«Di ritorno dal ristorante “Dal Ciupa”, due stelle Codeghìn (era l’anniversario del diploma del ragionier Dolimàn che ha invitato gli amici del baretto i quali però hanno dovuto pagare ognuno per sé e tutti per lui e signora)» scrive la Olga «abbiamo fatto una sosta per vedere la chiesa dei Santi Apostoli prima del crollo, dato per sicuro se si continuerà a scavarle davanti per fare il parcheggio. E già che c’eravamo, abbiamo dato ’n’ociàda, forse l’ultima, anche alle case della piazzetta che saranno coinvolte dal crollo della césa se non cascheranno prima. Il cinese Tan detto Tano, che guidava il pulmino del baretto, è andato ad aspettarci al di là del ponte de l’Àdese perché ha detto che le vibrazioni delle ruspe potevano crepare la marmitta e i specéti retrovisori. In realtà non voleva entrare in cèsa per paura che qualche santo gli cascasse sulla testa, dato che i santi, quando decidono di cascare, potrebbero scegliere le persone da colpire tra i devoti di altre religioni, tra cui quella cinese di cui ha la tessera il Tano».
«Abbiamo visto le crepe nei muri e ci siamo fatti il segno della croce con tutte due le mani. Il cavalier Osoppo, avendo un braccio al collo, se n’è fatto metà che, comunque, equivale a uno intero. Ci siamo chiesti in quale altra città sante come Teuteria e Tosca, le sante del sacello, sarebbero state sacrificate a santa Mercedes e a santa Audi e in quale altra città se ne sarebbero sbattuti dei santi apostoli fino al punto da farci un buso così fondo a pochi metri dalla loro césa che da quando sono cominciati i lavori l’è tuta un tremàsso. Prima vengono le auto e i parcheggi pertinenziali dove ci mettono le auto i siòri, e poi vengono le cèse, i santi e le Madonne».
«Una vecéta inginocchiata su un banco ci ha detto che da domenica prossima per chi entra in césa è obbligatorio il casco da cantiere e che è meglio vedere tutti i fedeli col casco che sentire un mòcolo a ogni calsinàsso che casca. Il mio Gino ha convenuto che in césa i mòcoli non si tirano ma si impìssano. Il fascista Trisorco ha detto che forse si può ancora rimediare stupàndo tutto, come è stato fatto in piazza delle Poste dove però il tremàsso era venuto alle rovine romane che, appunto perché rovine, meritano rispetto, «come mia moglie Nerina».
Uscendo dalla cèsa ci siamo resi conto che in questa città i veri santi sono quelli che hanno le rùe. Eccola lì «santa Cayenne» ha detto il Vittorino indicandoci un grosso catafalco nero. «Sta calmo, l’è un santo» ha detto il mio Gino al Tano che ostiava perché non riusciva a mettere in moto il pulmino».
Fonte: La posta della Olga di di Silvino Gonzato da L’arena di Verona di Giovedì 19 Marzo 2009, Cronaca pagina 9