allora capeggiato, furono eletti capitani, sergenti e caporali.
Orgoglioso di tanto onore, il Romano si accinse all’opera, proponendosi di esplicare un’azione gagliarda; e poiché la provincia di Bari, ove già si andavano concentrando numerose forze, non porgeva facili speranze di riscossa, pensò, d’accordo con gli altri caporioni, di trasferire il campo delle operazioni nel Brindisino.
Pertanto, ai primi di settembre, la grande comitiva era già nella penisola salentina, e quivi per lo più si trattenne fino agli ultimi giorni di novembre.
Il vandalismo agrario e le stragi, che per un intero trimestre desolarono quelle cittadinanze, sorpassano ogni immaginazione: smantellate le masserie dei liberali, bruciate le messi, interrotte le comunicazioni, sospeso il traffico: tutta la vita economica e civile della regione fu sottoposta all’arbitrio dei reazionari, la cui baldanza trascese a tali eccessi che agli occhi del popolino e della stessa borghesia parve addirittura imminente il crollo dell’edificio nazionale e il ritorno del decaduto monarca. Ecco gli avvenimenti più considerevoli dell’attività brigantesca in Terra d’Otranto.
IL MASSACRO DI CELLINO
Verso il mezzogiorno del 24 o 25 ottobre, due squadriglie della guardia di Cellino e di San Pietro Vernotico, accompagnate dai rispettivi tenenti e da un plotone di carabinieri a piedi e a cavallo, a circa nove miglia da si erano fermate alla fattoria Angelini, Brindisi.
Mentre prendevano ristoro dalla faticosa marcia, videro schierata sulla “Piana” della masseria Santa Teresa, li vicina, una grossa comitiva di briganti.
Si comanda l’assalto; ma gli ufficiali, giunti a cinquecento metri dal nemico, volgono le briglie, trascinando nella fuga ignominiosa i militi a piedi, che si disperdono per la campagna circostante. I carabinieri, rimasti soli contro la forte masnada, non si perdono d’animo, e rattenendo l’impeto avverso con un fuoco incessante di fucileria, retrocedono a lento passo in direzione di Cellino.
Ad un certo punto, alcuni fuoriusciti accerchiano due carabinieri a piedi, li atterrano e sono già in procinto di impadronirsene, quando il lombardo Giovanni Arizzi, noncurante della vita, galoppa in soccorso dei camerati e, dopo un’acerrima lotta, in cui rimase ferito lui stesso, li trae a salvamento.
All’azione ardimentosa concorsero i carabinieri Biancardi e Piluti delle stazioni di Lecce e Campi Salentina. Arrivati a breve distanza da Cellino, i masnadieri si ritirarono, dando la caccia alle guardie nazionali, che si erano nascoste nei prossimi poderi.
Ne scovano dodici, le avvincono con funi e, frustandole come bestie da soma, le spingono sulla masseria Santa Teresa, ove un’orrenda sorte attende i prigionieri.
La scena raccapricciante, ivi svoltasi, è narrata dal milite Vitantonio Donadeo, che ebbe salva la vita per uno strano accidente. Ne trascrivo l’autentico, genuino racconto: “Quando arrivammo vicino a Santa Teresa, svillaneggiati e battuti per strada, posero me con gli altri undici prigionieri ginocchioni a terra e in fila, e dissero a Giuseppe Mauro, che fu poscia fucilato: – Tu avevi quattro carlini al giorno come spia sotto Francesco, ed ora ne hai tre sotto Vittorio. E poi, rivolti al Pecoraro ed al Miglietta, pur fucilati, dissero: – Conosciamo che voi siete andati facendo la spia. – Tenevano tutto segnato in un libro che portava il capitano, e dicevano: – I villani non hanno colpa; noi vogliamo i capi della guardia nazionale.
Quindi uno dei briganti che era tornato ferito dal combattimento coi carabinieri, disponeva sulla sorte di noi altri, e tutto ad un tratto fu ordinata ed eseguita la fucilazione del Pecoraro, del Mauro e del Miglietta, i quali stavano inginocchiati i primi nella fila di noi altri; ed a misura che dovevano fucilare li facevano mettere faccia a terra, poggiando la bocca del fucile sul collo.
Dopo i tre suddetti sventurati, dovea essere fucilato io, e mi ordinarono di mettermi con la faccia a terra, il che avendo io fatto, con lo squallore della morte, gridai: – Madonna del Carmine, aiutatemi! – ed intesi lo scatto del fucile che non dié fuoco. Allora un brigante disse: – Alzati che tu sei salvo, e devi essere veramente devoto alla Madonna del Carmine come lo sono io; le devi fare una gran festa.
E dopo aver parlato un poco fra essi loro, fecero alzare da terra me e gli altri otto compagni, con la forbice mi mozzarono un pò l’orecchio sinistro come fecero ad altri sette; due, perché avevano ricevuto dei colpi in testa e la portavano fasciata, ad essi non furono mozzati gli orecchi. Dopo questa operazione, il Capitano si avvicinò a noi e ci disse di andarcene”.
Il brigante che, commosso dall’invocazione della Vergine, sospese l’iniziato massacro, fu il sergente Romano; e colui che, animato da istinto feroce, mozzò le orecchie ai prigionieri, fu lo Spadafino di Palo del Colle. Altri testimoni oculari aggiungono che i fuoriusciti ventilarono l’idea di recidere il capo ad uno dei catturati ed inviarlo al capitano della Guardia Nazionale di Cellino; ma l’infame proposta non fu eseguita per le implorazioni disperate di quei miseri.
E’ certo però che Francesco Monaco di Ceglie Massapica con un rasoio tagliò il mento di un cadavere, e fattolo disseccare al sole, e ripostolo nella bisaccia, lo portò via con sé, qual segno e ricordo della vittoria.
E’ indubitato altresì che alcuni di quei ribaldi conservarono nelle tasche le mutile orecchie dei prigionieri, mostrafldole qua e là, per i campi e le masserie, ai contadini che incontravano durante il percorso.
Va ricordato infine, come le salme dei fucilati cellinesi furono date alle fiamme, perché delle odiate spie si disperdessero finanche le ceneri. Tale era l’aberrazione di quelle turbe sciagurate nel cui animo la frequenza delle scelleraggini aveva cancellato ogni traccia di umanità.
L’INVASIONE DI CAROVIGNO
Sull’albeggiare del 21 novembre, la comitiva, dalla masseria Colacorti, ov’erasi fermata fin dalla sera precedente, s’incammina alla volta di Carovigno, uno dei più ardenti focolari di brigantaggio reazionario.
Non lungi dall’abitato, il “maggiore” trattiene la sua ciurma e manda all’assalto del corpo di guardia un drappello di dodici briganti a piedi. Come la sentinella Emanuele Patisso, nell’incerto chiarore della notte che già si dilegua, scorge l’avanguardia brigantesca, chiede con voce risoluta: – Chi vive? – Guardia piemontese! – si risponde. E nel dire tali parole i masnadieri piombano sul milite con rapidità fulminea, lo disarmano ed entrati – nel quartiere, fracassano panche, tavole, rastrelliere, quadri, stemmi reali.
Sopraggiungono i banditi a cavallo e si riversano “per lo stradone” sparando archibugiate a salve e invitando il popolo alla rivolta. – Fuori i lumi! Fuori i lumi! – si esclama; e immantinente migliaia di lumi sporgono dagli usci e dai balconi, per modo che il paese, come affermano i documenti, è illuminato a giorno.
Molti contadini scendono sulle vie e accolgono la masnada con le fiaccole accese e con manifestazioni di giubilo.
Gli urli della plebe, espressioni sintomatiche di reazione politica e di riscossa sociale, richiamano alla memoria le torbide giornate del 1799. – Viva la Santa Fede! – si grida – Viva la Madonna! Viva Dio! Viva – Francesco II! Abbasso Vittorio Emanuele! All’impiedi il popolo basso!
E una gran calca di popolo delirante segue i ribelli che, col Romano in prima fila, avanzano sulle loro cavalcature, baldanzosi e trionfanti.
Assaltano quindi le case dei capitani Azzariti e Brancasi, dei patrioti Simone, Brandi, Santoro, Del Prete e del regio delegato Calò; atterrano la porta d’una rivendita di privative; calpestano le insegne sabaude, e penetrati nella bottega, depredano sigari e vari oggetti.
Invadono poscia un pubblico ritrovo appartenente ad un caffettiere liberale, rompono tazze – e bicchieri, infrangono i quadri di Cavour, Garibaldi e Vittorio Emanuele.
Da ultimo, fattosi già chiaro, obbligano il sacerdote Federico Vacca a seguirli fuori del paese, al santuario della Madonna del Belvedere, ove la moltitudine, inginocchiata e riverente, intona col prete litanie e inni di grazia. Compiuta la funzione sacra, i briganti invitano la folla a rientrare nella borgata e, scambiati auguri di prossimo trionfo, si allontanano per la via di San Vito, in direzione della masseria Badessa. Nessun reato di sangue, tranne qualche lieve ferimento, turbò la clamorosa manifestazione.
IL CONFLITTO DELLA BADESSA
Nelle ore antimeridiane di quel giorno medesimo, come nella borgata limitrofa di San Vito si ha sentore dell’invasione di Carovigno, s’inviano carabinieri e guardie civiche in soccorso di un drappello di militi, che, per disposizione dell’autorità, si trovava in distaccamento alla tenuta Serranova, non lungi dalla Badessa.
Le vedette dei masnadieri, che vigilavano dall’alto della fattoria, visto il plotone che avanzava sulla consolare di Brindisi, segnalano ai compagni l’imminente pericolo.
Il Romano, osservata la positura e avute dal massaro D’Adamo, ardente borbonico, precise informazioni circa il numero e l’armamento dei nazionali, ordina la banda su due schiere e muove a spron battuto contro i nemici con disegno di accerchiarli.
Ma quelli, forniti di buone armi da fuoco, sostengono con intrepidezza l’assalto e, contrastando il terreno a palmo a palmo, raggiungono l’oliveto Argentieri e la masseria De Leonardis, ove si trincerano saldamente.
Il Romano, cui premeva di tenere integra la compagine dei suoi e non sacrificar mai gente in imprese di dubbia efficacia, dopo un’ora di accanita lotta, si ritira, trascinando con sé la guardia Catamerò, catturata all’inizio del combattimento. Radunatosi, secondo la consuetudine, il consiglio dei capi, il prigioniero è condannato all’estremo supplizio.
Alcuni briganti lo afferrano per i piedi, altri lo costringono al suolo con le braccia e la testa; e il masnadiero tarantino Antonio gli recide la gola con una sciabola o grosso coltello adoperato a mo’ di sega.
IL RITORNO AL BOSCO PIANELLA
Dopo il conflitto della Badessa, il Romano, che con la sua tormentosa guerriglia aveva attratto nel Leccese molte forze regolari, pensò di sottrarsi all’urgente pressione della truppa, trasferendosi nella pristina sede di Pianella.
Partito dal litorale adriatico, il 21 novembre, per l’istmo collinoso della penisola messapica, fra Brindisi e Taranto, – discese nell’opposto versante.
La notte del 22 si fermò con tutta la banda alla fattoria Santoria, nei dintorni di Torre Santa Susanna, e la mattina seguente, provedutosi colà di viveri e di biada, si accinse a partire, dichiarando in arresto il massaro De Biase, reo di avere obbligato i suoi contadini ad acclamare Vittorio Emanuele re d’Italia. Indotti dalle vive insistenze dei familiari di quell’infelice, i masnadieri consentirono di rilasciarlo, previo riscatto di mille piastre; e poiché quelli ne offrivano solo trecento che avevano a disposizione, rigettarono la proposta con parole di sdegno.
Gli sventurati, lacrimando, chiesero una breve dilazione per procacciarsi la somma vistosa; ma i banditi, specialmente Pizzichicchio che conduceva le trattative, non accolsero neppure tale richiesta e trascinarono via, in groppa ad un cavallo, il vecchio patriota, che nella macchia di Avetrana incontrò la pena di morte con armi da fuoco e da taglio.
Dalla fattoria Santoria,- nelle ore antimeridiane del 23 i ribelli prendono la via di Erchie e sostano alcune ore presso il piccolo villaggio, dove, a somiglianza di Grottaglie, Crispiano, Statti, Carovigno, Palagianello ed altri Comuni del Leccese, si rinnovano le solite dimostrazioni popolari inneggianti al Borbone e alla fede.
Verso mezzogiorno si allontanano di là, incamminandosi verso la marina ionica; durante la notte successiva si attardano fra i boschi di Maruggio, nei quali abbandonano un compagno di Santeramo in Colle, moribondo per le gravi ferite riportate in Erchie; e sul mattino del 24, per i territori di Grottaglie, Massafra, Mottola, devastando masserie, rompendo fili telegrafici e schivando fra mille peripezie gli incontri con la truppa, arrivano al bosco Pianella, ultima tappa del periglioso e lungo itinerario. In questo mezzo il Romano, imbaldanzito di tanti prosperi successi, medita un folle disegno: fondersi con la banda Crocco, muovere su Brindisi e impadronirsi della Terra d’Otranto; indi, raccolte grandi masse di popolo, correre su Gioia, Noci ed altri comuni del Barese,- inalberando dappertutto il – vessillo della controrivoluzione.
Allettato dal chimerico piano, spedì messi al Donatello, che si trovava in Basilicata, e mandò in giro per le campagne Otto manipoli di arrolatori, affine di raccogliere gente, armi e cavalli.
Se non che Carmine Crocco, cui la politica serviva di pretesto ad accumular quattrini, dapprima richiese alcuni giorni di tempo per una definitiva risposta, e poi, adducendo futili motivi, dichiarò senz’altro di non poter assecondare l’iniziativa del temerario collega. Il sergente Romano, intanto, rafforzata con nuove reclute la compagnia, esce dal bosco di Pianella in cerca di nuovi trionfi; ma le milizie italiane, rese ormai vigili ed esperte dalla dura esperienza, lo attendono al varco.
LA DISFATTA DELLA MASSERTA MONACI
Sul cadere del primo dicembre, l’intera compagnia si ferma alla masseria dei Monaci di San Domenico, tra Noci ed Alberobello.
Erano lì presenti circa centosettanta uomini con tutti i caporioni del brigantaggio salentino e barese: Romano, La Veneziana, Pizzichicchio, Monaco, Valente, Quartulli, Locaso, De Palo ed altri. Il sedicente maggiore ordina alla ciurma di scendere da cavallo e di riposarsi nell’ampio caseggiato, mentre lui, espertissimo dei luoghi, con quaranta seguaci, va in cerca di viveri e foraggi.
Molti dei banditi si andavano adagiando nei fienili, ed altri si apprestavano a desinare o attendevano al governo dei cavalli, quando, d’improvviso, la sedicesima Compagnia del decimo Reggimento di Fanteria, condotta dal capitano Molgora, sbuca fuori dalle circostanti macchie e piomba sui masnadieri scompigliati e dispersi.
La Veneziana, Pizzichicchio e Valente, chiamati a raccolta i compagni, affrontano i soldati e si battono coraggiosamente in prima linea. Mentre la mischia infuria e la banda già ripiega, sopravviene il Romano, che era atteso con ansia; ma scorto il disordine dei suoi e il sopravvento della truppa, getta via le insegne del comando e, postosi in capo il berretto di un compagno, volge le terga.
Alla fuga del condottiero segue una rotta piena ed irreparabile: muore La Veneziana, son feriti Pizzichicchio e Quartulli, cade prigioniero Scipione De Palo con altri nove banditi, e son catturati più di ottanta cavalli con armi e bagagli.
Trentacinque briganti, che riposavano in un pagliaio e non presero parte alla zuffa, sfuggirono per miracolo alla cattura; dei restanti, molti, col favore delle tenebre sopraggiunte, se ne andarono – ai loro paesi; altri, dopo essersi aggirati per molte ore fra i boschi, tornarono alla grotta Pianella.
Capi e gregari, superstiti di una grave sconfitta, tennero un’adunanza; e dopo una vivace discussione, durante la quale si coprirono di villanie, accusandosi d’imperizia e di viltà, decisero lo scioglimento della comitiva.
La sera del 7 dicembre, i vari capi partono per vie diverse: Valente, con sedici o diciassette compagni per Carovigno; Monaco con altrettanti per Ceglie Messapica; il Capraro per Ginosa; e Pizzichicchio, riavutosi dalla ferita, per la Basilicata.
Quindici fuoriusciti, avendo espressa la risoluta volontà di abbandonare la masnada, sono dichiarati vili, e quindi licenziati. Il Romano, diminuito di autorità e di grado, resta in quei luoghi con una cinquantina dei più antichi e fedeli proseliti. Era completa la dissoluzione, imminente la fine.
Fonte: srs di Antonio Lucarelli – da: “AVVENTURE ITALIANE” Vallecchi Editore, Firenze, 1961