Mar 14 2009

ABRAMO e i collegamenti con l’antica India

Category: Bibbia ed Egittogiorgio @ 10:26

 

 

Nella sua Storia degli Ebrei, l’erudito e teologo ebreo Flavio Giuseppe (37 – 100 d.C.) scrive che il filosofo greco Aristotele aveva detto: “… Questi ebrei sono derivati dai filosofi indiani; sono chiamati dagli indiani Calani” (Libro I, 22).

Clearco di Soli ha scritto: “gli Ebrei discendono dai filosofi dell’India. In India i filosofi sono chiamati Calaniani e in Siria sono detti Ebrei. Il nome della loro capitale è molto difficile da pronunciare. Si chiama Gerusalemme”.

“Megastene fu mandato in India da Seleuco Nicator circa trecento anni prima di Cristo. I suoi racconti stanno trovando ogni giorno nuove conferme da nuove ricerche. Egli dice che gli Ebrei “erano una tribù o setta indiana, chiamata Kalani…” (Godfrey Higgins, Anacalypsis, vol. I, p. 400). Martin Haug, Ph.D., ha scritto in The Sacred Language, Writings, and Religions of the Parsis, “si dice che i Magi chiamassero la loro religione Kesh–î–Ibrahim. Essi attribuivano i loro libri religiosi ad Abramo, che si diceva li avesse portati dal cielo” (p. 16).

Ci sono certe notevoli somiglianze, che sono più di pure coincidenze, fra il dio indù Brahma e la sua consorte Saraisvati e l’Abramo e la Sara ebrei.

Nel suo libro Moisés y los Extraterrestres, l’autore messicano Tomás Doreste ricorda che Voltaire era dell’opinione che Abramo fosse il discendente di qualcuno dei numerosi sacerdoti Brahmani che avevano lasciato l’India per diffondere i loro insegnamenti nel mondo intero; a sostegno della sua tesi ricorda la somiglianza dei nomi ed il fatto che la città di Ur, terra dei patriarchi, era vicino al confine della Persia, lungo la strada verso l’India, in cui quel Brahmano era nato.

Anche se in tutta l’India c’è soltanto un tempio dedicato a Brahma, questo culto è la terza setta più grande degli Indù. Il nome di Brahma era altamente rispettato in India e la sua influenza si espandeva, attraverso la Persia, sino alle terre bagnate dai fiumi Eufrate e Tigri. I Persiani adottarono Brahma e ne fecero una propria divinità. Successivamente avrebbero detto che il dio era arrivato dalla Bactria, una regione montagnosa situata a metà strada sul percorso verso l’India. (pp. 46–47). La Bactria o Battriana (una regione dell’antico Afghanistan) era la sede di una primitiva nazione ebrea denominata Juhuda o Jaguda, ed anche Ur–Jaguda. Ur significava “il luogo” o “la città”. Di conseguenza, la Bibbia era corretta nel dichiarare che Abraham era venuto “da Ur dei Caldei”. “Caldeo”, più correttamente Kaul–Deva (santo Kaul), non era il nome di un’appartenenza etnica specifica, ma il titolo di un’antica casta sacerdotale indù di Bramani, che viveva nella zona ora compresa tra l’Afghanistan, il Pakistan e lo stato indiano del Kashmir.

“La tribù di Ioud o del Brahmino Abramo fu espulsa o lasciò il Maturea del regno di Oude in India e, stabilendosi a Goshen, o la casa del Sole o Heliopolis nell’Egitto, diede a quella località il nome del posto che aveva lasciato in India, Maturea”. (Anacalypsis, vol. I, p. 405).

“Egli era della religione o della setta della Persia e di Melchizedek”. (Ibidem, Vol. I, p. 364).

“I Persiani inoltre pretendono che Ibrahim, cioè Abraham, fosse il loro fondatore, così come gli Ebrei. Così vediamo che secondo tutta la storia antica i Persiani, gli Ebrei e gli Arabi sono discendenti di Abramo. (p. 85)… dicono che Terah, il padre di Abramo, fosse venuto in origine da un paese dell’Est chiamato Ur, dei Caldei o dei Culdei, per abitare in una regione denominata Mesopotamia. Qualche tempo dopo che abitava là, Abraham, o Abramo, o Brahma e sua moglie Sara o Sarai, o Sara–iswati, lasciarono la famiglia del loro padre ed entrarono in Canaan. L’identificazione d’Abramo e di Sara con Brahma e Saraiswati in primo luogo è stata precisata dai missionari Gesuiti”. (Vol. I, p. 387).

Nella mitologia indù, Sarai–Svati è sorella di Brahma. La Bibbia presenta due versioni della storia d’Abramo. Nella prima versione, Abramo ammise di al Faraone aver mentito quando gli aveva presentato Sara come sua sorella. Nella seconda versione, disse anche al re di Gerar che Sara era realmente sua sorella. Tuttavia, quando il re lo rimproverò per aver mentito, Abramo rivelò che Sara era in realtà sia sua moglie sia sua sorellastra! “… ma effettivamente è mia sorella; è stata generata da mio padre, ma non è figlia di mia madre; ed è diventata mia moglie”. (Genesi, 20, 12).

Le anomalie non terminano qui. In India, un affluente del fiume Saraisvati è Ghaggar. Un altro affluente dello stesso fiume si chiama Hakra. Secondo le tradizioni ebree, Hagar era la serva di Sara; i musulmani dicono che era una principessa egiziana. Si notino le somiglianze di Ghaggar, Hakra e Hagar.

La Bibbia afferma anche che Ishmael, il figlio di Hagar, ed i suoi discendenti vissero in India.

“… Ishmael trasse il suo ultimo respiro e morì e si riunì alle sue parentele… Abitarono a Havilah (India), a Shur, che è vicino all’Egitto, e lungo tutta la strada che porta ad Asshur”. (Genesi, 25, 17–18).

È un fatto interessante che i nomi d’Isacco e d’Ismaele derivino dal Sanscrito: (Ebreo) Ishaak = Ishakhu (Sanscrito) = “amico di Shiva”. (Ebreo) Ishmael = Ish–Mahal (Sanscrito) = “grande Shiva”. Una terza mini–versione della storia d’Abramo lo trasforma in un altro “Noé”. Sappiamo che un’inondazione guidò Abramo dall’India. “… Così disse il signore Dio d’Israele, i vostri padri abitavano anticamente dall’altro lato dell’inondazione, Even Terah, il padre d’Abramo e il padre di Nachor; ed hanno servito altri dei. Ed ho preso il vostro padre Abramo dall’altro lato dell’inondazione e l’ho condotto per tutta la terra di Canaan”. (Giosuè, 24, 2– 3.)

Genesi 25 accenna ad alcuni discendenti della sua concubina Ketura (nota: I musulmani sostengono che Ketura è un altro nome di Hagar): Jokshan; Sheba; Dedan; Epher. Alcuni discendenti di Noé erano Joktan, Sheba, Dedan e Ophir. Queste varianti mi hanno indotto a sospettare che gli autori della Bibbia stessero provando ad unire vari rami di giudaismo.

Verso il 1900 a.C., il culto di Brahm fu portato nel Medio e nel Prossimo Oriente da vari gruppi indiani, dopo una terribile pioggia e un terremoto che imperversarono sull’India del Nord, cambiando persino i corsi dei fiumi Saraisvati e Indo. Il geografo classico Strabone dice quanto l’abbandono dell’India nord–occidentale fosse stato quasi totale. “Aristobolo dice che, quando egli fu inviato in India per una certa missione, vide un paese di più di mille città, insieme ai villaggi, che erano stati abbandonati perché l’Indo aveva abbandonato il proprio letto naturale”. (Strabone, Geografia, XV, I.19).

“L’essiccamento del Sarasvati intorno al 1900 a.C., che condusse ad uno spostamento importante della popolazione concentrata intorno al Sindhu e alle valli del Sarasvati, potrebbe essere l’evento che causò un’emigrazione verso ovest dall’India. Subito dopo quel tempo l’elemento Indico comincia a comparire dappertutto in Asia occidentale, in Egitto e in Grecia”.

(Subhash Kak, Indic Ideas in the Graeco–Roman World, in IndiaStar online literary magazine, p.14)

Lo storico indiano Kuttikhat Purushothama Chon ritiene che Abramo fosse stato cacciato dell’India e dichiara che gli Ariani, incapaci di sconfiggere gli Asura (la casta mercantile che comandava un tempo nella valle dell’Indo, o Harappani), s’impegnarono per molti anni a combattere segretamente contro gli Asura, sino a distruggere il loro enorme sistema di laghi d’irrigazione, causando l’inondazione distruttiva, che Abramo e la sua famiglia se ne andarono e marciarono verso l’Asia Occidentale. (v. Remedy the Frauds in Hinduism).

Di conseguenza, oltre ad essere cacciati dall’India del Nord dalle inondazioni, gli Ariani costrinsero anche i commercianti indiani, gli artigiani e le classi istruite a fuggire in Asia Occidentale.

Edward Pococke scrive in India in Greece: “… in nessun caso simile sono accaduti eventi carichi di conseguenze di tale importanza, come negli eventi successivi alla grande guerra religiosa che, per un lungo periodo d’anni, infuriò in lungo e in largo per l’India. Quel confronto si concluse con l’espulsione d’ampi gruppi di popolazione; molti dei quali esperti nelle arti e civilizzati e molti di più guerrieri di professione. Stretti a nord dalle montagne himalayane, e bloccati verso sud a Ceylon, la loro ultima fortezza, invasero la valle dell’Indo ad ovest, e questi loro spostamenti generarono i germi delle arti e delle scienze europee. La vigorosa marea umana passò la barriera del Punjab e si diresse verso l’Europa ed il resto dell’Asia, per compiere la propria missione nell’evoluzione morale del mondo. L’ampiezza del movimento migratorio era così grande, il cambiamento dei nomi così completo e le informazioni – che abbiamo da parte dei Greci – riferite in modo talmente fuorviante, che nulla di meno di una negligenza totale dei principi teoretici e la risoluzione della ricerca indipendente, hanno dato la minima probabilità di chiarimento di tale mistero”. (p. 28)

Se tutti quei popoli immigrati e dominanti erano esclusivamente di origini indiane, perché mai la storia non ne fa menzione?

L’esodo dei rifugiati dall’antica India non avvenne in una sola ondata, ma lungo un periodo di mille anni, o più migliaia d’anni. Se tutti quei profughi erano esclusivamente di origini indiane, perché mai la storia non ne fa menzione? Essi sono citati piuttosto come Kassiti, Hittiti, Siriani, Assiri, Hurriti, Aramei, Hyksos, Mitanni, Amaleciti, Etiopi (Atha–Yop), Fenici, Caldei, e con molti altri nomi. Tuttavia saremmo in errore se pensassimo che si tratti di gruppi etnici indigeni dell’Asia Occidentale. I nostri libri di storia li chiamano anche “Indo–Europei” e suscitano l’interrogativo da dove essi realmente provenissero.

“I popoli dell’India giunsero a indicare la propria identità sociale in termini come Varna e Jati (funzioni sociali o di casta), non in termini di razze e tribù”. (Foundations of Indian Culture; p. 8)

Ecco un esempio di come gli indiani antichi identificavano la gente: I capi erano denominati Khassi (Kassiti), Kushi (Kushiti), Cosacki (casta militare russa), Cesari (casta romana di comando), Hattiya (Hittiti), Cuthiti (una forma dialettica di Hittiti), Hurriti (un’altra forma dialettica di Hittiti), Cathay (capi cinesi), Kasheetl/Kashikeh fra gli Aztechi, Kashikhel/Kisheh dai Maya e Keshuah/Kush dagli Incas. Gli Assyrians (in inglese), Asirios (nello Spagnolo), Asuras o Ashuras (India), Ashuriya, Asuriya (Sumeri e Babilonia), Asir (Arabia), Ahura (Persia), Suré nel Messico centrale, ecc., erano coloro che adoravano Surya (il Sole). Naturalmente, nelle zone dove questa religione è prevalsa, sono stati conosciuti come “Assiri”, qualunque fossero i nomi reali dei loro rispettivi regni d’origine. Un altro problema che gli eruditi occidentali hanno nell’identificazione degli Indo–Europei con gli Indiani è che l’India non era allora e non è mai stata una nazione. Ancora di più, non era “l’India”. Era Bharata, e anche il termine Bharata non indica una nazione, ma una collezione di nazioni, proprio come l’Europa è una collezione di nazioni, ed è attualmente tenuta insieme dalla minaccia reale o percepita dell’espansionismo musulmano. Gli eruditi indiani mi hanno detto che quando e se mai questo espansionismo sparisse, “l’unione di Bharata” si scheggerà ancora in molte più piccole nazioni. “Gli storici arabi discutono sul fatto che quel Brahma ed Abraham, il loro antenato, sia la stessa persona. I persiani hanno denominato generalmente Abraham Ibrahim Zeradust. Ciro considerava la religione degli ebrei la sua stessa. Gli Indù devono discendere venire da Abraham, o gli Israelites da Brahma…” (Anacalypsis, vol. I, p. 396).

Il nostro Abramo corrisponde realmente con la divinità indù Ram?

Ram e Abramo furono forse la stessa persona o lo stesso clan. Per esempio, la sillaba “Ab” o “Ap” significa “padre” in Kashmiri. Il termine ebreo primitivo potrebbe aver indicato Ram come “Ab–Ram” o “il padre Ram”. Si può anche pensare che la parola “Brahm” si sia evoluta da “Ab–Ram” e non vice–versa. La parola Kashmiri per “misericordia divina”, Raham, sembra derivata da Ram. Ab–Raham = “padre di misericordia divina”. Rakham = “misericordia divina”, in ebraico. Ram è inoltre il termine ebraico per il capo o l’alto reggente. Lo storico indiano A. D. Pusalker, il cui saggio “Traditional History From the Earliest Times” è apparso in The Vedic Age, ha detto che Ram visse verso il 1950 a.C., all’incirca all’epoca in cui Abramo, gli Indo–Ebrei e gli Ariani fecero la più grande espansione dall’India al Medio Oriente, dopo la grande inondazione.

“Uno dei santuari nella Kaaba inoltre era dedicato al dio creatore degli Indù, Brahma, ma il profeta illetterato dell’Islam pensava che fosse dedicato ad Abramo. La parola “Abraham” è nient’altro che una cattiva pronuncia della parola Brahma. Ciò può essere dimostrato chiaramente se si studiano i significati della radice di entrambe le parole. Abraham sarebbe uno dei profeti semitici più anziani. Si suppone che il suo nome derivi dai due termine semitici ‘Ab’ che indica il Padre e ‘Raam/Raham’ che significa “dell’elevato”. Nel libro della Genesi, Abraham significa semplicemente ‘Moltitudine’. La parola Abraham è derivata dalla parola Sanscrita Brahma. La radice di Brahma è Brah, che significa ‘crescere in numero o moltiplicarsi’. In più il Signore Brahma, il dio del creatore dell’Induismo, sarebbe il padre di tutti gli uomini e il più elevato di tutti gli dei, dato che da lui tutti gli esseri sono stati generati. Così veniamo ancora al significato di ‘padre elevato’. Questa è una chiara indicazione che Abraham non è altro che il padre celestiale Brama”. (Vedic Past of Pre–Islamic Arabia, Part VI, p.2).

Diversi significati possono essere estratti dalla parola “Abram”, ciascuno dei quali indica direttamente la sua posizione elevata. Ab = “padre”; Hir o H’r = “testa; parte superiore; Elevato”; Am = “la gente”. Di conseguenza, Abhiram o Abh’ram può significare “il padre dell’elevato”. Eccone un altro: Ab – î – ram = “padre del misericordioso”. Ab significa anche “il serpente”, e potrebbe indicare che Ab–Ram (serpente elevato) era un re Naga. Tutti i significati che possono essere estratti dalla parola composta “Abraham” rivelano il destino divino dei suoi seguaci. Hiram di Tiro, stretto amico di Salomone, era “gente elevata” o Ahi–Ram (serpente elevato).

In India antica, il culto Ariano era chiamato “Brahm–Aryan”. Gli Ariani adoravano molti dèi. Abraham si allontanò dal politeismo. Così facendo, potrebbe essere diventato “A–Brahm” (non più un Brahman). Gli Ariani chiamarono gli Asura “Ah–Brahm”. Di conseguenza, possiamo supporre logicamente che i padri della civiltà dell’Indo fossero probabilmente precursori degli ebrei.

Gerusalemme era una città degli Hittiti (casta indiana di tipo ereditario) ai tempi della morte d’Abramo. In Genesi, 23:4, Abramo chiese agli Hittiti di Gerusalemme di vendergli un terreno per la sepoltura. Gli Hittiti risposero: “… tu sei un principe fra noi: scegli tra i nostri sepolcri dove vuoi seppellire i tuoi morti; nessuno di noi te lo negherà”. (p. 6). Se Abramo era riverito come principe dagli Hittiti, doveva essere anche un membro stimato della casta ereditaria e guerriera dell’India. La Bibbia non ha mai affermato che Abramo non fosse un Hittita. Dice solo: “sono uno straniero e un ospite temporaneo tra voi”. (Genesi, 23: 4.) Come gli Hittiti hanno detto, essi riconoscevano addirittura Abramo come loro superiore. Come gli Hittiti non avevano un’origine etnica unica, così non l’avevano gli Amoriti o gli Amarru. Marruta era il nome indiano di casta degli uomini comuni. La parola “Amorita” (Marut) era il primo nome della casta dei Vaishya indiani: artigiani, coltivatori, vaccari, commercianti, ecc.

G.D. Pande scrive in Ancient Geography of Ayodhya: “I Marut rappresentavano il Visah. I Marut sono descritti come componenti delle truppe o delle masse. Rudra, il padre dei Maru, è il signore del bestiame”. (p. 177.) Malita J. Shendge li definisce così: “… i Marut sono la gente comune”. (The Civilized Demons, p. 314). Non dovremmo essere sorpresi nello scoprire che i Khatti (Hittiti) e i Marut (Amoriti) fossero i padri (protettori) e le madri (aiutanti o assistenti) di Gerusalemme.

In India, gli Hittiti erano anche conosciuti come Cedi o Chedi (pronunciato Hatti o Khetti). Gli storici indiani li classificano come una delle più vecchie casti degli Yadava. “I Cedi hanno formato una delle tribù più antiche fra gli Ksatriya (la classe aristocratica composta di Hittiti e Kassiti) nei più antichi periodi Vedici. Fin dal periodo del Rgveda i re dei Cedi avevano acquistato grande rinomanza… erano uno dei poteri principali in India del Nord nella grande epica”. (Yadavas Through the Ages, p. 90). I Ram o Rama inoltre appartenevano al clan di Yadava. Se i nostri Abraham, Brahm e Ram sono quello e la stessa persona, Abramo andò a Gerusalemme per stare con la sua propria gente!

Le congregazioni dei Ram si segregarono nelle loro proprie comunità, denominate Ayodhya, che in Sanscrito significa “l’Inconquistabile”. La parola Sanscrita per “il combattente” è Yuddha o Yudh. Abramo ed il suo gruppo appartenevano alla congregazione di Ayodhya (Yehudiya, Judea) che rimase distante dai non–credenti e dagli Amaleciti (Ariani?).

Melchizadek… il saggio di Salem

Se ciò che ho detto finora non è abbastanza convincente, forse la parola “Melchizedek” lo sarà. Melchizedek era un re di Gerusalemme che possedeva poteri mistici e magici segreti. Era inoltre insegnante d’Abramo.

Melik–Sadaksina era un gran principe indiano, un mago e un gigante spiritoso – il figlio d’un re dei Kassiti. In Kashmiri e in Sanscrito, Sadak = “una persona con poteri magici e soprannaturali”. Un certo Zadok (Sadak?) era anche un sacerdote con doti soprannaturali, che unse Salomone. Perché il Kassita (di casta reale) Melik–Sadaksina, un personaggio mitico indiano, compare improvvisamente a Gerusalemme come l’amico e la guida d’Abramo? Secondo Akshoy Kumar Mazumdar, nella storia indù, Brahm era il leader spirituale degli Ariani. Come Ariano (non di Yah), credeva naturalmente negli idoli. La Bibbia dice che persino li fabbricava. Nel vedere come l’aumentare del culto degli idoli e il dubbio religioso stavano contribuendo ad un’ulteriore rovina della sua gente, Brahm ripudiò l’Arianesimo e riabbracciò la filosofia indiana antica (di Yah) (culto dell’Universo Materiale) anche se quello pure stava affondando nelle malvagità umane. Si convinse che l’umanità si sarebbe potuta conservare soltanto occupandosi di cose reali, non immaginarie.

Scossi dalla barbarie e dall’egoismo cieco della gente, gli uomini saggi e la gente istruita fra i proto–Ebrei s’isolarono dalle masse.

Il Dott. Mazumdar ha scritto: “La caduta morale era veloce. I colti e i saggi vivevano staccati dalle masse. Si sposavano raramente e principalmente si dedicavano alle pratiche religiose. Le masse, senza luce e capo adeguati, presto divennero viziose oltre ogni limite. La violenza, l’adulterio, il furto, ecc., diventarono comuni. La natura umana diventava selvaggia. Brahma (Abramo) decise di riformare e rigenerare la gente. Incitò i colti e i saggi a sposarsi e mescolarsi con la gente. La maggior parte rifiutò di sposarsi, ma 30 acconsentirono”. Brahm sposò la sua sorellastra Saraisvati. Quei saggi furono conosciuti come i prajapatis (progenitori).

“L’Afghanistan del Nord era denominato Uttara Kuru ed era un grande centro d’apprendimento. Una donna andò là studiare e ricevette il titolo di Vak, cioè Saraisvati (signora Sara). Si crede che Brahm, il suo insegnante (e fratellastro), fosse rimasto tanto impressionato dalla sua bellezza, formazione e intelletto potente, che la sposò”. (The Hindu History; p. 48, passim)

Dalla santa comunità nell’Afghanistan del sud, simili comunità si sparsero dappertutto: in tutta l’India, Nepal, Tailandia, Cina, Egitto, Siria, Italia, Filippine, Turchia, Persia, Grecia, Laos, Irak, – persino nelle Americhe! La prova linguistica della presenza di Brahm in varie parti del mondo è più di evidente: Persiano: Braghman (santo); Latino: Bragmani (santo); Russo: Rachmany (santo); Rachmanya ucraino (sacerdote; Santo); Ebreo: Ram (capo supremo); Norvegese: From (Divinamente).

Una parola sacra fra gli Indù era ed è la sillaba mistica OM. È associata in eterno con la terra, il cielo ed il paradiso, l’universo triplice. È inoltre un nome di Brahm. Anche gli Aztechi adoravano e recitavano la sillaba OM come il principale doppio di tutta la creazione: OMeticuhlti (principio maschile) e OMelcihuatl (principio femminile). La casta sacerdotale dei Maya era chiamata Balam (pronunciato B’lahm). Se nella lingua Maya ci fosse stato il suono “R”, esso sarebbe stato Brahm. Gli Incas peruviani adoravano il sole come Inti Raymi (Hindu Ram).

Nomi che innegabilmente derivano letteralmente da Rama si trovano nelle lingue dei Nativi americani, particolarmente le lingue di quelle tribù che si estendono dal sud–ovest degli Stati Uniti al Messico e sino nel Sudamerica, oltre il Perù. Gli indiani Tarahumara di Chihuahua sono un esempio ideale. Il loro nome reale è Ra–Ram–Uri. Come in Sumeria ed in India del Nord, Ra–Ram–Uri “Uri” = “la gente”. Poiché la R spagnola ha un suono particolare, questo “Uri” potrebbe anche essere Udi o Yuddhi, il nome Sanscrito per “Guerriero; Conquistatore”. Molte tribù messicane ricordano che una razza straniera di Yuri invase una volta la loro parte del mondo. Il dio del sole dei Ra–Ram–Uri è Ono–Rúame. In Kashmiri, Ana = “figlio favorito”; La dea della luna dei Ra–Ram–Uri, consorte di Ono–Rúame, è Eve–Ruame. In Kashmir Hava = “Eva, o il principio femminile”. Un governatore dei Ra–Ram–Uri si chiamava Si–Riame. In Sanscrito/Kashmiri, Su–Rama = “Grande Rama”. Secondo le antiche leggende messicane, gli Yori appartenevano ad una tribù denominata Surem (Su–Ram?). Prima della conquista, il Messico centrale ed il sud–ovest degli Stati Uniti, sino al Colorado orientale, erano conosciuti come Suré. Suré = “Sole” in Kashmiri. Il medico curatore o guida spirituale dei Tarahumara è un Owi–Ruame. In Sanscrito, Oph = “speranza”. Il loro diavolo è denominato Repa–Bet–Eame. Kashmiri: Riphas (Comparsa) + Buth (Spirito maligno) + Yama (Angelo della morte). Molte altre sorprendenti corrispondenze con il Kashmiri e il Sanscrito compaiono nella lingua dei Ra–Ram–Uri. Il loro rapporto con l’antica Fenicia, la Sumeria e l’India del Nord è ovvio.

I Fenici… navigatori globali

La maggior parte di noi pensa che i Fenici fossero un popolo di navigatori e commercianti, che abitava in quello che oggi chiamiamo Libano. Tuttavia, i Pancika o Pani, come gli Indù li chiamavano, o Puni, come li chiamavano i Romani (un altro nome derivato da Rama), erano, come gli zingari, sparsi su tutto il globo.

Gli spagnoli chiamarono la terra dei Ra–Ram–Uri Chihuahua, pronunciata come Shivava dagli stessi nativi. In Sanscrito, Shivava = “tempio di Shiva”. Secondo gli eruditi religiosi indù, Ram ed il dio Shiva erano una volta la stessa divinità. Il nome di Yah e di Shiva (lo stesso di cui leggiamo nella Bibbia) è inoltre prevalente nelle pratiche religiose dei Nativi americani e può essere trovato iscritto in petroglifi dappertutto nel sud–ovest americano. (Cfr. il mio libro India Once Ruled the Americas! )

Ayodhya era inoltre un altro nome per Dar es Salaam in Tanzania (Africa) e per Gerusalemme (Giudea). È vero che gli abitanti di Gerusalemme erano conosciuti come Yehudiya o Giudei (guerrieri di Yah), un fatto che rende le origini indiane degli ebrei incontrovertibili.

Non c’era parte del mondo antico, compresa la Cina, che non fosse influenzata dai punti di vista religiosi di Ram. Per esempio, i cristiani e gli ebrei hanno subito un lavaggio del cervello per credere che Mohammed copiasse i suoi insegnamenti dalle fonti ebree. La verità è che, nel tempo di Mohammed, la teologia di Ram o d’Abramo era la pietra di fondamento di tutte le sette religiose. Tutto ciò che Mohammed ha fatto fu di eliminarne il culto degli idoli.

“… Il Tempio della Mecca è stato fondato da una colonia di Bramini provenienti dall’India. Era un posto sacro prima dell’epoca di Mohamed, e fu loro consentito di fare pellegrinaggi ad esso per parecchi secoli dopo il suo tempo. La sua gran celebrità come luogo sacro molto prima del periodo del profeta non può essere contestata”. (Anacalypsis, vol. I, p. 421)

“… I bramini dicono, dall’autorità dei loro antichi libri, che la città della Mecca è stata fondata da una colonia proveniente dall’India. I suoi abitanti a partire dall’era più antica hanno avuto una tradizione che è stata sviluppata da Ishmael, il figlio di Agar. Questa città, nella lingua dell’Indo, sarebbe denominata Ishmaelistan”. (Ibidem, p. 424)

Prima del tempo di Mohammed, l’Induismo della gente araba era denominato Tsaba. Tsaba o Saba è una parola Sanscrita, significante “L’Assemblea degli Dei”. Tsaba si diceva anche Isha–ayalam (tempio di Shiva). Il termine Musulmano o Moshe–ayalam (tempio di Shiva) è solo un altro nome di Sabaismo. La parola ora è limitata al mondo dell’Islam. Mohammed stesso, essendo un membro della famiglia di Quraish, era inizialmente un Tsabaista. I Tsabaisti non consideravano Abramo come un dio reale, ma piuttosto un’incarnazione o un insegnante divino chiamato Avather Brahmo (Giudice del mondo sottoterra).

Ai tempi di Gesù, le lingue, il simbolismo religioso e le tradizioni degli arabi e degli ebrei erano quasi identici. Se potessimo prendere una macchina del tempo verso il passato, la maggior parte di noi non vedrebbe alcuna differenza reale fra gli arabi e gli ebrei. La storia ci dice che gli arabi del tempo di Cristo adoravano gli idoli. Così facevano le classi più basse e gli ebrei rurali. Per questo motivo, la controversia del Medio Oriente fra gli ebrei ed i musulmani e l’avversione fra i musulmani e gli Indù in India è ridicola. I musulmani stanno combattendo gli ebrei e gli Indù, o vice–versa, sulla base di niente. Tutti e tre i gruppi sono scaturiti dalla stessa fonte. L’equivalente Kashmiri–Sanscrito di Hebron (Khev’run in ebraico) grida le origini indiane dei più antichi abitanti di Gerusalemme: Khab’ru (tomba). (V. il dizionario del Grierson, p. 382). Anche nell’ebraico, Kever = “tomba”.

Il libro del linguista ed orientalista indiano Maliti J. Shendge The Languages of Harappans salda insieme, una volta per tutte, l’Asia Occidentale e la civiltà della valle dell’Indo. Non solo dimostra che Harappa era accadica e sumerica, dimostra anche che il primo “Abramo” non era altri che Adamo, prima che Eva fosse generata da una delle sue costole.

“… Si può dire che la regione dal Tigri–Eufrate all’Indo ed al suo oriente fosse abitata dagli Accadi che parlavano una lingua semitica, i quali successivamente chiamarono se stessi Asshuraiu. Il loro nome indiano come conosciuto dai Rgveda è Asura, che non è stato dimenticato da molto tempo. Non è molto sorprendente che questa regione fosse abitata in da clan differenti della stessa razza. Tuttavia sarebbe errato pensare che fosse un gruppo razziale omogeneo. La nostra conoscenza linguistica prova che si trattava d’una popolazione mista di Accadi e Sumeri. Altri gruppi etnici potevano essere presenti, le cui tracce potranno essere identificate grazie i lavori futuri.

Questa composizione mista della popolazione non è in contraddizione con lo stato attuale delle conoscenze, perché la presenza di questi elementi etnici nella valle dell’Indo conferma ed estende un modello demografico identico, che esisteva probabilmente a partire dai tempi più antichi della preistoria e della civiltà.

Se questi Accadi fossero gli stessi del clan omonimo dell’Asia Occidentale, ci dovrebbe essere una preponderanza uguale di questa coppia primigenia nella mitologia vedica. Tuttavia, oltre un cenno enigmatico, non c’è riferimento a loro. Ciò stava confondendo. Sembrava improbabile che questo clan fosse privo dei genitori primordiali, benché il loro dio fosse Asura. C’è la predominanza di Brahma in Rgveda come il padre primordiale, ma appare inadeguato che vi sia un principio maschile da solo. Uno sguardo da vicino a Brahma ha rivelato che la sua ascendenza derivava da due parole Abu + Rahmu che è l’accoppiamento primordiale in mitologia Semitica. La controparte Accade di Rahmu è Lahmu che successivamente è diventata la dea Laksmi, nata nel mare e corteggiata sia dai dei sia dai demoni. Lahmu è un drago in Accadico ma in Ugaratico Rahmu è la parte femminile di Abu.

Brahma (abu + rahmu = abrahma = brahma): tutti i cambiamenti qui postulati corrispondono alle connessioni di cui sopra, o la femmina di Abu, il Dio supremo dei Semiti, ha subito molte trasformazioni ed ha molte controparti nel pantheon indiano, fra le quali Laksmi è uno di quelli importanti, adorata come la dea di tutta la creazione materiale. Così il clan di Asura della valle dell’Indo adorava Abu–Rahmu come la coppia primigenia”. (pp. 269 – 270)

La ricerca della signora Shendge rafforza la mia convinzione che i resti d’Abramo e di Sara a Hebron possano essere quelli di Brahm e della Saraisvati reali. Il nostro Abramo era evidentemente un sacerdote, forse persino il fondatore del culto di Abu–Rahmu (Adamo ed Eva), che portò la sua religione monoteistica nell’Asia Occidentale. Benché lui e Sara fossero divinizzati in varie forme nella loro India natale, sono rimasti come esseri umani nel giudaismo.

 

di Gene D. Matlock, B.A, M.A. (5 Marzo 2009)

 

link: http://www.liutprand.it/articoliMondo.asp?id=219/-/

la porta del tempo


Mar 14 2009

ARCHEOLOGIA: BIBBIA, SCOPERTI SIGILLI REALI DI EZECHIELE

Category: Bibbia ed Egittogiorgio @ 08:38

 

Gerusalemme – Un grande edificio che risale all’epoca del primo tempio di Gerusalemme (circa 2800 anni fa), che custodiva un’incredibile quantita’ di iscrizioni, e’ stato scoperto da un’equipe archeologica condotta da Zubair Adawi, su incarico dell’Israel Antiquities Authority, nel villaggio di Umm Tuba, nella parte meridionale di Gerusalemme, prima dei lavori di costruzione effettuati da un’impresa privata. Considerando l’area limitata dello scavo e la natura rurale della struttura che e’ stata portata alla luce, gli archeologi sono rimasti sorpresi nel ritrovamento di tante impronte di sigilli reali che risalgono al regno biblico di Ezechiele, re di Giudea (fine dell’VIII secolo a.C.).

La notizia della eccezionale scoperta e’ stata annunciata dal sito on line Israele.Net. Quattro impronte di tipo ”Lmlk” sono state scoperte sui manici di grandi otri che erano usati per conservare vino e olio nei centri amministrativi reali. Sono stati trovati insieme alle impronte dei sigilli di due alti ufficiali di nome Ahimelekh ben Amadyahu e Yehokhil ben Shahar, impiegati nel governo del regno. Il sigillo Yehokhil era stato impresso su una delle impronte ”Lmlk” prima che il vaso fosse cotto in un forno: si tratta del caso molto raro in cui due impronte del genere appaiono insieme su un unico manico.

Un’altra iscrizione ebraica e’ stata scoperta su un frammento del collo di un vaso che risale al periodo asmoneo: si tratta di una sequenza alfabetica che venne incisa con un sottile stilo di ferro sotto il bordo del vaso, nella scrittura ebraica caratteristica dell’inizio del periodo asmoneo (fine del II secolo a.C.). Le lettere da hey a yod e una piccola parte della lettera kaf risultano conservate sul frammento.

 

Fonte:   http:// www.adnkronos.com  del 4 Marzo 2009


Mar 14 2009

Anoressia e bulimia prima causa di morte tra le ragazze

Category: Salute e benesseregiorgio @ 07:28

Anoressia e bulimia nervosa sono la prima causa di morte per malattia tra le ragazze, soprattutto tra i 12 e i 25 anni, le più esposte ai disturbi del comportamento alimentare. Disturbi di cui soffrono in Italia tra le 150 e le 200mila giovani. È il quadro allarmante tracciato dalla Società italiana per lo studio dei disturbi del comportamento alimentare, Sisdca, che oggi a Roma, al Policlinico Umberto I, ha presentato alla stampa le più recenti statistiche su anoressia e bulimia nervosa e le proposte per migliorare la cura di queste patologie. Perché la parte più difficile è proprio convincere le ragazze a curarsi, ovvero a mangiare e a farlo con serenità. Sono ragazze lucide, intelligenti, studiano con profitto o lavorano bene, sono capaci di spiegare la propria situazione e comprendono in pieno i rischi della loro scelta, eppure continuano a dire di no alle cure, preferendo morire che aumentare di peso o perdere il controllo sul proprio corpo.

I disturbi del comportamento alimentare sono – sottolineano i medici – patologie gravi, invalidanti, con elevato indice di mortalità. Colpiscono abitualmente giovani donne in età compresa tra i 12 e i 25 anni, richiedono cure prolungate il cui esito è favorevole nel 70% dei casi, mentre nel 30% dei casi si parla di malattia molto resistente alle cure e cronicità. Attualmente, la prevalenza di anoressia nervosa e bulimia nervosa nella popolazione generale è dello 0.2% – 0.3%: ovvero in Italia, su circa 60 milioni di abitanti, si possono calcolare 150-200 mila ragazze malate. A queste vanno aggiunti casi atipici e i casi di non altrimenti classificati (Ednos), per cui i numeri si possono triplicare. È forte inoltre il rischio di cronicizzazione con l’insorgenza di complicanze mediche e psichiatriche. La mortalità per suicidio o per complicanze somatiche conseguenti alla malnutrizione è del 10% a dieci anni dall’esordio e del 20% a venti anni: costituisce la prima causa di morte per malattia nella fascia di età compresa tra i 12 e i 25 anni, in pazienti di sesso femminile, ovvero 0,56% all’anno.
“Si tratta di patologie in continuo aumento” ha dichiarato Roberto Ostuzzi, presidente di Sisdca “tanto da rappresentare ormai un vero allarme socio sanitario”, e il dato è ancora più preoccupante perché “fare accettare una terapia a chi soffre di un disturbo alimentare è particolarmente difficile per la natura stessa della malattia ed è proprio questo elemento che determina la frequente cronicizzazione”. Il primo problema è quindi riuscire a convincere le giovani a curarsi e garantire una continuità di trattamento. “La terapia per essere accettata ha bisogno di un preciso percorso che cerchi di coinvolgere le ragazze e creare con loro la necessaria relazione”, continua Ostuzzi, che però avverte: “Nelle situazioni più gravi a volte è necessario ricorrere a trattamenti salvavita coercitivi”. Ma questo è molto difficile, con le norme che regolano il trattamento sanitario obbligatorio”.

Il percorso di trattamento sanitario obbligatorio (Tso) dedicato, per i casi più gravi di anoressia, è infatti una delle ipotesi allo studio nell’ambito della revisione della legge 180 sull’assistenza psichiatrica. “L’anoressia è una patologia in crescita” ha detto oggi il sottosegretario al Welfare Francesca Martini. “Non si può pensare ad una sua applicazione tout court, bensì ad una forma di Tso specifico che preveda la disponibilità di accoglienza in centri specializzati e non il passaggio attraverso i servizi di salute mentale, che a questo riguardo risulterebbero inadeguati”. Martini ha inoltre sottolineato come l’attuale Tso sia già un passo in avanti rispetto al ricovero coatto previsto 30 anni fa per le malattie psichiatriche. Oggi, ha sottolineato, è necessario un ulteriore passo per snellire le procedure del Tso, per una maggior flessibilità nell’applicazione, una maggior capacità di attuarlo in casi di urgenza e una maggior attenzione alla persona dal punto di vista clinico. Martini ha quindi posto l’urgenza di strutture dedicate, in cui ci sia la continuità di trattamento per le pazienti, ricordando come in Italia non tutte le regioni siano dotate di strutture specifiche.

 

Fonte: Panorama.it del 12  marzo 2009


Mar 13 2009

i nemici di Internet

Si intitola “I Nemici di Internet”, ed è una sorta di guida ragionata ai luoghi ed i modi della censura online. A stilarla, gli attivisti di Reporters Sans Frontières (RSF), che descrivono un mondo sempre più minacciato dal cybercontrollo. Nei paesi sotto dittatura e non solo.

“Con il pretesto di proteggere la morale, la sicurezza nazionale, la religione e le minoranze etniche, e talvolta persino il potenziale spirituale culturale e scientifico del paese, molti paesi ricorrono al filtraggio della rete per bloccarne parte dei contenuti” denuncia RSF nell’introduzione al documento (disponibile qui in versione integrale).

E dopo questa prolusione generale, gli autori del documento fanno nomi e cognomi dei cattivi, stilando una “Top12” dei paesi meno virtuosi e dedicando ad ognuno una scheda sinottica, completa di dati, riferimenti legislativi ed episodi notevoli in materia di censura digitale.

In cima alla lista si colloca la Cina. È qui che si trova la macchina di controllo più robusta e capillare, con oltre 40000 funzionari pubblici pagati per monitorare le comunicazioni online, quasi 50 persone in prigione per reati legati alla cyber-espressione ed un Ministero dell’Informazione onnipresente.

Ma Vietnam e Siria, che con la Cina condividono il “podio”, non se la cavano male neppure loro. Nel paese mediorientale, spiega RSF, il governo ha inibito l’accesso a una serie ampia di siti – tra cui YouTube, Amazon e Facebook – ed ha imprigionato almeno cinque persone per “reati di espressione” legati a quanto scritto online. In Vietnam, invece, le autorità hanno creato una forza di cyber-polizia dedicata in modo esclusivo al controllo su Internet, mentre il Ministro dell’Informazione ha così commentato l’impiego dei mezzi di espressione individuale: “I blog sono spazi dedicati alle notizie personali. Se un blogger li usa per le notizie pubbliche, alla maniera degli organi di stampa, sta infrangendo la legge e sarà punito”.

L’imprigionamento dei blogger e il restringimento del range di siti raggiungibili non sono comunque le uniche strategie di limitazione della libertà impiegate, denuncia ancora il report. Di recente, governi come quello cinese hanno cominciato a “orientare” la discussione su blog e social network con commenti comandati dall’alto (il cosiddetto astroturfing), mentre altri hanno preso ad impiegare gruppi di hacker per colpire i nemici interni ed esterni.

Della lista dei “più cattivi” fanno parte, oltre ai paesi già menzionati, anche Cuba, Egitto, Myanmar, Iran, Corea del Nord, Arabia Saudita, Tunisia, Turkmenistan, Uzbekistan. Nel complesso, spiega RSF, sono oltre 70 le persone in prigione per “reati di espressione” commessi in rete.

Dopo aver completato la disamina sui dodici least wanted, poi, il report esamina la situazione dei paesi ritenuti “a rischio”. E qui arrivano altre sorprese. Perché in questo secondo gruppo si trovano tra gli altri anche due paesi – la Corea del Sud e l’Australia – che si potrebbero ritenere delle democrazie compiute. Ed invece, argomenta RSF, anche qui le autorità hanno introdotto delle misure legislative che potrebbero attentare alla libertà di espressione online.

La cronaca degli ultimi anni ha visto un aumento costante dei tentativi di controllo e censura governativa nei confronti di Internet, in moltissime parti del mondo. Alcuni paesi, come ad esempio la Cina, sono arrivati a difendere pubblicamente l’esigenza di censurare la comunicazione online, e si sono verificati talvolta effetti perversi come l’autocensura da parte degli stessi cittadini della rete.

Fonte: srs di Giovanni Arata Venerdì  13 maggio 2009


Mar 13 2009

Robespierre: Discorso contro la pena di morte

Category: Cultura e dintorni,Giustizia Legula e Leguleigiorgio @ 10:47

Questo testo è un bellissimo esempio di umorismo involontario che, di fronte al Terrore che Robespierre scatenerà poco dopo, assurge ai vertici del tragicomico. Credo che non ci sia migliore argomento di questo discorso per dimostrare la stupidità di certe posizioni ideali, tutte fatte di belle, ma vuote parole, di concetti astratti privi di ogni contenuto, di fantasticherie filosofiche di buoni a nulla, convinti di poter spiegare e dirigere il mondo solo perché parlano. Poi la realtà, molto dura e molto cruda, prevale e ci costringe a constatare che i problemi non si risolvono con le chiacchiere, che il male si vince solo col male, che il buonismo serve solo a far prevalere i prepotenti e gli sfruttatori.


Robespierre fa il paio con Cesare Beccaria, a cui di certo si è ispirato, il quale (come racconta il Foscolo nella lettera 7-5-1887 alla Albrizzi, sulla base di quanto dettogli dalla sorella, dal fratello e dalla figlia dello stesso Beccaria, e come riferisce anche Byron) dopo aver scritto cose altamente ideali sulla pena di morte, quando sospettò un servo di avergli rubato un orologio, pretendeva che gli venissero dati “i tratti di corda” per farlo confessare.


Cose del tutto normali quando il filosofo ispiratore è quel gran farabutto che fu Rousseau.


Che le grandi professioni di ideali di taluni siano solo un tentativo di mascherare la propria ignominia interiore dietro belle parole e buoni propositi, utili per adescare o confondere sciocchi?


Nella discussione sul Codice penale, l’Assemblea Costituente si era fermata a una domanda della filosofia e del diritto: la pena di morte doveva essere conservata o abolita?


Lepelletier di Saint-Fargeau aveva presentato un rapporto nel quale si dichiarava partigiano dell’abolizione della pena di morte; nondimeno però egli la manteneva in un solo caso: contro un capo di partito dichiarato ribelle da un decreto del Corpo Legislativo. 


Lepelletier di Saint-Fargeau aggiungeva: “Questo cittadino deve cessare di vivere, non tanto per espiare il suo delitto, quanto per la sicurezza dello Stato. ” 


Robespierre, il 30 maggio 1791 parlò su questo fatto nella seduta del 30 maggio 1791. E fu per chiedere la soppressione assoluta della pena di morte.


Non fu che nella seduta di mercoledì 10 giugno che l’Assemblea si pronunciò.  Si decise, e quasi all’unanimità, di non abrogare la pena di morte.


Nota: Questo testo è stato pubblicato nella “Raccolta di Breviari Intellettuali ” dell’UTET, nella traduzione di Alberto Blanche.

 

“Essendo stata portata ad Atene la notizia che nella città di Argo erano stati condannati a morte alcuni cittadini, il popolo si recò nei templi per scongiurare gli dei onde distogliessero gli Ateniesi da pensieri così crudeli e così funesti.

Io vengo a pregare non gli dei, ma i legislatori, che debbono, essere gli organi e gli interpreti delle leggi eterne che la Divinità ha dettate agli uomini, di cancellare dal Codice dei Francesi le leggi di sangue che comandano i delitti giuridici, e che vanno contro le loro nuove abitudini e la loro nuova costituzione. Io voglio provàr loro: 1° che la pena di morte è essenzialmente ingiusta; 2° che essa non è la più reprimente delle pene, e, più che impedire i delitti li moltiplica.

Fuori della società civile, se un nemico accanito viene ad attentare ai miei giorni, e, respinto venti volte, ritorna a distruggere il campo che le mie mani hanno coltivato, poiché io non posso che opporre le mie forze individuali alle sue, bisogna che io perisca o che uccida, e la legge della difesa naturale mi giustifica e mi approva.

Ma nella società, quando la forza generale è armata contro un solo individuo, qual principio di giustizia può autorizzare a dar la morte? Quale necessità può assolverla? Un vincitore che fa morire i suoi nemici, presi prigionieri è chiamato barbaro! Un uomo che fa sgozzare un bambino, ch’egli può disarmare e punire, parrebbe un mostro! Un accusato che la società condanna non è per essa che un nemico vinto ed impotente; le è dinanzi un uomo adulto, ma più debole di un fanciullo.

Così agli occhi della verità e della giustizia, queste scene di morte che essa ordina con tanto d’apparecchio, non sono altro che vili assassinii, che dei delitti solenni, commessi, non dagli individui, ma dalle nazioni intiere, con delle forme legali.

Per quanto crudeli, per quanto stravaganti sieno queste leggi, non meravigliatevi più. Sono l’opera di qualche tiranno; sono le catene che opprimono la specie umana; sono le armi con le quali la soggiogano; esse furono scritte col sangue. “Non è, affatto permesso dare la morte a un cittadino romano. ” Tale era la legge che il popolo aveva sostenuto: ma Silla vinse e disse: Tutti coloro che si sono armati contro di me sono degni di morte. Ottavio ed i compagni suoi di delitti confermarono questa legge. Sotto Tiberio, aver lodato Bruto fu un delitto degno di morte. Caligola condannò a morte coloro che erano tanto sacrileghi da svestirsi dinanzi all’immagine dell’Imperatore. Quando la tirannia ebbe inventato i delitti di lesa maestà, che erano o delle azioni indifferenti o degli atti eroici, chi avrebbe osato pensare che potevano meritare una pena più dolce della morte, a meno di render sé stesso colpevole di lesa maestà?

Il fanatismo, nato dall’unione mostruosa dell’ignoranza col despotismo, allorché inventò a sua volta i delitti di lesa maestà divina, quando concepì nel suo delirio di vendicare Iddio, volle esso pure offrire del sangue, mettendosi al livello dei mostri.

La pena di morte è necessaria, dicono i partigiani degli antichi barbari usi; senza di essa non ci sono freni abbastanza potenti contro i delitti. Chi ve lo ha detto? Avete calcolato tutte le specie di mezzi con i quali le leggi penali possono agire sulla sensibilità umana? Ahimè! prima della morte, quanti dolori fisici e morali l’uomo deve soffrire! Il desiderio di vivere si inchina davanti all’orgoglio, la più imperiosa delle passioni che il cuore umano; la più terribile di tutte per l’uomo sociale, è l’obbrobrio, la schiacciante testimonianza dell’esecuzione pubblica.

Quando il legislatore può colpire i cittadini in tanti lati ed in tanti modi, come può credersi ridotto ad impiegare la pena di morte? Le pene non sono fatte per tormentare i colpevoli; ma per impedire il delitto, il quale teme appunto di incorrere nelle pene. Il legislatore che preferisce la orte e le pene atroci ai mezzi più dolci che sono in suo potere, oltraggia la delicatezza pubblica, affievolisce il senso morale nel popolo ch’egli governa, come un poco abile precettore che, coll’uso frequente di modi crudeli abbrutisce e degrada l’animo del suo allievo, il legislatore abusa ed indebolisce le energie del governo, volendo troppo piegare l’arco del potere. Il legislatore che stabilisce questa pena rinuncia a quel principio salutare, che ” il mezzo più efficace per reprimere i delitti è quello di adattare le pene al carattere delle differenti passioni che causano il delitto”, e di punirle, per così dire. per sé stesse. Esso confonde tutte le idee, turba tutti i rapporti e contraria apertamente lo scopo delle leggi penali.

La pena di morte è necessaria, dite voi! Se è così, perché parecchi popoli hanno saputo farne a meno? Per quale fatalità questi popoli sono stati i più saggi, i più felici, i più liberi? Se la pena di morte è la più appropriata per prevenire i grandi delitti, bisogna dunque che essi sieno stati molto rari presso i popoli che l’hanno adottata e prodigata. Invece accade precisamente tutto il contrario.

Guardate il Giappone: in nessuna parte del mondo si è tanto prodighi della pena di morte, si è tanto prodighi di supplizi; in nessuna parte del mondo i delitti sono così frequenti e cosi atroci. Si direbbe che i Giapponesi vogliono disputare di ferocia con le leggi barbare che oltraggiano e che irritano. Le repubbliche della Grecia, ove le pene erano molto moderate, e dove la pena di morte era infinitamente rara o sconosciuta, forse che avevano più delitti e meno virtù dei paesi governati da leggi sanguinarie? Credete voi che Roma fosse funestata da un maggior numero di delitti, quando, nei giorni della sua gloria, la legge Porcia ebbe distrutte le pene severe portate dai re e dai decemviri, di quanti se ne consumavano quando Silla le fece rivivere, e sotto gli imperatori che ne elevarono il rigore ad un eccesso degno della loro infame tirannide? La Russia è stata forse sconvolta, dacché il despota che la governa ha intieramente soppressa la pena di morte, come s’egli volesse espiare con questo atto di umanità e di filosofia il delitto di tenere dei milioni di uomini sotto il giogo del potere assoluto?

Ascoltate la voce della giustizia e della ragione; essa ci grida che i giudizi umani non sono mai abbastanza certi, perché la società possa condannare a morte un uomo condannato da altri uomini soggetti ad errare. Se anche voi aveste immaginato il più perfetto ordinamento giudiziario, se aveste trovati i giudici più integri e più illuminati, sarà sempre possibile un errore, non evitereste assolutamente la prevenzione.

Perché impedire il mezzo di riparare? Perché condannate all’impossibilità di tendere una mano soccorritrice all’innocente oppresso? Che importano gli sterili rimpianti, le riparazioni illusorie che voi accordate ad un’ombra vana, ad una cenere insensibile? Essi sono tristi testimonianze della barbara temerità delle vostre leggi penali. Togliere all’uomo la possibilità di espiare il suo malfatto col pentimento o con degli atti di virtù, chiudergli senza pietà il ritorno alla virtù, alla stima di sé stesso, adoperarsi per farlo più presto scendere, per così dire, nel sepolcro ancora tutto avvolto dalla macchia recente del suo delitto, è ai miei occhi una delle più raffinate crudeltà.

Il primo dovere del legislatore è di formare e di conservare gli usi pubblici sorgenti di tutte le libertà, sorgenti di tutta la felicità sociale; allorché per giungere ad uno scopo particolare, egli si allontana da questo scopo generale ed essenziale, commette il più grossolano ed il più funesto degli errori.

Bisogna dunque che le leggi presentino sempre ai popoli il modello più puro della giustizia e della ragione. Se, al posto della severità potente, della calma moderata che deve caratterizzarle, esse mettono la collera e la vendetta; se esse fanno colare del sangue umano che possono risparmiare e che non hanno diritto di spargere; se esse espongono agli occhi del popolo scene crudeli e cadaveri martoriati dalle torture, allora alterano nel cuore dei cittadini le idee del giusto e dell’ingiusto, allora fanno germogliare nel seno della società dei pregiudizi feroci che alla loro volta ne producono degli altri.

L’uomo non è più per l’uomo un oggetto altamente sacro, si ha una idea meno grande della sua dignità, quando l’autorità pubblica si ride della vita umana. L’idea dell’assassinio ispira meno spavento, quando la legge stessa ne dà l’esempio e lo spettacolo; l’orrore del delitto scema, poiché lo si punisce con un altro delitto. Guardatevi bene dal confondere l’efficacia delle pene con l’eccesso della severità; l’una è assolutamente l’opposta dell’altro. Tutto asseconda le leggi moderate, tutto cospira contro le leggi crudeli. 
Si è osservato che nei paesi liberi i delitti erano più rari, perché le leggi penali eran più dolci. I paesi liberi sono quelli nei quali i diritti dell’uomo sono rispettati, e dove di conseguenza le leggi sono giuste.

Dappertutto dove esse offendono l’umanità con un eccesso di rigore, si ha la prova che la dignità dell’uomo non è conosciuta, che quella del cittadino non esiste; si ha la prova che il legislatore non è che un padrone che comanda a degli schiavi, e che li colpisce spietatamente seguendo la sua fantasia.

Io concludo perché la pena di morte sia abrogata.

(Maximilien-François-Marie-Isidore de Robespierre)

 

Fonte: http://www.geocities.com/Athens/Olympus/3656/index.htm


Mar 13 2009

Parigi lustra la ghigliottina

Presso l’Assemblea Nazionale francese sono ore di dibattito: si sta discutendo del futuro della gestione dei diritti di proprietà intellettuale online, si sta tracciando un solco nel quale gli attori del mercato dovranno muovere per difendere la propria attività. La dottrina Sarkozy attende di essere avallata dalle istituzioni.

Al senato era passata all’unanimità, fatta eccezione per l’astensione di sparuti rappresentanti dei cittadini. La loi Création et Internet è ora all’esame dell’Assemblée Nationale. L’obiettivo, ha spiegato del ministro della Cultura Christine Albanel, è quello di dissuadere i cittadini della rete dall’abusare della connettività: “se il downloading illegale si riducesse del 60 o del 70 per cento sarebbe una grande vittoria”. Le armi che la legge potrebbe consegnare nelle mani dell’industria dei contenuti per tutelare mercato e legalità, armi che l’industria dei contenti ambisce ad imbracciare in mezzo mondo, sono missive e ghigliottine sulla connessione. Il primo avvertimento potrebbe giungere a mezzo email: una misura che dovrebbe scoraggiare molti dei downloader. Nel caso in cui entro sei mesi l’industria si trovi a riscontrare una nuova violazione in capo all’indirizzo IP dietro a cui si cela l’abbonato, il provider si troverà a dover recapitare una seconda ingiunzione. Il terzo avvertimento potrebbe arrivare per posta, con una raccomandata con ricevuta di ritorno.

Dopo la terza notifica, la disconnessione: i provider non dovranno concedere connettività a coloro che si siano macchiati di violazioni del diritto d’autore. Le pene potrebbero oscillare da un mese ad un anno: a comminarle, l’Haute Autorité pour la diffusion des ?uvres et la protection des droits sur Internet (Hadopi), l’autorità indipendente posta a presidio della ghigliottina francese. Non sarà l’autorità giudiziaria a fare da filtro tra i detentori dei diritti e i cittadini della rete: se il disegno di legge dovesse entrare in vigore, all’industria dei contenti basterà rastrellare indirizzi IP e chiedere all’Hadopi di intercedere presso i provider. Gli ISP potrebbero essere costretti a consegnare il nome dell’intestatario dell’abbonamento a cui è riconducibile l’indirizzo IP colto in fallo dall’industria, il cittadino potrà patteggiare o fare ricorso rivolgendosi all’autorità giudiziaria. Le autorità ritengono che l’individuazione e la punizione di un indirizzo IP sia la strada da battere, nonostante la stessa magistratura francese abbia riconosciuto che l’IP non consenta di delimitare una responsabilità individuale. Una volta identificato e avvertito l’intestatario dell’abbonamento, questa la dinamica che i relatori della legge prevedono si inneschi, sarà lui stesso ad operare il controllo e un’azione dissuasiva nei confronti dei fruitori della connettività che mette a disposizione, siano essi pargoli irretiti dalla rete o infidi piggybacker.

Non è ancora chiaro quanto costerà innescare il meccanismo di risposta graduale: le istituzioni meditano di stanziare 15 milioni di euro per sostenere le attività dell’autorità, ma la ripartizione dei capitoli di spesa sembra ancora da discutere. I provider potrebbero essere gli anelli della catena più penalizzati: si stima che possano dover spendere oltre 30 milioni di euro per sostenere il proprio ruolo di boia a tutela del diritto d’autore. Sembrerebbe trattarsi di un contrappasso: la motivazione di un alto tasso di pirateria, ha denunciato il ministro Albanel, sarebbe da imputare alle offerte di banda illimitata messe a disposizione degli ISP.

Sono finora oltre 400 gli emendamenti depositati. Una volta illustrato il testo della legge, l’Assemblea Nazionale passerà al vaglio le altre istanze proposte. C’è chi ambisce ad abolire i sistemi DRM, una volta che le violazioni siano scoraggiate con la minaccia della disconnessione, c’è chi vorrebbe scongiurare il rischio che agli intermediari venga imposto l’onere di filtrare i contenuti in rete, c’è chi sembrerebbe invece voler imporre ai gatekeeper della rete di incanalare i cittadini verso offerte legali messe in campo per contrastare i traffici illeciti. Con ogni probabilità si deciderà solo dopo la fine del mese di marzo.

Se il dibattito parlamentare si sopirà e verrà rimandato di settimane per lasciare spazio ad altre priorità, il confronto fuori dall’Assemblea infuria. La spaccatura non risparmia la stessa maggioranza: “Internet non è un giocattolo – ha denunciato Lionel Tardy, deputato dell’UMP, facendo riferimento all’orientamento espresso in sede europea – ma un servizio universale”. Per questo motivo Tardy chiede la mediazione dell’autorità giudiziaria: solo un magistrato può decidere di delimitare la libertà di esprimersi e di informarsi che spettano al cittadino. Sulle sanzioni vertono inoltre numerose delle critiche mosse alla loi Création et Internet: c’è chi ritiene la disconnessione una misura troppo radicale, e propone di convertirla in un’ammenda, garantendo così l’accesso a servizi di utilità fondamentale.

I cittadini della rete, nel contempo, organizzano la mobilitazione e tentano di insinuare nel Palazzo il concetto di licenza globale per accedere alle opere, che garantirebbe la possibilità di attingere a flussi di contenuti senza per questo privare i detentori dei diritti dell’equo compenso che spetta loro. Basterebbero tra i due e i sette euro al mese, spiega Philippe Aigrain, cofondatore dell’associazione a tutela dei diritti dei netizen La Quadrature du Net: qualora aderissero 18 milioni di utenti si potrebbe ricompensare abbondantemente tutta la filiera dell’audiovisivo.

Fonte: srs di Gaia Bottà, da Punto informatico del 13,aprile,2009


Mar 13 2009

Wikipedia cede al diritto d’autore italiota

Roma – Se ancora li avesse, probabilmente anche Fuksas si metterebbe le mani nei capelli. Secondo quanto deciso da amministratori ed utenti di Wikimedia Commons e della Wikipedia italiana, infatti, le fotografie delle sue opere – assieme a quelle di un nutrito numero di colleghi – vanno eliminate dalla nota enciclopedia telematica a causa del diritto d’autore. L’intera architettura contemporanea e moderna italiana, perciò, rischia di non poter essere raffigurata nella più grande enciclopedia del mondo, col pesante danno per i beni culturali italiani che questo comporta.

 

Mentre il Brunelleschi se la rideva dal suo sepolcro in Santa Maria del Fiore, già nel gennaio 2007 la Soprintendenza per il Polo Museale fiorentino pensava bene di diffidare l’uso “in modo non autorizzato di immagini di opere conservate nei musei statali di Firenze”, inviando una lettera formale tramite il sistema OTRS alla Wikimedia Foundation (che gestisce tutti i progetti intorno a Wikipedia).

 

Da allora si è animato un ampio dibattito, fino ad arrivare alla sofferta decisione di eliminare le fotografie raffiguranti opere architettoniche in Italia di progettisti ancora in vita, o morti da meno di 70 anni (come previsto dalla Legge 633/1941 sul diritto d’autore). Questo perché la legislazione italiana, a differenza di molti altri paesi, non contemplerebbe il cosiddetto panorama freedom (libertà di panorama), che permette a chiunque di fotografare e riprodurre quanto pubblicamente visibile senza preoccuparsi di dover trovare il progettista e pagargli i diritti d’autore.

 

La prossima volta che fotografiamo la Stazione Centrale di Milano in una calda sera estiva, quindi, oltre a dover fare attenzione a non essere rapinati, sarà meglio verificare che non ci siano nelle vicinanze funzionari della SIAE. Anche le opere dell’architettura (come quelle della pittura, del disegno, della fonografia…), infatti, sono protette dalla legge sul diritto d’autore (Artt. 2 e 13). Di conseguenza, solo gli autori originali avrebbero il diritto esclusivo di riprodurle, in qualsiasi forma: inclusa quella fotografica. La violazione vera e propria (l’uso per scopo personale è consentito), nasce nel momento in cui la fotografia viene caricata su un sito ad accesso pubblico e dotata di una licenza libera, diventando potenzialmente riproducibile anche con fini commerciali. Questa è esattamente la filosofia Wikipedia.

 

Dello stesso avviso è il prof. Enrico Santarelli, ordinario di Politica Economica ed Economia industriale dell’università di Bologna, a cui abbiamo chiesto un parere in proposito. Secondo Santarelli, “la questione, ovviamente, si pone qualora i titolari del diritto intendano farlo valere”.

 

Punto Informatico: Wikipedia (anche quella italiana) si trova su server posti negli Stati Uniti, ove è in vigore la dottrina del “fair use”. Posto questo, crede sia legale la riproduzione fotografica di un’opera architettonica italiana su quei server?

Enrico Santarelli: È un questione complessa che evidenzia il problema – di cui prima o poi qualcuno dovrà occuparsi – della omogeneizzazione delle normative internazionali. È da tener presente che in materia di brevetti, ad esempio, il mancato completamento delle procedure di definizione di un “brevetto europeo” fa sì che in sede di enforcement (quasi) ciascun paese dell’ Unione europea segua procedure diverse. Tornando al caso specifico, credo che gli aventi diritto possano comunque chiedere di oscurare quel sito estero nel paese in cui la normativa non contempla la dottrina del “fair use”.

 

PI: Il nucleo della Legge sul diritto d’autore in Italia risale addirittura al 1941. Si può affermare che sia sostanzialmente arretrata rispetto al quadro mediatico e tecnologico configuratosi negli ultimi anni?

ES: Le attuali tecnologie dell’informazione e della comunicazione rendono imprescindibile una omogeneizzazione delle normative a livello internazionale. In questo caso, parlerei di una ineluttabilità della globalizzazione delle norme a tutela del copyright.

 

Quindi, a meno di un diretto pronunciamento degli interessati o di un’improbabile modifica della legge sul copyright, il destino dell’architettura moderna italiana su uno dei dieci siti più visitati al mondo, pare segnato. L’Auditorium Parco della Musica di Roma, la Fiera di Milano, la Stazione Centrale, il palazzo del rettorato de La Sapienza di Roma, le stazioni della metropolitana di Napoli, il Pirellone, la nuova chiesa di Padre Pio a San Giovanni Rotondo… scompariranno a breve dalle Wikipedie internazionali: per la gioia del turismo italico, della promozione dei beni culturali, e di quei 60 milioni di utenti che ogni giorno visitano Wikipedia nelle varie lingue. L’ironia maggiore sta nel fatto che un’opera di un architetto italiano collocata, ad esempio, in Germania, può tranquillamente essere riprodotta, poiché la legge tedesca – come la maggioranza degli stati europei – prevede la succitata “libertà di panorama”.

 

Così, mentre la stessa Germania finanzia lo sviluppo di Wikipedia, l’Italia la diffida dall’uso di fotografie di quadri presenti nei propri musei e si trova senza le immagini di tutte le opere architettoniche moderne presenti nel proprio territorio. In attesa di trovare il classico cavillo legale che risolva la situazione, fra mandolini, pizza e maccheroni.

 

Fonte: srs di Luca Spinelli da Punto informatico lunedì 02 luglio 2007


Mar 13 2009

Fotografare nei musei

 

Fotografare i quadri e le opere d’arti nei  musei italiani è vietato perché “si rovinano”, al Louvre di Parigi invece si può…

Della serie,  vivere   nel paese delle balle.


Mar 12 2009

Legge Urbani, ovvero l’ arte italiana scompare dalla rete

Ecco un bel articolo che spiega le conseguenza  di una delle più belle legge che poteva  partorite questa decadente, confusionaria e incapace  legislazione italiana dove la sapienza  è un’opzione rarissima.

 

Esempio eclatante della totale mancanza di   rispetto  dello stato verso i sui cittadini, visto che è riuscita per i soli meri interessi di potentati economici, culturali e fiscali togliere l’usufrutto  dell’arte  e delle bellezze dell’ Italia agli stessi italiani e non solo.

 

Venerdì  21 dicembre 2007

Roma – Pochi giorni fa il Ministro Rutelli ha annunciato il rientro nel nostro territorio di opere d’arte italiane trafugate e portate illegalmente all’estero. 

Dal 21 dicembre al 2 marzo, sessantotto manufatti d’epoca romana, greco-romana ed etrusca, avranno temporaneamente casa in una mostra al Quirinale, di ritorno dalle teche di prestigiosi musei e gallerie di tutto il mondo (tra i quali il Metropolitan di New York), per poi trovare collocazione nei più importanti musei della penisola.

L’intellighenzia italiana, con in prima fila il ministro Rutelli, si è felicitata e congratulata per quello che rappresenta indubbiamente un notevole successo per i beni culturali nostrani.

Queste opere però – e non solo queste – sono condannate da una misconosciuta legge italiana ad un limbo burocratico dal quale sarà ben difficile tirarle fuori, e che rischia di consegnarle all’oblio più completo.

Il “Codice dei beni culturali e del paesaggio” (che chiameremo Codice Urbani, dal nome del suo ispiratore), regola tutte le opere gestite da enti pubblici italiani, e sta creando non pochi problemi alla loro promozione nel mondo. 

Tale codice prevede il divieto assoluto di fotografare le opere in mancanza di un’autorizzazione dell’ente che le gestisce (museo, comune, ministero…). Per lo stesso motivo è vietata anche la riproduzione su internet.

Nel silenzio generale dei media, sotto la scure del Codice Urbani sono già passate l’Annunciazione di Leonardo, la Venere di Botticelli, il Bacco di Caravaggio ed altre notissime opere di Raffaello, Tiziano e Rembrandt: tutte scomparse dalla maggiore enciclopedia online del mondo. 

Ma non è tutto: altre decine e decine di fotografie di opere notissime stanno scomparendo proprio in questi giorni a causa della suddetta legge. 

E con loro, chissà quante altre nel silenzio di siti più piccoli spersi per la Rete.

Anche le opere appena recuperate rischiano la stessa sorte, con la tutto sommato piccola aggravante che il tempo per fotografarle è pure più ristretto. I reperti, infatti, dopo il breve periodo di permanenza al Quirinale, partiranno per le loro collocazioni definitive in musei e gallerie italiane. 

A chi volesse fotografarli per inviarne la foto alla nonna che vive in Svizzera, non resta che appostarsi davanti al Quirinale per intercettarli durante il loro ultimo viaggio verso la galera burocratica dei musei italiani (sempre che, com’è ovvio che sia, non siano già ora in gestione a un ente pubblico).

Il governo, interrogato sulla questione, ha recentemente confermato ufficialmente il ruolo e i poteri operativi di questa legge. Nella stessa dichiarazione, il sottosegretario ai beni culturali Andrea Marcucci ha chiarito incontrovertibilmente che anche la “Libertà di panorama” in Italia non esiste. 

Riassumendo: non solo non è possibile fotografare le moderne opere architettoniche pubbliche, non è nemmeno possibile fotografare quadri e sculture di qualsiasi epoca presenti nel territorio italiano.

In una società sempre più pervasa dalla tecnologia e dall’immediatezza di comunicazione, dove la maggioranza delle informazioni viene acquisita online, l’Italia si chiude dietro a leggi burocratiche e farraginose che stanno facendo scomparire tutta la sua arte dal Web: coi danni che questo comporterà nel breve ma soprattutto nel lungo termine.

E ora c’è già chi pensa che le opere trafugate stessero molto meglio nei musei che, fino ad oggi, le hanno esposte molto più liberamente.

 

Fonte Prima comunicazione 21,12,07

Luca Spinelli

luca.spinelli@deandreis.it


Mar 12 2009

Il Comitato italiano antipirateria

Category: Informatica,Media e informazionegiorgio @ 06:19

Roma – Continua la strana storia, tutta italiana, di quel decreto del Presidente del consiglio (DPCM 15 settembre 2008) che istituisce presso le istituzioni un “Comitato tecnico contro la pirateria digitale e multimediale”. Tale decreto è in vigore già da quasi due mesi, come annunciato dalla Gazzetta Ufficiale. Tuttavia se ne sa ancora molto poco.

Proseguono, intanto, le voci di critica e perplessità avanzate da varie associazioni, voci già raccolte nelle settimane scorse da Punto Informatico.

Dopo un’indagine online, però, siamo finalmente riusciti a trovarne una copia sul sito del governo. Poiché abbiamo a disposizione il testo, facciamo un’analisi critica del Decreto che istituisce il Comitato, riassumendo le parti salienti.

L’articolo 1 del decreto definisce i compiti del “comitato antipirateria”, ovvero:

a) coordinamento delle azioni per il contrasto del fenomeno;

b) studio e predisposizione di proposte normative;

c) analisi e individuazione di iniziative non normative, ivi compresa anche la eventuale stipula di appositi codici di condotta e di autoregolamentazione.

Oltre ad attività di tipo repressivo, perciò, tra i compiti del comitato non sembra prevista alcuna forma di studio o indagine né sul fenomeno della pirateria in sé, né sulle dinamiche della rete, né per la proposta di soluzioni deterrenti alternative alla semplice repressione (come per esempio il supporto della vendita di musica tramite canali legali). 

Ciò significa che il comitato agirebbe e lavorerebbe strettamente con un ottica repressiva o, nei casi migliori, etico/moralizzatrice (tramite il punto c). 

L’articolo 2 stabilisce chi sono i membri di detto comitato:

a) il segretario generale della presidenza del consiglio dei ministri, in qualità di coordinatore

b) il capo di gabinetto del ministero dei beni e attività culturali, in qualità di vice coordinatore

c) sei capi di gabinetto dei principali ministeri

i) il presidente della SIAE

j) due rappresentanti della presidenza del consiglio dei ministri

k) due rappresentanti del ministro per i beni e le attività culturali

l) due esperti del settore, nominati dal presidente del consiglio dei ministri d’intesa col ministro per le attività culturali

Molti rappresentanti delle istituzioni ma nessun membro indipendente, nessun membro delle associazioni dei consumatori, di quelle dei provider, nessun membro della società civile né della cultura, né dell’imprenditoria. 

Come se al tavolo per discutere il futuro della carta stampata italiana sedessero solo il ministro per i beni culturali e un “esperto” da lui stesso nominato. 

Infatti, gli unici due “esperti del settore” presenti nelle file del comitato dovranno essere nominati da Silvio Berlusconi in accordo con Sandro Bondi. 

Soggetti di cui almeno uno dei due non è proprio un profondo conoscitore del mezzo (come da lui stesso rivelato in una recente intervista).

L’articolo 3 indica le modalità di funzionamento del comitato. In particolare:

2. il comitato svolge audizioni, anche pubbliche, di esponenti delle categorie, associazioni, enti dei settori interessati.

3. si avvale di un proprio indirizzo internet per avviare una consultazione pubblica con le categorie interessate, con gli utenti del settore e con i cittadini.

Sebbene il proposito di svolgere audizioni pubbliche e di sfruttare un proprio indirizzo internet per la comunicazione con gli utenti e i cittadini sia confortante, mancano indicazioni chiare su come tale consultazione avverrà, su quale sia l’indirizzo internet cui fare riferimento (probabilmente questo), e soprattutto sulla effettiva considerazione che queste non meglio precisate “consultazioni” avranno in sede di decisione. Manca, in sostanza, un’auspicabile e fondamentale comunicazione trasparente.

In attesa di ulteriori e attesi chiarimenti dal governo, un sentimento di preoccupazione è diffuso: attualmente, infatti, ci troviamo di fronte ad un nutrito comitato ministeriale il cui unico e monotematico compito è la lotta alla pirateria. 

Un comitato composto da soli membri del governo e della SIAE: soggetti che, a prescindere da quale sia la propria opinione in materia di pirateria, difficilmente rappresentano tutti i movimenti vivi nel variegato mondo della cultura e della Rete.

Ebbene: quale autorità ha un comitato così composto per redigere codici etici e deontologici in totale autonomia sulla gestione di un fenomeno estremamente complesso come quello della pirateria? 

Quale reale utilità democratica può avere un tavolo di discussione al quale non sono invitati buona parte dei soggetti in causa se non per prendere il dolce (ovvero tramite le non precisate “audizioni”)? Quale senso ha un comitato formato per redigere leggi sul Web senza neppure alcun membro del ministero delle comunicazioni o del dipartimento per l’innovazione tecnologica?

È da tempo noto l’apprezzamento delle istituzioni italiane verso la cosiddetta “dottrina Sarkozy” in materia di pirateria. La dottrina francese, lo ricordiamo, prevede l’avvertimento graduale dell’utenza che viola il diritto d’autore fino a giungere a un distaccamento della connessione.

Il Comitato antipirateria istituito presso il Consiglio dei ministri, perciò, come preconizzato da alcuni, parrebbe sempre più il primo passo verso l’introduzione anche in Italia di una norma con gli stessi intenti (pur se già bocciata in sede europea).

In una società in cui il Web ha una rilevanza sempre più fondamentale nelle attività di tutti i giorni, secondo alcuni legislatori il diritto alla tutela dell’autore sembrerebbe quindi più importante di quei diritti fondamentali che la Rete stessa garantisce. Un po’ come se per punire chi ha detto una parolaccia gli si tagliasse la lingua.

 

Fonte: srs di Luca Spinelli


Mar 11 2009

L’Iran… no, e’ l’Italia a presentare un emendamento per bandire Facebook

Category: Media e informazione,Società e politicagiorgio @ 19:37

 

Pubblicato martedì 24 febbraio 2009 in Olanda

[de nieuwe reporter]

 

L’UDC e’ il partito ‘di opposizione’ della destra con piu’ deputati perseguiti penalmente. Giampiero D’Alia, senatore del partito, ha recentemente redatto l’emendamento 50bis per mezzo del quale siti come Facebook e Youtube potrebbero essere chiusi sul territorio nazionale su richiesta del Ministero degli Interni. L’emendamento e’ stato approvato come parte del grande pacchetto sicurezza del governo italiano.

Il network Facebook cresce in maniera velocissima in Italia. Un grafico mostra la crescita esponenziale di Facebook comparandolo a Myspace, Blogger e Splinder. Il sito contava 4.149.320 registrazioni a novembre dello scorso anno, mentre nel febbraio di quest’anno e’ cresciuto del 55,59%, fino a 6.455.960 registrazioni.

La comunita’ italiana di Facebook mostra un vivace e intricato groviglio di contatti. Gli studenti italiani hanno spesso usato Facebook lo scorso autunno per le loro proteste contro i cambiamenti nel sistema scolastico. Un programma TV su Gaza in cui un giornalista se ne era andato via arrabbiato, ha comportato numerose reazioni sul sito. Nel frattempo la questione di Eluana Englaro, sfruttata dalle logiche politiche e del vaticano in modo estremo, e’ stata a lungo discussa anche su Facebook mentre sono stati inseriti online ‘testamenti biologici’ come conseguenza della tragedia di Eluana.

Pacchetto sicurezza

L’emendamento 50bis di D’Alia e’ parte del piu’ grande ‘pacchetto sicurezza’ che in passato ha reso possibile la presenza dell’esercito e polizia extra a Napoli e in altre zone, e che prevede sull’isola di Lampedusa una sorta di Alcatraz per immigranti illigali.  Il parlamentare motiva il suo emendamento nominando siti come Facebook in cui nei mesi scorsi sono comparsi gruppi che idolatrano mafiosi di primo ordine come i siciliani Toto’ Riina e Bernardo Provenzano e il camorrista napoletano Cutolo, o la organizzazione terroristica delle Brigate Rosse. Questi gruppi non contano che circa duecento membri. Gli altri gruppi italiani con decine di migliaia di soci su Facebook portano invece nomi di famosi giudici uccisi dalla mafia.

In un’intervista con il settimanale L’Espresso il senatore D’Alia ha rilasciato la seguente dichiarazione: “Nel caso di simili contenuti dannosi il ministero intimera’ il provider che avra’ pertanto due possibilita’: o accettare, e quindi cancellare i contenuti indicati, o non farlo. Nell’ultimo caso diviene complice di chi inneggia a Provenzano e Riina, e si da’ ragione pertanto della soppressione del sito.[…] Lo stesso vale per i video su Youtube, che concernono lo scambio di offese e minacce tra gli utenti, e vale anche per i commenti sui blog”.

Protesta

Subito si sono formati gruppi di protesta su Facebook contro l’emendamento di D’Alia. Ma non sono le prime proteste italiane contro le limitazioni alla liberta’ di espressione sul web. E non sono nemmeno i primi tentativi per regolare la comunicazione digitale.

Infatti nel 2007 su iniziativa di un parlamentare, ancora dell’ UDC, fu oscurato un sito italiano. E’ accaduto a causa del gioco-video flash-based Operation Pedopriest. Il gioco nel 2007 e’ stata la provocatoria risposta dei mediartisti di Molleindustria al documentario della BBC ‘Sex, Crime and the Vatican’.

A giugno di quell’anno Luca Volonte’, all’epoca a capo dell’UDC al Senato, protesto’ presso tre ministri che il gioco aveva lo scopo di attaccare la Chiesa e il Papa Benedetto XVI. Richiese pertanto ai ministri di prendere dei provvedimenti urgenti in modo che la liberta’ d’espressione non diventasse un alibi per giustificare l’offesa di sentimenti umani e religiosi e soprattutto della religione cattolica.

l Ministero degli Interni fece sapere che il sito era stato gia’ ispezionato dalla giustizia, e gli artisti tolsero il loro sito dal web, “per non peggiorare la situazione del nostro web provider, che è responsabile legalmente per tutto il contenuto’. Dopodiche’, come era prevedibile, il gioco e’ rimbalzato ed e’ stato copiato in Italia e all’estero.

Un mese piu’ tardi e’ stato registrato un dominio online dal nome lucavolonte.eu per una parodia, una copia quasi esatta del sito di Volonte’, con l’Operazione Pedopriest ben in vista.

Il sito e’ stato prontamente chiuso a causa della ’sostituzione di persona e calunnia a mezzo stampa’. Ma non e’ ancora finita, perche’ ora il sito si trova con la stessa parodia negli USA. Voci dicono che il PM italiano stia valutando se presentare una richiesta internazionale alle autorita’ americane.

Emigrazione

L’emendanmento 50bis comportera’ probabilmente nel contesto internazionale una emigrazione di siti e servers fuori dall’Italia, sull’esempio della crescente emigrazione di gente dal Paese.

Facebook e Google hanno intanto reagito in modo scosso all’emendamento 50bis di D’Alia. Marco Pancini di Google Italia ha detto alla stampa di non essere d’accordo con “queste leggi ad aziendam. [..] Qui si ha a che fare con reati di opinione”. Pancini fa sapere che “la polemica circola a livello internazionale e la cosa continua ancora.[..] C’e’ una corrente all’interno della politica contro l’industria internet e il mondo degli utenti” afferma Pancini. Facebook paragona l’emendamento ad un blocco dei binari a seguito di graffiti indecenti nella stazione.

La formulazione dell’emendamento trova origine nell’esigenza di combattere il culto dei mafiosi nei gruppi di Facebook ma in pratica avra’ il carattere di una censura vera e propria che si estendera’ anche a siti come Youtube. Le aziende della telecomunicazione sono ritenute responsabili della cancellazione dei contenuti incriminati con multe fino a 300.000 euro. Per il provider sara’ forse piu’ semplice chiudere un intero sito che andare in cerca di un aspetto di un contenuto illegale su una certa piattaforma.

Skype

Il prossimo mezzo di comunicazione digitale che diventera’ forse bersaglio del governo italiano e’ Skype. L’intercettazione telefonica di un trafficante di cocaina e’ sotto l’attenzione da un paio di mesi: ” Ne riparliamo di nuovo su Skype di quei due chili di cocaina”.

PS. In questo momento c’e’, sempre in relazione al ‘pacchetto sicurezza’ del governo italiano, un provvedimento per bandire le intercettazioni telefoniche nel corso di inchieste giudiziarie. I giornalisti e i giornali sono punibili (fino a 3 anni) se scrivono su persone indagate o nominano i magistrati legati all’inchiesta o, ancora, se informano su processi non ancora conclusi.

PPS. Gabriella Carlucci del PdL (il partito di Berlusconi) attraverso la proposta di legge 2195 vuole “assicurare la legalita su internet” per cui, secondo lei, il governo dovrebbe nominare un comitato che vigili che ogni testo online sia riferito riconducibile all’autore”. In altre parole, con tale proposta di legge si vuole che l’anonimato sulla rete giunga a termine. La proposta, nelle intenzioni di chi l’ha formulata, si vuole abbia valore anche fuori dai confini geografici italiani. La proposta non e’ ancora ufficiale, ma alcune parti circolano gia’ sul web.

 

Fonte: http://italiadallestero.info/archives/3981

[Articolo originale di Cecile Landman]  http://www.denieuwereporter.nl/2009/02/iran-nee-italie-regelt-facebook-ban-per-amendement/

 


Mar 11 2009

La Dea delle miniere di turchese del Sinai

Category: Bibbia ed Egittogiorgio @ 08:07

Si dai tempi pre-dinastici, gli antichi Egizi andavano nella Penisola del Sinai per via terrestre, o attraversando il Mar Rosso, alla ricerca di minerali. I loro obiettivi principali erano il turchese e il rame, che si estraevano in quei luoghi.

Gli archeologi che esaminano le tracce, risalenti 8000 anni fa, hanno concluso che i più antichi insediamenti conosciuti nel Sinai sono proprio quelli dei minatori. 

Verso il 3500 a.C. furono scoperti i filoni di turchese a Serabit Al-Khadim. Circa 500 anni dopo, gli Egizi controllavano il Sinai ed avevano avviato una rete di operazioni minerarie a Serabit Al-Khadim, per estrarre grandi quantità di turchese. I materiali erano portati per il Wadi Matalla al porto di Al-Markha, a sud dell’attuale villaggio di Abu Zenima, e poi salpavano per mare.

Il turchese era molto apprezzato e divenne parte di un simbolismo rituale nelle cerimonie religiose dell’antico Egitto. In esso erano intagliati scarabei sacri e gioielli, o se ne facevano pigmenti per dipingere statuette, mattoni e bassorilievi sui muri.

Per estrarre  il turchese, gli Egizi praticavano ampie gallerie nella montagna. All’entrata erano scolpiti i ritratti dei Faraoni regnanti, come simbolo dell’autorità dello stato d’Egitto su quelle miniere.

Un tempio dedicato alla Dea Hathor fu costruito durante la XII Dinastia, quando Serabit Al-Khadim era il centro delle miniere di rame e di turchese ed un fiorente centro commerciale. E’ uno dei pochi monumenti faraonici conosciuti nel Sinai, è diverso da altri templi del periodo, contiene un gran numero di bassorilievi e di steli che presentano le date delle diverse missioni arrivate per estrarre  il turchese nell’antichità, col numero dei membri e la durata di ciascuna missione. Da una dinastia all’altra il tempio era ampliato e abbellito, e gli ultimi ampliamenti ebbero luogo durante la XX Dinastia.

Per raggiungere il tempio occorre attraversare una sequenza di 14 blocchi perfettamente intagliati, che formano un’anticamera, ed un piccolo pilone  prima di raggiungere il cortile centrale. Alla fine del cortile c’è il santuario con due grotte, dove gli dei Hathor e Sopdu erano adorati, e rimangono le loro immagini. Questa parte era accessibile solo ai sacerdoti del Faraone. Purtroppo, un tentativo britannico, nel periodo coloniale (sec. XIX), per riaprire le miniere, distrusse alcuni bassorilievi.

Il sito di Serabit Al-Khadim, posto su una montagna a quasi 900 m di altitudine, fu scoperto dall’archeologo inglese Flinders Petrie nel 1905. Petrie scavò alcune sculture, steli e oggetti sacrificali dell’epoca di Senefru (IV Dinastia).

Petrie trovò anche tracce di scrittura Proto- Sinaitica, una specie di antenato dell’attuale alfabeto. Quegli scritti, insieme ai geroglifici, indicavano i nomi dei minatori ed i loro lavori. Poi si sviluppo la scrittura alfabetica detta Proto-Cananea.

Il tempio di Serabit Al-Khadim ha una doppia serie di steli che conducono ad una cappella sotterranea, dedicata alla Dea Hathor. Molti erano i templi o santuari della Dea Hathor che, tra i propri attributi, era la patrona dei minatori di rame e di turchese. Come abbiamo visto, la prima parte del tempio di Hathor, che ha un cortile frontale ed un portico, è datata alla XII Dinastia e risale probabilmente al Faraone Amenemhet III, quando le miniere erano molto attive.

Diversi dipinti raffigurano Hathor nell’ascensione al trono nuovo Faraone, e nella sua divinizzazione. In una scena Hathor allatta il Faraone. In un’altra Hathor offre al Faraone il simbolico ankh, chiave di vita.

Il tempio fu poi ampliato durante il Nuovo Impero, niente di meno che dalla Regina Hatshepsut, insieme a Tuthmosis III e Amenhotep III. Fu un periodo di rinascita per le miniere, dopo un temporaneo declino durato nel secondo Periodo Intermedio. Non sono comuni questi tipi di ampliamento dei templi, ad ovest della struttura primitiva.

A nord del tempio c’è un santuario dedicato ai Faraoni divinizzati. Lungo un muro sono disposte numerose steli. Più a sud del tempio principale c’è un santuario più piccolo dedicato a Sopdu, dio del Deserto Orientale.

Attualmente è in corso il restauro e lo studio di tutto il sito, per renderlo visitabile ai turisti. Mohamed Abdel-Maqsoud, capo dell’amministrazione centrale delle antichità del Basso Egitto, ha detto che i restauri ripuliranno tutti i muri ed i rilievi. Saranno inoltre consolidati e rinforzati i rilievi, i colori dei dipinti e le strutture di fabbrica. Il restauro sarà compiuto dalla SCA, con la collaborazione documentaria e tecnica della CULTNAT.

Zahi Hawass, segretario generale della SCA, ha detto che ogni scoperta sarà fotografata, disegnata e videoripresa su tutti i lati e poi sarà ricollocata nella sua posizione originaria. Sarà inoltre predisposto un progetto di gestione del sito.

 

di Nevine El-Aref (26 Febbraio 2009)

 

Fonte: Al-Ahram Weekly ondine/link:http://weekly.ahram.org.eg/2009/936/he1.htm/ la porta del tempo.


Mar 11 2009

Sono un cavallo e odio l’estate

Category: Mondo animalegiorgio @ 05:30

Il mio nome non ha importanza, ne lo hanno razza e mantello. 

Sono un cavallo, punto e basta. 

Vivo in un maneggio in collina, dove mi hanno portato qualche giorno fa.  Pare che tra non molto frotte di turisti verranno qui per provare l’ebbrezza di una gita a cavallo, magari dopo una bella mangiata. 

Eh sì, il cartello parla chiaro: “Escursioni, monta western, inglese e spagnola (!), cavalli addestrati, istruttori qualificati.  La prima ora di lezione è gratis. Crescentine e affettato. Ampio parcheggio”.

In verità io non sono addestrato, come quasi tutti i miei colleghi qui.  Siamo magri, perchè ci danno da mangiare poco e male, il fieno è pieno di polvere, il box non lo rifanno mai. 

Come se non bastasse, siamo tormentati giorno e notte da insetti di tutti i tipi, che ci assalgono letteralmente, lasciandoci ricoperti di ponfi fastidiosissimi e dolorosi.

Qui con noi c’è un vecchio pony, che i proprietari considerano una specie di fenomeno da baraccone

per attirare adulti e piccini. 

Ci ha raccontato che ogni estate i padroni fanno un sacco di soldi con i turisti, che le gite sono interminabili e stancanti, spesso sotto il sole cocente, che non esiste nessun istruttore, ma in compenso non mancano diversi improvvisatori, e che la gente pensa che un cavallo sia una moto con cui correre. 

E così il signor Tal dei Tali, per sentirsi John Wayne almeno una volta nella vita, viene qui, si fa la sua ora di lezione gratis, così dopo sa cavalcare, usa speroni e frustino per galoppare, senza magari sapere battere la sella, e via a pancia a terra, che poi lo racconterà agli amici al ritorno dalle vacanze.

Il pony ci ha anche detto che dopo le “allegre” scampagnate, i nostri predecessori non vengono mai asciugati dal sudore, ma anzi, vengono lasciati legati al sole o, al massimo, rimessi nel box così come sono, con la sella addosso, pronti per il prossimo cliente.

 Ma, un momento: cosa vuoI dire i nostri predecessori? Ogni anno i cavalli cambiano? E dove vanno a finire dopo essere stati qui?

Il pony guarda verso il basso, perchè non ha il coraggio di dirci la verità, poi, incapace di mentire, ci racconta che ogni estate, alla fine di settembre, si ripete sempre la stessa scena: arriva un camion con le grate di ferro, carica i cavalli e li porta via, mentre i padroni hanno in mano un bel fascio di banconote. 

La stagione è andata bene. Sì è vero, c’è stato qualche incidente, ma in fondo cosa vuoi che sia un cavallo morto per una colica e un altro azzoppato… Gli altri hanno lavorato anche per loro. «È proprio un bel business questo – dice il padrone con la moglie- Tutti soldi buoni e in nero, poche spese, e alla fine il macellaio ce li ha pure pagati bene questi ronzini maledetti».  Solo allora io e i miei amici capiamo. 

Tre o quattro mesi di lavoro, sudore, fatica, stress, gente che ti picchia per farti andare avanti, sete, fame. 

E così ogni giorno, sotto il sole implacabile, punti dai tafani, con i finimenti che ti segano la pelle, il sottopancia troppo tirato, i morsi che ti feriscono la bocca, ‘erchè la gente tira, tira, strattona a destra e a sinistra con le redini “come si vede fare in televisione nei film di cowboy”. 

E alla fine di tutto, non un bel pascolo per riposarsi, 1’ombra di un albero, 1’erbetta fresca e invitante, no. 

Alla fine arriva un uomo, ci mette una capezza, ci fa salire su un camion e ci porta via. 

Dove? In un posto dove ci tengono qualche giorno, poi ci mettono uno in fila all’altro e a un certo punto quello davanti a te entra in una stanza e non lo vedi più.  Poi ci entri anche tu in quella stanza e allora capisci tutto.

Volevo raccontarvi questa storia. Forse è un po’ triste, ma è la verità. 

Vi auguro comunque di passare una buona estate, ma vi chiedo solo di evitare posti come questo perchè ce ne sono tanti in Italia e anzi, se ne avrete la voglia, di denunciarne i proprietari.

Volete sapere chi sono? Il mio nome non ha importanza, ne lo hanno razza e mantello. 

Sono un cavallo, punto e basta.  Vivo in un maneggio in collina, dove mi hanno portato qualche giorno fa.

 

 

Fonte: srs di Uberto Martinelli/Cavallo magazine 249/agosto 2007


Mar 10 2009

Bibbia: Tavolette mesopotamiche confermano il libro di Geremia

Category: Bibbia ed Egittogiorgio @ 05:30

 

In una tavoletta d’argilla risalente al 595 a.C. è racchiusa un’ulteriore prova del fatto che la Bibbia non è una storia di pura fantasia. Inciso a caratteri cuneiformi, nel reperto del British Museum compare, infatti, il nome di un funzionario al servizio del re babilonese Nabucodonosor citato anche dal Vecchio Testamento, nel capitolo 39mo del libro di Geremia. 

La scoperta è già stata classificata tra “le più importanti degli ultimi cento anni” per quel che riguarda l’archeologia religiosa.

La scoperta – rivoluzionaria in termini di archeologia religiosa in quanto per la prima volta un documento storico prova l’esistenza di una persona comune nominata dalla Bibbia – è stata fatta a Londra dal professor Michael Jursa dell’Università di Vienna, giunto nella capitale britannica per un viaggio di ricerca.

“È stato molto eccitante e sorprendente – ha rivelato lo studioso, uno dei pochi al mondo a saper decifrare senza problemi la scrittura cuneiforme -. Trovare una tavoletta di questo genere, in cui compare una persona presente anche nella Bibbia, è veramente straordinario”.

La tavoletta, di proprietà del British Museum dal 1920, venne trovata a fine Ottocento nei pressi dell’antica città di Sippar, a circa due chilometri dall’attuale capitale irachena Baghdad. Secondo il professor Jursa, è stata preservata così bene che gli sono bastati soltanto pochi minuti per leggerne l’iscrizione.

Le poche righe contenute nel frammento largo 5,5 cm raccontano del “capo degli eunuchi Nebo-Sarsekim” e di un suo generoso dono al tempio babilonese di Esangila: una quantità di oro pari a 0,75 kg. 

Lo stesso personaggio compare anche nel libro di Geremia. 

Secondo il profeta, il “capo dei funzionari” era presente nel 587 a.C. quando il re Nabucodonosor “marciò contro Gerusalemme con tutto il suo esercito e mise sotto assedio la città”.

Secondo il racconto biblico, il vittorioso re babilonese lasciò la città con numerosi prigionieri ebrei.

Volendo risparmiare il profeta Geremia, ordinò a Nebo-Sarsekim di averne cura: 

«Prendilo, e tieni gli occhi su di lui: non fargli alcun  male, ma fa’per lui ciò che egli ti dirà» (Geremia 39, 12).  

Nebo-Sarsekim obbedì a queste parole facendolo uscire dalla prigione della corte babilonese e assicurandosi che venisse scortato a Gerusalemme per tornare a vivere con la sua gente. 

 

Fonte: Hera / Corriere del Ticino


Mar 09 2009

TEPE GOBEKLI – LA RISCOPERTA DEL GIARDINO DELL’EDEN

Category: Archeologia e paleontologia,Bibbia ed Egittogiorgio @ 20:01

(Turchia Asia)

Queste pietre indicano il sito del giardino di Eden?

 

Per il vecchio pastore curdo era solo un altro giorno caldo che bruciava, nella pianura orientale della Turchia. Al seguito del suo gregge verso le aride colline, superò l’albero isolato di gelso, che la gente del posto considerava come ‘sacro’. Le campane delle pecore tintinnavano nel silenzio. Poi notò qualcosa. Accovacciato, spazzolò via la polvere e scoprì una strana, grande, pietra oblunga.

L’uomo guardava a sinistra e a destra: c’erano altre pietre rettangolari, piantate nella sabbia. Decise d’informare qualcuno al villaggio, forse le pietre erano importanti.

Il curdo solitario, in quel giorno estivo del 1994, aveva compiuto la più grande scoperta archeologica degli ultimi 50 anni. Altri dicono che aveva fatto la più grande scoperta archeologica di sempre: un sito che ha rivoluzionato il nostro modo di guardare la storia umana, l’origine della religione – e forse anche la verità sul giardino di Eden.

Poche settimane dopo la sua scoperta, la notizia raggiunse i museologi nella antica città di Sanliurfa, dieci miglia a sud-ovest. Essi si misero in contatto con l’Istituto archeologico tedesco di Istanbul. Così, alla fine del 1994, l’archeologo Klaus Schmidt raggiunse il sito di Tepe Gobekli per iniziare gli scavi.

Egli disse: ‘Non appena ho visto le pietre, seppi che, se non me ne andavo immediatamente, sarei rimasto qui per il resto della mia vita.’

Schmidt rimase, e ciò che ha scoperto è sorprendente. Gli archeologi di tutto il mondo sono d’accordo sull’importanza del sito. ‘Gobekli Tepe cambia tutto’, spiega Ian Hodder, della Stanford University.

David Lewis-Williams, docente di archeologia presso l’Università Witwatersrand a Johannesburg, dice: ‘Gobekli Tepe è il più importante sito archeologico del mondo.’

Alcuni vanno oltre e dicono che il sito e le sue implicazioni sono incredibili. Il professore universitario Steve Mithen dice: ‘Gobekli Tepe è troppo straordinario per la mia mente.’

Che cosa ha alimentato e stupito il mondo accademico, solitamente sobrio?

Il sito di Tepe Gobekli è abbastanza semplice da descrivere. Le pietre allungate, scoperte dal pastore, si sono rivelate essere le cime piatte di grandi megaliti a forma di T.  Immaginate versioni più snelle e scolpite delle pietre di Stonehenge o Avebury.

La maggior parte di queste pietre erette sono intagliate con immagini bizzarre e delicate – soprattutto di cinghiali e di anatre, di caccia e selvaggina. Sinuosi serpenti sono un altro motivo. Alcuni dei megaliti mostrano gamberi o leoni. Le pietre sembrano imitare forme umane – alcune hanno ‘braccia’ stilizzate, verso il basso, ai lati. Funzionalmente, il sito sembra essere un tempio, o un sito rituale, come i cerchi di pietra dell’Europa occidentale.

Ad oggi, 45 di queste pietre sono state scavate – disposte in cerchi da cinque a dieci metri di diametro – ma vi sono indicazioni che molto di più c’è da scoprire. Indagini geomagnetiche indicano che ci sono centinaia di altre pietre erette, che aspettano solo di essere scavate.

Se Gobekli Tepe è semplicemente questo, che sarebbe già un abbagliante sito – un turco di Stonehenge.

But several unique factors lift Gobekli Tepe into the archaeological stratosphere – and the realms of the fantastical. Diversi fattori unici innalzano però Gobekli Tepe nella stratosfera dell’archeologia – e nel regno del fantastico.

Il primo è la sua età. La datazione al radiocarbonio mostra che il complesso è di almeno 12.000 anni fa, forse anche 13.000 anni.

Ciò significa che è stato costruito intorno al 10.000 a.C. A titolo di confronto, Stonehenge è stato costruito nel 3000 a.C. e le piramidi di Giza nel 2500 a.C.

Gobekli è quindi il più antico di tali siti nel mondo, con un ampio margine. E’ così vecchio che precede la vita sedentaria dell’uomo, prima della ceramica, della scrittura, prima di tutto. Gobekli proviene da una parte della storia umana che è incredibilmente lontana, nel profondo passato dei cacciatori-raccoglitori.

Come poterono gli uomini delle caverne costruire qualcosa di così ambizioso? Schmidt pensa che bande di cacciatori si siano riuniti sporadicamente nel sito, durante i decenni di costruzione, vivessero in tende di pelle di animali e uccidessero la selvaggina locale per nutrirsi.

Le molte frecce di selce trovate presso Gobekli giocano a sostegno di questa tesi, ma sostengono anche la datazione del sito.

Questa rivelazione, che i cacciatori-raccoglitori dell’Età della Pietra potrebbero avere costruito qualcosa come Gobekli, cambia radicalmente la nostra visione del mondo, perché mostra che la vita degli antichi cacciatori-raccoglitori, in questa regione della Turchia, era di gran lunga più progredita di quanto si sia mai concepito – incredibilmente sofisticata.

E’ come se divinità scese dal cielo avessero costruito Gobekli con le loro mani.

Qui si arriva alla connessione biblico e al mio coinvolgimento nella storia di Gobekli Tepe.

Circa tre anni fa, incuriosito dai primi scarsi dettagli appresi sul sito, mi recai a Gobekli. Fu un lungo e faticoso viaggio, ma ne valeva la pena.

Torna poi, Il giorno stesso in cui sono arrivato mi sono messo a scavare, gli archeologi stavano scoprendo opere d’arte da restare a bocca aperta. Quando quelle sculture sono apparse, ho capito che ero tra i primi a vederle dopo la fine della glaciazione.

Klaus Schmidt mi ha detto che, a suo parere, questo posto era il sito del biblico giardino di Eden. Più in particolare: ‘Gobekli Tepe è un tempio dell’Eden.’

Per capire come un rispettato accademico della statura Schmidt possa fare una tale affermazione da capogiro, è necessario sapere che molti studiosi vedono l’Eden storia come una leggenda, o allegoria.

Vista in questo modo, la storia dell’Eden, nella Genesi, parla di un’umanità innocente e di un passato di cacciatori-raccoglitori che potevano nutrirsi con la raccolta delle frutta dagli alberi, la caccia e la pesca nei fiumi, e trascorrere il resto del tempo in attività di piacere.

Poi l’uomo ‘precipitò’ in una vita più dura, con la produzione agricola, con la fatica incessante e quotidiana. E sappiamo dalle testimonianze archeologiche che la primitiva agricoltura è stata dura, rispetto alla relativa indolenza della caccia.

Quando avvenne la transizione dalla caccia e dalla raccolta all’agricoltura stanziale, gli scheletri mutarono – per un certo tempo crebbero più piccoli e meno sani, perché il corpo umano si doveva adattare a una dieta più povera di proteine e ad uno stile di vita più faticoso. stesso modo, gli animali da poco addomesticati diventano più piccoli di taglia.

Ciò solleva la questione: perché l’agricoltura fu adottata da tutti? Molte teorie sono state proposte – a partire dalle concorrenze tribali, la pressione della popolazione, l’estinzione di specie animali selvatiche.

Ma Schmidt ritiene che il tempio di Gobekli riveli un’altra possibile causa. ‘Per costruire un posto come questo, i cacciatori devono essersi riuniti in gran numero. Dopo avere finito l’edificio, probabilmente rimasero riuniti per il culto. Ma poi scoprirono che non potevano alimentare tante persone con una regolare attività di caccia e raccolta.

‘Penso, quindi, che abbiano iniziato la coltivazione di erbe selvatiche sulle colline. La religione spinse la gente ad adottare l’agricoltura.’

La ragione per cui tali teorie hanno uno speciale peso è che il passaggio alla produzione agricola è accaduto prima proprio in questa regione. Queste pianure dell’Anatolia sono state la culla dell’agricoltura.

Il primo allevamento di suini addomesticati del mondo era a Cayonu, a sole 60 miglia di distanza. Anche ovini, bovini e caprini sono stati addomesticati per la prima volta nella Turchia orientale. Il frumento di tutto il mondo discende da una specie di Farro – prima coltivata sulle colline vicino a Gobekli. La coltivazione di altri cereali domestici – come segale e avena – è iniziata qui.

Ma c’era un problema per questi primi agricoltori, ed è stato non solo di aver adottato uno stile di vita più dura, anche se in ultima analisi più produttiva. Hanno anche conosciuto una crisi ecologica. In questi giorni il paesaggio che circonda le misteriose pietre di Gobekli è arido e brullo, ma non è stato sempre così. Come le incisioni sulle pietre mostrano – e come resti archeologici rivelano – questa era una volta una ricca regione pastorale.

C’erano mandrie di selvaggina, fiumi ricchi di pesce, e stormi d’uccelli; verdi prati erano inanellati da boschi e frutteti selvatici. Circa 10000 anni fa, il deserto curdo era un ‘luogo paradisiaco’, come dice Schmidt. Quindi, che cosa ha distrutto l’ambiente? La risposta è: l’uomo.

Quando abbiamo iniziato l’agricoltura, abbiamo cambiato il paesaggio e il clima. Quando gli alberi sono stati tagliati, il suolo è stato dilavato via; tutto ciò che l’aratura e la mietitura hanno lasciato era il terreno eroso e nudo. Ciò che era una volta una piacevole oasi è diventata una terra di stress, fatica e rendimenti decrescenti. E così, il paradiso era perduto. Adamo il cacciatore è stato costretto ad allontanarsi dal suo glorioso Eden, come dice la Bibbia.

Naturalmente, tali teorie potrebbero essere respinte in quanto speculazioni. Tuttavia, vi è abbondanza di prove storiche per dimostrare che gli scrittori della Bibbia, quando parlavano dell’Eden, descriveva questo angolo di Anatolia abitato dai Curdi.

Nel Libro della Genesi, è indicato che l’Eden è a ovest dell’Assiria. Gobekli si trova in tale posizione. Allo stesso modo, il biblico Eden è attraversato da quattro fiumi, tra cui il Tigri e l’Eufrate. E Gobekli si trova tra due di questi.

In antichi testi assiri, vi è menzione di un ‘Beth Eden’ – una casa di Eden. Questo piccolo regno era a 50 miglia da Gobekli Tepe.

Un altro libro dell’Antico Testamento parla dei ‘bambini di Eden, che erano in Thelasar’, una città nel nord della Siria, vicino a Gobekli.

La stessa parola ‘Eden’ deriva dal sumerico e significa ‘pianura’; Gobekli si trova nella pianura di Harran.

Così, quando si mette tutto insieme, la prova è convincente. Gobekli Tepe, infatti, è un ‘tempio nell’Eden’, costruito dai nostri fortunati e felici antenati – persone che avevano il tempo di coltivare l’arte, l’architettura e il complesso rituale, prima che il trauma dell’agricoltura rovinasse il loro stile di vita, e devastasse il loro paradiso.

E ‘una splendida e seducente idea. Eppure, ha un sinistro epilogo, dato che la perdita del paradiso sembra aver avuto un effetto strano e abbrutente sulla mente umana.

 

Pochi anni fa, gli archeologi rinvennero presso Cayonu un mucchio di teschi umani. Essi furono trovati sotto una lastra d’altare, tinta con sangue umano.

Nessuno è sicuro, ma questa può essere la prima prova di sacrifici umani: uno dei più inspiegabili comportamenti umani, che potrebbero avere sviluppato solo di fronte ad un terribile stress sociale.

Gli esperti possono discutere sull’evidenza di Cayonu. Ma quello che nessuno nega che è il sacrificio umano abbia avuto luogo in questa regione, tra la Palestina, Israele e Canaan.

L’evidenza archeologica indica che le vittime erano uccise in enormi fosse di morte, i bambini erano sepolti vivi in vasi, altri erano bruciati in grandi giare di bronzo.

Questi atti sono quasi incomprensibili, a meno che non si pensi che la gente aveva imparato a temere le divinità, perché era stata scacciata dal paradiso. Così avrebbe cercato di propiziare la collera dei cieli.

Questa barbarie potrebbe, infatti, essere la chiave di soluzione di un ultimo, sconcertante mistero. I sorprendenti fregi di pietre di Gobekli Tepe si sono conservati intatti per uno strano motivo.

Molto tempo fa, il sito fu deliberatamente e sistematicamente sepolto con un colossale lavoro insieme a tutte le sue meravigliose sculture di pietra.

Intorno al 8000 a.C., i creatori di Gobekli seppellirono la loro realizzazione e il loro glorioso tempio sotto migliaia di tonnellate di terra, creando le colline artificiali sulle quali il pastore curdo camminava nel 1994.

Nessuno sa perché Gobekli fu sepolto. Forse fu una sorta di penitenza: un sacrificio alla divinità della collera, che aveva gettato via il paradiso dei cacciatori. Forse fu per la vergogna della violenza e dello spargimento di sangue che il culto della pietra aveva contribuito a provocare.

Qualunque sia la risposta, i parallelismi con la nostra epoca sono notevoli. Quando contempliamo una nuova era di turbolenza ecologica, pensiamo che forse le silenziose, buie, pietre vecchie di 12000 di Tepe Gobekli stanno cercando di parlare con noi, per metterci in guardia, perché stanno proprio dove abbiamo distrutto il primo Eden.

 

di Tom Cox / (28 Febbraio 2009)

 

Fonte: Daily Mail & Guardian/La porta del Tempio

 

link: http://www.mg.co.za


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