Mar 09 2009

Negrar di Verona: Appunti sulla storia vera dell’epiteto del vino Amarone

Category: Alimentazione e gastronomia,Verona lavoragiorgio @ 17:06

La Bottaia della Cantina Valpolicella di Negrar -foto archivio Vini dal Veneto

«Il nuovo epiteto Amarone per indicare il Recioto Amaro nasce nella primavera del 1936 nella Cantina Sociale Valpolicella, istituita nel 1933 in Villa di Novare Mosconi-Simonini, attualmente Bertani.

Il direttore Dall’Ora dr. Gaetano, i cui meriti in argomento sono poco conosciuti anche in Valpolicella, trasferì nel 1948 la Cantina Sociale a San Vito, nella vecchia cantina Quintarelli Cav. Antonio.

“Ci lavorai dall’autunno 1948 all’ottobre 1949”.

Gaetano  Dall’Ora usava abitualmente l’epiteto Amarone in etichetta e mi dichiarò che nella primavera del 1936 spillando il Recioto Amaro dal fusto di fermentazione il mezzadro capocantina Adelino Lucchese, palato e fiuto eccezionali, uscì in una esclamazione entusiastica: “Questo non è un Amaro, è un Amarone”.  Quel contadino aveva regalato alla Valpolicella la parola magica e il dr. Dall’Ora la usò subito in etichetta.

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Mar 09 2009

Verona Delitto Tommasoli: Su Nicola non ci fu
nessun accanimento

Category: Verona cronaca e notiziegiorgio @ 08:47

 

Federica Bortolotti, consulente del pubblico ministero è stata criticata duramente dai colleghi medici

Otto esperti che hanno concordato su un solo elemento: l’assenza di accanimento su Nicola Tommasoli. Fotografie scattate nel corso dell’autopsia hanno evidenziato l’arrossamento su una palpebra (un travaso di sangue forse dovuto a uno schiaffo perchè, come hanno sottolineato i consulenti delle difese dei cinque imputati, non aveva ematoni sul sopracciglio e nemmeno sullo zigomo: se fosse stato un pugno ci sarebbero) e quel livido sul collo spostato di dieci centimetri dalla zona del sanguinamento che provocò l’emorragia cerebrale seguita dall’arresto cardiocircolatorio. Su tutto il resto si sono trovati discordi e l’attacco alla consulente del pm è stato corretto nella forma ma durissimo nei contenuti.

L’ACCUSA. La ricostruzione a posteriori di ciò che fu la causa di morte di Nicola è stata tracciata sulla base della continuità fenomenologica: ovvero una serie di fattori che pur non essendo concausa si sono succeduti fino a provocarne il decesso. Un ragazzo sano, con un cuore perfetto, privo di qualsiasi anomalia, la diagnosi angiografica effettuata all’ingresso al pronto soccorso non sollevò alcuna perplessità circa la presenza di un possibile aneurisma. «Se solo vi fosse stato questo sospetto vi sarebbe stato il tentativo di porre rimedio e il percorso clinico per cercare di salvare Nicola è durato cinque giorni» l’intervento del dottor Frinzi, neurochirurgo al Fatebenefratelli di Milano. Di fatto la lesione al collo è stata ritenuta la causa del massivo sanguinamento che provocò l’emorragia cerebrale. Da qui la concatenazione e l’esistenza del nesso causale. Riguardo alla natura del trauma la dottoressa Federica Bortolotti ha escluso potesse trattarsi di un sanguinamento naturale ma effetto di un colpo inferto «date le circostanze fu colpito con un pugno o con un calcio». Aveva bevuto e questo accelerò la situazione: al momento dell’aggressione il tasso di alcol nel sangue di Nicola era di circa 1,7 gr/litro «produce una vasodilatazione e inoltre rallenta le capacità di reazione».

LE DIFESE. È stato il professor Francesco Introna il primo ad intervenire e a porre quesiti alla consulente di controparte. Ma oltre alle critiche sulle modalità di espianto del cervello che compromise, distruggendola, parte dell’arteria e in particolare il punto dove l’angiografia effettuata al momento del ricovero aveva rilevato quella dilatazione sospetta, è intervenuto anche sull’approccio dell’anatomo patologo. E sulla base «delle modestissime lesioni» ha fornito la sua ricostruzione. «Tutti dicono che era disteso, supino con gli occhi aperti e rantolava. Se fosse stato scaraventato a terra presenterebbe i classici segni da caduta, avrebbe escoriazioni sulle mani. Con un’azione violenta in corso si sarebbe rannicchiato, avrebbe protetto la testa e i genitali ma gambe, schiena e tronco sarebbero stati  esposti. Non c’è un livido». E ha fornito la spiegazione alternativa: «Non è caduto, si è accasciato» e da qui l’ipotesi: «l’emorragia fu dovuta alla rottura spontanea di un aneurisma congenito del pezzo di arteria che nell’autopsia andò distrutta. Si rompe prima del calcio (che provoca una lesività modesta)». Un’ipotesi che spiegherebbe anche perchè a fronte della vasta emorragia non fu rilevata la rottura del vaso che l’aveva causata.

 

Fonte: srs di Fabiana Marcolini da L’Arena di Verona di Domenica 08 Marzo 2009 cronaca pag. 11

 

 

 

 


Mar 08 2009

Verona: Villa But abbattuta, i vicini si ribellano

Category: Verona architettura e urbanisticagiorgio @ 19:05

 

Verona  Borgo Trento :Preoccupazione e interrogativi dopo lo smottamento della collina al Cesiolo

La zona ricca di edifici storici è tutelata, parte petizione a sindaco e Soprintendenza: «Vogliamo risposte chiare»

 

Dove un tempo c’era villa But, in salita Monte Grappa al civico 34, c’erano anche alberi e tanto verde.

Ora la villa è stata abbattuta e una fetta della collina è stata letteralmente mangiata. La terra prodotta dallo sbancamento collinare viene portata via dai mezzi pesanti che andando su è giù dal colle che porta a forte Santa Sofia hanno distrutto il selciato di via Coni Zugna. E villa Tosadori Fiorini Rossi che si trova poco più giù subisce gli effetti della modifica del terreno. Come se non bastasse, sempre in salita Monte Grappa una frana ha bloccato la strada lasciando i residenti isolati. Ambulanze o altri mezzi di emergenza non possono più arrivare. I civici 28, 29 e 30 sono in mezzo fra la collina «mangiata» e la frana.

Per la frana il Comune ha emesso un’ordinanza che obbliga il proprietario del tratto di muro a secco di rimetterlo a posto, ma così non è stato: pezzi di roccia, muro, terra, tronchi e parti di albero sono in mezzo alla strada. Dove invece un tempo c’era villa But c’è un buco enorme. I vicini di casa non hanno fatto in tempo ad accorgersi di nulla. «Hanno abbattuto villa But mentre pioveva, quasi avessero fretta di farlo», raccontano. E ora hanno dato il via a una raccolta di firme che invieranno al sindaco Tosi, alla Soprintendenza e al Corpo Forestale. Vogliono fare chiarezza sulla vicenda, sapere come e quando è stato dato il permesso alla ditta costruttrice del complesso residenziale che sorgerà al posto della villa. Vogliono sapere perché la soprintendenza per i Beni architettonici e ambientali non è intervenuta dal momento che questa zona è tutelata e i mezzi pesanti non possono accedervi. Chiedono quali studi sono stati eseguiti dal punto di vista idrogeologico: anche qui ci sono diversi vincoli. E in ultimo quale criterio è stato adottato e quale genere di permesso è in atto per sbancare la roccia calcarea della collina.

Al civico 1 di via Coni Zugna abita il consigliere comunale Ciro Maschio, capogruppo di An. «Non volevo usare la mia posizione politica per chiedere delucidazioni», dice. E assicura che «nè il progetto nè qualsiasi altro genere di richiesta per la realizzazione di un nuovo complesso residenziale in via Coni Zugna o in salita Monte Grappa sono stati mai discussi in Consiglio comunale». L’urbanizzazione della zona, come evidenzia lo storico dell’arte Riccardo Battiferro Bertocchi, risale agli anni Venti. «Inizialmente via Coni Zugna si chiamava strada privata Gino Stefani. Era intitolata al figlio di un proprietario di immobili della zona prematuramente scomparso», spiega. «Le ville del Cesiolo vennero realizzate già a partire dal primo Novecento a opera del Banco Orti, Cassa di Risparmio di Verona, Società Cattolica di Assicurazioni. L’abbattimento di villa But è un fatto grave che colpisce la cultura e il patrimonio artistico cittadino».

 

Fonte: srs di di Anna Zegarelli da  L’Arena di Verona di Domenica 08 Marzo 2009, pagina 18

 

 

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Mar 08 2009

LO SPRISS?… MA VUTO METARE UN BEL GOTO DE VIN S-CETO?

Category: Monade satira e rattatujegiorgio @ 09:06

 

Vicentini, Veronesi, Veneti svejeve! i ve sta toendo in giro, scolteme. 

Ve do tre boni motivi per non bevera lo spriss. 

 

Par prima roba lo spriss se na fregada ( ciavada, in dialeto): i ghe mete el novanta per sento de acqua, el diese par sento de aperitivo e de vin gnanca na s-cianta!   Ma teo paghi de pi de un bon goto de vin s-ceto. 

 

Par seconda roba lo spriss se na bevanda da democristiani: nol se ne’ acqua ne’ vin, ne’ bon ne’ cativo, ne’ de destra ne’ de sinistra, democristian insoma. 

Par tersa roba lo sprissel se’ anca crucco: spriss in tedesco vol dir sprusso.  Sprusso de vin in un bicieron de acqua. 

 

Che i se lo beva a casa lori sto mis-cioto, che mi preferisso un bon bicier de vin san. 

Non so voialtri, ma mi na ciavada crucca e democristiana non la voio gnanca a gratis, figureve se ghe devo anca darghe schei.  Ghin go sa ciapa’ anca massa de ciavade, che almanco par el bevare me rangio da solo. 

 

Ma mi digo: secondo voialtri, se’ posibile ch’el nostro signor el ne gabia da’ na roba cositta bona come el vin par rovinarla co l’acqua e co quea specie de colorante disavio che i lo ciama aperitivo?  Xe posibile secondo voialtri? 

 

A saria come far na discoteca dentro la Basilica Palladiana, o sugar a golf al Romeo Menti, o peso ancora andare a ciavar in Sala Bernarda! 

Va ben che el nome se compagna, va be’ che la dentro i ne da de quele ciavade che non finisse altro a noialtri che paghemo le tasse, paro’ bisogna esser seri: ogni roba la ga’ el proprio uso. 

 

E l’uso del vin se’ de berlo s-ceto, de gustarne l’aroma, de snasarne el profumo, de saiarlo con un tramesin se te ghe’ fame, ma non de misciarlo con le porcherie!  Par carita’. No ste’ misciar el sacro con la cinafrusaglia. 

Bevi’ un fia’ de manco, ma bevi’ roba bona, almanco. 

 

Desso ve saludo che go’ da ndare. Ghe xe gli amissi che me speta al bar qua soto per farse il goto de un boto: de vin? 

No!, se bevo un bicier de vin s-cieto a stomego vodo me imbriago subito e non digerisso altro. 

Mejo on sprisetto, magari co do saladini e do olivete che le me piase tanto… 


Porca vaca!!!…..

 

Fonte: Raixe venete


Mar 08 2009

Ho scoperto lo spriss!

Category: Monade satira e rattatujegiorgio @ 07:56

Lo spritz o sprisss e’ un intruglio che i barman raffinati preparano con seltz, vino bianco a denominazione di origine controllata, una piccola dose di un aperitivo alcolico ( Bitter o Aperol) e scorzetta di limone; nelle piccole bettole cittadine vi viene servito prendendo mezzo gotto di un’acqua minerale svampita aperta da una settimana e del solito vino da “tazzette” pescato alla spina, solo che la dose di aperitivo e’ piu’ massiccia e tende a spaccarti in quattro lo stomaco vuoto…

Ma oramai il rito e’ cosi’ diffuso che  veronesi,  vicentini e tutti i veneti non sanno rinunciarvi: 

“andiamo a farci uno spritz”  diviene la parola d’ordine, lo slogan piu’ diffuso,  spesso l’unica trasgressione nel procedere incessante della giornata. 

Vi e’ un bar in centro che reclamizza quaranta tipi diversi di spritz: ve lo propongono con generose fette di arancia messe in tralice sul bicchiere e persino con il Branca Menta. 

Le signore per bene, vestite elegantemente e dal facile eloquio se ne fanno un paio con le amiche, ma quasi vergognandosi, si recano nei bar piu’ defilati oppure entrano di soppiatto nelle stanze posteriori dei caffe’ piu’ in della ctta’. 

La moda e’ cosi’ estesa da aver soppiantato la tazzetta: sembra che sia molto piu’ alla moda chiedere “piu’ acqua che vino, mi raccomando!” con l’aria un po’ complice di chi non consuma certo alcolici fuori pasto e di chi ne ingerisce solo uno al giorno. 

Ma poi, girato l’angolo, s’incontra un amico ed il rito si rinnova:” n’demo al Malvasia o al Campanile, femose uno spritz da Righetti, al Cursore o da Pitanta”. 

Per i cultori del buon vino lo spritz e’ una sorte di bestemmia, una dissacrazione, l’acqua calata nel sacro nettare degli dei! 

Ma nell’era dell’ipocrisia e dell’apparenza e’ meglio celare la buona e sana abitudine del bere vino: quel bicchiere ben preparato, presentato con le patatine e le olive puo’ apparire effettivamente come qualcosa di diverso! 

Ed e’ cosi’ che i Bar di mezzo Veneto  si stanno rilanciando: ultimamente nascono come funghi, uno ad ogni angolo di strada; spesso sono bellissimi, arredati con gusto, ricchi di luce e colore. 

Servono caffe’ pregiati, provenienti dall’America Meridionale o dalle Antille, pasticcini coccoli e simpatici, caramelle di tutti i tipi e sopratutto tanti, tanti tanti, spriss!

 

Fonte: Raixe venete


Mar 07 2009

FAME UN SPRISS

Category: Monade satira e rattatujegiorgio @ 21:47

Un marocchino, un terrone e un venezian  i ciacola camminando per piazza  Ferretto  quando uno dei tre inciampa in una lampada magica dalla quale fuoriesce un genio:

” BUONGIORNO SIGNORI, SONO QUI PER ESAUDIRE UN DESIDERIO PER OGNUNO DI VOI

Parte il marocchino: 

” IO, IO QUI IN ITALIA TUTI TRATARE MALE ME, 

IO NO TROVARE LAVORO, MIA FAMILIA E MIA CAMELA MANCARE MOLTO, 

VOLIO TORNARE A CASA MIA….

.PUFFFFF…… e il marocchino sparisce. 

Tocca al terrone:

“ANCH’IO TENGO  FAMIGGHIA GIU’, NON LA VEDO DAA MORTE DU ZAPPATORE. 

QUI AL NORD  SI LAVORA EBBAST’….

GUAGLIO’, IO PROVENGO DA U PAESE DO SOLE,VOGGHIO  TURNA’ A CA”……..

PUFFFF……e il meridionale sparisce. 

Il genio si rivolge dunque al veneziano:

” E TU? COSA VUOI CHE FACCIA PER TE?”…

E il veneziano:

” BEH!! EL MAROCHIN EL XE’  SPARIO… EL TERON ANCA.

NO SO…..FAME UN SPRISS…

 

Fonte: NR/Arianna


Mar 07 2009

La notte più bella della mia vita.

Quel mattino del 13 agosto 1994 ci svegliammo presto al bivacco Slataper, a mt. 2610, sotto la vetta del Sorapiss (mt. 3205), raggiunta la sera prima. 

Le prime luci dell’alba facevano a malapena intravedere le sagome scure delle pareti circostanti. 

Subito un occhiata al tempo, qualche stella ancora resisteva al giorno nascente. Verso SO si notavano delle nubi lenticolari, segno che con l’arrivo di venti da SO in quota, qualcosa si stava preparando. 

Dovevamo scendere per circa 1000 mt. per il rifugio S. Marco e poi risalire di altri 1500 per raggiungere la nostra meta prefissata per la sera, pernottare, sotto la cima dell’Antelao mt. 3268, al bivacco Cosi (il più alto delle Dolomiti a mt. 3111).

Arrotolati in fretta i sacchi a pelo, e fatta colazione con latte condensato e gallette, rivolgemmo insieme un breve ringraziamento al Padre che ci stava regalando ancora una meravigliosa giornata da vivere intensamente. 

Partimmo quando già il sole nascente illuminava con i primi raggi, le vette più alte, regalandoci una meravigliosa “enrosadira”; termine usato in dolomiti per descrivere il bellissimo colore che tinge le rocce di dolomia al primo ed ultimo sole della giornata. Il tempo man mano si guastava. Alle nubi orografiche, che di solito si formano da mezzogiorno in poi per la condensazione dell’aria umida riscaldata dal sole sui versanti esposti con vere e proprie correnti ascensionali, si aggiungevano degli strati da SO poco rassicuranti.  Ma nel complesso il tempo si manteneva discreto. Solo un “patito” di meteo andava annotando, con preoccupazione, quei segni premonitori. 

Sollecitavo i miei tre compagni a mantenere alta l’andatura per arrivare in anticipo al bivacco. Per due ragioni: una per trovarlo libero e potervici dormire, seconda, per arrivare prima del temuto peggioramento. 

I bivacchi sono strutture di alta quota, per alpinisti o escursionisti, e sono senza custode. Consistono in un vano di legno 2 per 3 mt. coperto da lamiera dipinta di rosso. All’interno in così poco posto, ben 9 “posti letto”, ricavati in tre serie da 3 a castello, su tre lati escluso, quello della porta. L’arredo: uno sgabello, 2 o 3 candele, un badile, e qualche scatoletta alimentare per le emergenze. 

Dopo il rifugio S. Marco, saliamo al Galassi,  a mt. 2020. Il tempo peggiorava sensibilmente le nubi arrivavano da tutte le parti, ed in breve ci trovammo  nella nebbia,  qualche goccia cominciò  a cadere. Ci consultammo, e dopo avere preso una bevanda calda, decidemmo di proseguire per il bivacco a più di 1000 mt. sopra di noi. Erano le dodici. 

Conoscevo l’itinerario, perfettamente descritto da amici che vi erano già stati, non presentava difficoltà alpinistiche, solo una salita faticosissima sui  “lastei dell’Antelao”. Così viene chiamata la parete inclinata (lastra), che termina ai 3111 mt. del bivacco. 

La salita è dura per il dislivello da vincere, non impegnativa dal lato tecnico, infatti gli esperti, “con piede saldo” riescono a percorrerla senza usare le mani per l’equilibrio. 

Era come andare di notte: una calma ovattata e scura ci avvolgeva. Speravo che il tempo non peggiorasse repentinamente, confortato anche dall’assenza del vento e  la mancanza di tuoni. 

A quota 2700 circa, scrutando verso l’alto, notammo  un leggero chiarore a sud, impercettibile, ma indicativo. Man mano il chiarore tendeva dal grigio al rosa. E’ fatta, dissi  ai miei, fra 10 minuti avremo  il sole! Dopo essermi preso qualche sorrisino ironico, 100 mt.  più su, d’incanto sbucammo sopra lo strato di nubi. 

Una meraviglia! Le vette circostanti spuntavano dal mare di nubi: Le Marmarole, il Sorapiss, la Croda da Lago e un po’ più a sud il Pelmo, semicoperto dalle nubi più alte provenienti da SO: sembrava volersi nascondere ai nostri sguardi indagatori; dovevamo salirlo dopo 2 giorni. 

Panorama esaltante! Guardavo quegli strati scuri che avanzavano velocemente da Sud e pensavo: l’importante è arrivare al bivacco, dopo: peggio è, meglio è. Ebbi la spudoratezza di comunicare il mio pensiero agli altri tre. Non l’avessi mai fatto! Mi coprirono di male parole (scherzose). 

Il bivacco è disposto sul versante NNE della bellissima piramide che contraddistingue questa stupenda montagna, proprio sotto quel “bitorzolo” roccioso che, solo in prossimità della vetta, interrompe la bella geometricità del cono. E’ situato, quasi sospeso, incastrato fra un roccione sporgente e la parete principale. Un nido d’aquila stupendo!  Lo si vede solo 20/30 mt. prima. 

Erano  le quattro del pomeriggio. Lo troveremo vuoto? Pensammo visto il tempo e l’ora.  Un vociare molto nutrito ci comunico un panico improvviso. Ben undici ragazzi Polacchi armeggiavano, stipati dentro, con attrezzature alpinistiche e sacchi a pelo. Posti strettissimi= 9 . Occupanti = 11, e noi?  Qui si faceva brutta davvero. 

Li salutiamo e  cerchiamo di farci capire, qualcuno; come me masticava qualche parola di francese, e finalmente dai miei salti di gioia, i miei amici capirono   che erano in procinto  di partire, lasciando il bivacco tutto per noi. 

Dopo un’oretta riuscimmo ad entrare infreddoliti per l’attesa e ci si sistemammo. Io non riuscivo a darmi pace, entravo ed uscivo per controllare il tempo che cambiava continuamente. Grossi cumuli si stavano avvicinando da tutte le parti, il vento rinforzava da sud, la temperatura era scesa a 5 gradi. Poi una buona schiarita mi fece intravedere i primi lampi a nord, sulle Tofane e Cortina. 

Ero eccitatissimo, mentre gli altri tre mangiavano seduti sui loro “loculi”, io addentavo qualcosa su una roccia lì vicino, come un soldato in vedetta. Dalle 22 alle 23, lampi e tuoni sempre più vicini, una scorribanda pazzesca di nubi, grossi cumuli sprigionavano bagliori accecanti. Ero come in trance. Stretto nel mio giaccone termico con papalina e cappuccio, avevo solo gli occhi fuori, che roteavano da un lampo all’altro. 

Un mio compagno mi portò, quasi di forza, dentro. Ero intirizzito, la temperatura era scesa a tre gradi, il vento fortissimo, sembrava facesse gemere la montagna. Appena dentro dissi: Questa notte vedremo la neve! Che bello rimanere bloccati per un paio di giorni anche se dovremmo razionare i viveri. 

Rischiai grosso, non mi picchiarono, se non altro per la riconoscenza che provavano in ricordo delle mie previsioni a vista e a breve, quasi sempre azzeccate ed utili nelle precedenti esperienze. Mi scelsi il posto in alto, vicino all’unica piccola finestrella che tassativamente vietai che fosse oscurata la  persianetta.  

A mezzanotte si cominciò a ballare. Due fulmini, con bagliori accecanti, a distanza di pochi minuti colpirono il bivacco: le lamiere esterne ed i tiranti metallici fecero da parafulmine ottimamente. La struttura tremò violentemente, come colpita dalla clava di un gigante. Qualcuno di noi ebbe veramente paura. Io non pensavo alla paura, mi sembrava di essere già in Paradiso! Con la pila puntata verso il  vetro (passai tutta notte sporgendomi dalla brandina di più di mezzo metro), riuscivo a vedere nel fascio di luce proiettata nell’oscurità, ben evidenziati i vari tipi di precipitazione: pioggia battente polverizzata dal vento violentissimo, poi un fracasso che copriva quello forte del vento: per 10 minuti la grandine scagliata dalla bufera mitragliava la lamiera esterna. 

Alle 2 circa, un refolo veloce ed irregolare si staglia nel raggio della mia pila. Nevica!!!  Fu l’urlo incontenibile che uscì dalla mia bocca, già spalancata per l’emozione. I miei amici, sobbalzati dalle brande, non capivano la mia gioia ed eccitazione: erano solo preoccupati di tornare sani e salvi. Per un’ora circa si alternò la neve, la pioggia, la grandine. Poco dopo le 3, tutto si calmò. La neve non attecchì, sciolta dalla pioggia, solo qualche chiazza e cumuli nelle fessure delle rocce, mista a grandine. Riuscii a dormire un’oretta. 

All’alba tutti in piedi a prepararsi per raggiungere la vetta a 150 mt. sopra di noi. Lasciammo gli zaini e l’attrezzatura pesante al bivacco e su, a vedere spuntare il sole in vetta. Proprio ad est vi era una fessura libera da nubi, la temperatura, con il fronte da nord passato, era calata a -2,-3 gradi. Avemmo avuto qualche difficoltà a superare un passaggio di secondo grado, semplicissimo in condizioni normali, per il ghiaccio formatosi dal congelamento della neve bagnata.  Bellissime stalattiti di ghiaccio pendevano dalle rocce. 

In vetta, stupendo!  Verso sud e sud/est, all’orizzonte in lontananza,  si scorgevano ancora i bagliori del temporale, già sul Friuli e Istria. A nord ed ovest era scuro per strati neri e cirrostrati più alti. L’aurora tingeva, di colori mozzafiato, il cielo e le rocce. Il sole appena spuntato nella fessura ad est contrastava con il nero ad ovest. Un’ “Enrosadira” da sogno!  Le crode più alte sembravano tante fiammelle sullo sfondo di un caminetto nero di fuliggine. Ci vorrebbe un pittore od un poeta per descriverlo. 

Giù nella valle di S.Vito e Cortina un mare di nubi stupendo arrivava fin quasi a 3000 mt.  L’ombra del “nostro” Antelao disegnava sul soffice tappeto di nubi grigio chiare sottostanti,  un cono d’ombra perfetto, che si andava accentuando man mano che il sole saliva. 

La fine del mondo!!! 

Non abbiamo potuto fare a meno, tutti e quattro, di inginocchiarci e lì, sulla vetta, dire un bel grazie a Chi ci stava regalando tanto.

Scusate se mi sono lasciato prendere la mano, ma non potevo non raccontare, agli amici, la notte più bella della mia vita! (metereologicamente è ovvio!) 

Ciao Giorgio 

 

Fonte /Giorgio da Rimini/: Meteo Italia/23/07/2000//00:40


Mar 06 2009

La femminilizzazione del Maschio

Category: Natura e scienza,Salute e benesseregiorgio @ 20:18

 

Le sostanze chimiche immesse nell’ambiente interferiscono con i sistemi endocrini dell’uomo e degli animali, determinando radicali cambiamenti fisici. 

Una recente ricerca indica che queste sostanze chimiche, soprannominare “modificatrici di genere” stanno portando i maschi di molte specie a divenire femminilizzati. 

Nei fiumi inglesi il 50% dei pesci di sesso maschile è stato trovato con un numero sempre maggiore di uova nei testicoli. Altre anomale scoperte includono orsi polari ermafroditi. La relazione completa della Chem TRUST sottolinea che lo studio, che si concentra soprattutto su animali, è importante anche per l’uomo, perché «tutti i vertebrati hanno simili recettori di ormoni  sessuali». Dunque, la femminilizzazione di diverse specie animali porterebbe ad indicare un modello analogo per l’uomo. 

I ricercatori hanno infatti scoperto che i topi maschi esposti a sostanze ftaliche generano tratti fisici più femminili, e hanno riscontrato risultati simili nell’uomo, con la crescita di peni più piccoli e tratti femminili.

 

Fonte: Fenix  n° 5 marzo 2009


Mar 06 2009

Verona: Il Palio del drappo verde, la più antica corsa del mondo

 

“Poi si rivolse e parve di coloro
che corrono a Verona il drappo verde
per la campagna. E parve di costoro
quelli che vince non colui che perde”

L’idea che la “Divina Commedia” potesse essere letta ed interpretata scherzosamente come la descrizione di una delle prime corse podistiche medievali a tappe è sorta spontanea leggendo e rileggendo i versi riportati in foniferiti do al capitolo quindicesimo dell’Inferno (Inferno, canto XV, vv. 121-124): riferiti all’incontro di Dante con il maestro Brunetto Latini. In questi quattro versi Dante documenta infatti proprio l’esistenza di una corsa podistica che si disputava a Verona la prima domenica di quaresima, detta “corsa del palio” o “del drappo verde”.

La città di Verona ha sempre avuto una grande importanza nella vita del poeta, essendo stato il primo rifugio sicuro nel quale Dante, esiliato da Firenze, ha trovato accoglienza. Nel trascorrere parte del suo esilio nella città veneta, e precisamente nel sobborgo di Santa Lucia, Dante ha avuto modo di venire a conoscenza degli usi e dei costumi locali che ha poi voluto citare nella sua opera.

Per quanto riguarda questa chiamiamola “corsa podistica” veronese, a scanso di equivoci va detto subito che non si trattava di una manifestazione sportiva nel senso in cui siamo soliti intenderla ai nostri giorni, ma – come d’altronde le altre competizioni, tutte disputate nell’ambito di una qualche ricorrenza cittadina o religiosa – interessava comunque tutta la popolazione. Un po’ come succede oggi per il palio di Siena.

Ebbene, anche in questo caso si parla di palio, e due erano le gare di velocità con questo nome a cui i veronesi del tempo di Dante potevano assistere, e per la precisione il palio dei cavalli e quello dei corridori. Il drappo verde, che dà il nome alla corsa nei versi danteschi, era appunto il premio riservato al vincitore di questi ultimi, che dovevano correre nudi, mentre un simile palio ma di colore diverso, rosso scarlatto, era l’ambito trofeo per il miglior cavaliere.

Andando a ricercare maggiori dettagli su questa corsa a piedi – secondo alcuni studiosi istituita nel 1207 per festeggiare una vittoria riportata dalla repubblica contro i conti di San Bonifazio ed i Montecchi – ne troviamo indicato con una certa precisione anche il percorso, che comunque poteva variare a seconda dell’umore del podestà cittadino, che aveva, fra gli altri, il diritto di scegliere il luogo della competizione.

Il tracciato prendeva il via dal sobborgo di Tomba (ma più tardi da quello di Santa Lucia) e si snodava lungo le mura a sud di Verona, quelle di Porta al Palio (conosciuta già come Porta Stuppa o Stupa, opera dell’architetto Sammicheli) ed attraverso la pianura “a mezzogiorno della città”. Qualcuno degli studiosi è propenso a spiegare “campagna” identificandola con un’omonima località veronese, ma a parte il fatto che non è sicuro che la zona avesse già il nome proprio di Campagna all’epoca di Dante, non si può essere neanche certi che Dante abbia voluto menzionare proprio questa località, il cui nome oggi è ancora possibile comunque ritrovare in Madonna di Campagna, in Sommacampagna, in Mezzacampagna ed in Campagnola.

Il tracciato rientrava poi in città sotto l’Arco dei Gavi, percorrendo il Corso Vecchio fino ad arrivare al palazzo della Torre a San Fermo, mentre più tardi avrebbe attraversato il Corso attuale fino a giungere alla piazza di Sant’Anastasia, dove c’era la scritta “Corso la meta” ed un gran pilastro detto appunto “La meta” che rappresentava il punto di arrivo della competizione. Il percorso del palio a cavallo si snodava sullo stesso tracciato ed era della medesima lunghezza di quello a piedi.

Se il percorso è suscettibile di variazioni, non si può dire altrettanto però del regolamento di gara, che nonostante le modifiche agli statuti cittadini ai quali era vincolato ha sempre previsto non solo un premio per il vincitore ma – precorrendo i nostri tempi – anche un premio di consolazione (chiamiamolo così, ma sarebbe meglio dire “di umiliazione”), per l’ultimo arrivato. E questo spiega perché Dante ci tenga a sottolineare che Brunetto “parve di […] / quelli che vince non colui che perde”.

Lo svolgersi delle competizioni quaresimali infatti, codificato a partire dallo Statuto Albertino (così chiamato perché venne compilato sotto Alberto della Scala anche se reca disposizioni di molti anni anteriori al 1271) prevedeva due corse da disputarsi nella prima domenica di quaresima, una equestre e l’altra podistica: al cavaliere vincitore si dava un palio, di colore inizialmente non specificato, mentre al perdente andava una coscia di maiale. 

Lo stesso succedeva nella corsa podistica: al primo corridore un palio sempre di colore non specificato, all’ultimo un gallo. Lo Statuto Albertino venne poi compilato nuovamente da Cangrande I nel 1328 e sempre nella prima domenica di quaresima, erano previste le solite due competizioni. Per il palio a cavallo i premi erano un drappo scarlatto ed una coscia di maiale, per quello a piedi un drappo verde (il “drappo verde” dantesco) ed un gallo.

È interessante notare però che già con lo Statuto di Giangaleazzo Visconti, approvato nel 1393, le corse divennero tre: il solito palio a cavallo (un drappo di velluto al vincitore, una coscia di maiale all’ultimo) e due invece le corse a piedi, la prima riservata agli uomini (palio rosso al primo, gallo all’ultimo) e l’altra invece aperta alle sole donne, alla vincitrice delle quali era destinato il “drappo verde”, senza dimenticarsi anche qui del gallo per la meno veloce. 

Il palio verde insomma che al tempo di Dante era destinato agli uomini, fu da Giangaleazzo Visconti assegnato alle donne, ma – attenzione! – con la postilla che per la conquista del drappo, recita lo statuto, “correranno donne oneste, anche se ce ne fosse una sola, se invece non ci sarà alcuna donna onesta che corra, allora in sostituzione verranno accettate anche le prostitute”. Lo spettacolo, insomma, deve continuare!

Non molto tempo dopo il 1450, dopo cioè che Verona passò sotto la dominazione veneziana, lo statuto cittadino fu infine nuovamente riformato e modificato in una forma che si mantenne inalterata fino alla caduta della repubblica. In questa versione del regolamento di gara, il giorno delle competizioni venne spostato dalla prima domenica di quaresima al giovedì grasso, ed alle tre corse ne venne aggiunta un’altra, il palio degli asini, con un drappo bianco per il vincitore.

La cerimonia delle premiazioni infine rivestiva un’importanza particolare anche per gli stessi spettatori, non solo per tributare i dovuti onori a chi aveva primeggiato nelle due/tre/quattro gare, ma anche e soprattutto per divertirsi a spese degli ultimi, costretti da regolamento a girare per la città facendo bella mostra del “premio di consolazione”. 

Nel caso del cavaliere perdente, questi doveva attraversare Verona con la coscia di maiale appesa al collo del cavallo, coscia che, sempre da regolamento, “è lecito che chiunque la possa tagliare e portar via”. E i podisti di oggi che si lamentano per niente!

 

 

Fonte: srs di Indro Neri/Dante era un podista/run.com


Mar 05 2009

Tacito: Discorso di Ponzio

Category: Autonomie Indipendenze,Italia storia e dintornigiorgio @ 21:20

Romani <<crudeli al punto che non si sentono sazi della morte dei colpevoli, della consegna di loro corpi senza vita né di quella che hanno tenuto dietro ai padroni se non offriamo loro il nostro sangue in bevanda, i nostri visceri da dilaniare.>>

Della serie: non è cambiato niente


Mar 05 2009

Done Done … ghe xe qua’ el Torototela

Category: Verona dei veronesigiorgio @ 09:54

Per il carnevale 2009 e’ venuto a trovarci in quel di Verona nella nostra Macelleria Equina di Via Pisano el TOROTOTELA; eccolo fra Daiana Paris e Gianluca Morando

L’è arivà el Torototela, l’è arivà el torototà! L’è arivà el Torototela, l’è arivà el torototà! E  me piase la polentina, specialmente col bacalà.

Questa è una delle  filastrocca con cui il Torototela annunciava il suo arrivo in paese, il saluto di un trovatore armato di archetto, e di rudimentale monocordo che “graffiando l’udito vi faceva  sbellicare dalle risa”.

E’ una nota macchietta piemontese, ma è presente anche in tutto il Veneto, e in molte  località della Padania, per noi Veronesi è la maschera di San Michele All’Adige.

Di solito “I Torototela”  non erano mai del luogo, ma provenivano dai paesi o da  province limitrofe, anche se tutti dicevano di provenire da Vicenza. Di sicuro si sa che tra loro vi era una un accordo comune per non farsi concorrenza: ciascuno sapeva i propri periodi e i paesi.

Lo strumento del Torototela

Tutti iniziavano col Saluto del Torototela, dopo di che proseguivano con il loro repertorio, accompagnandosi con un monocordo rudimentale detto anche “torototela”.

In Piemonte Augusto Monti, riferendosi  al  Carnevale di Monesiglio ce ne fa una descrizione : «Cilindro solino scopettoni, code di rondine, e una zucca vuota a mo’ di violino con su teso un cantino … allietava feste e ricorrenze e nozze, improvvisando stornelli e strambotti allo stridulo miagolio di quella sua giga rusticana”». 

Nel  Veneto «il Torototela aveva  un bastone ricurvo tra le cui estremità veniva tesa una corda (se grande) … con la cassa di risonanza formata da una zucca vinaria (nel Polesine detta “zzucca violina”) incastrata a guisa di ponticello tra le corde e il bastone ».

Nella zona della Bassa Padovana. Talvolta. il Torototela, al posto della zucca, aveva le mandibole

Nel Friuli,  el Torototela,  era  il nome dialettale di uno strumento a corde, una specie di chitarra, usato per animare gli antichi filò.

Il Torototela  tra  Musu Francesco e  Fabio Marastoni

Interessante la testimonianza di Pio Mazzucchi sul personaggio del Torototela rilasciata circa 50 anni fa. «Una specie di trovatore. Non ha maschera e non è camuffato in nessuna maniera. Veste come tutti gli uomini; soltanto porta due profonde bisaccie che gli scendono sulle spalle, e tiene in mano uno strumento musicale … e si presenta  baldo alla porta di casa: si pianta su due piedi …brandisce l’archetto e soffrega forte le corde…suoni scomposti confusi, sibilanti o scroscianti che graffiano maledettamente l’udito e vi fanno sbellicare dalle risa».

A Verona nel Carnevale Moderno, El Torototela,
 è un  misero vestito da mendicante, ha un bastone con appesi dei pupazzi di pezza da agitare, qualche strofetta cantata senza pretese del tipo “me piase la polentina, specialmente col bacalà”. Si ispira a un personaggio realmente esistito: un pover’uomo di Roveredo di Guà, ma abitante a Ponte Florio che già a metà degli anni Trenta veniva in città a chiedere l’elemosina, con un corredo un po’ appariscente. 
Era fattosi talmente famoso da diventare la maschera di San Michele Extra,  paese che in un tempo passato era noto per essere un posto dove “se pianta fasoi e nasce ladri de fioi”


Mar 04 2009

Scota principessa egizia figlia di Akhenaton e regina di Scozia

Category: Bibbia ed Egittogiorgio @ 17:12

 

Moltissimo tempo fa, in una terra lontana, si narra che un principe e una principessa salirono sul trono con una cerimonia in pompa magna per diventare re e regina della loro gente. 

Ma il fato non sarebbe stato benevolo con nessuno dei due, ne con la moltitudine di cortigiani e funzionari che li stavano festeggiando, poiché molte di queste persone sarebbero presto state costrette a fuggire dalle loro case in cerca di terre meno turbolente al di là del “Grande Mare”. 

L’agitazione politica che circondava questo matrimonio, e le sue implicazioni teologiche, impiegò quasi quattro anni a suppurare e ulcerarsi. 

Alla fine, si verificò un sollevamento popolare di qualche genere che costrinse il re e la regina ad abdicare; ma la rivoluzione fu abbastanza pacifica da permettere loro di partire con il grosso della loro amministrazione e dei loro seguaci. 

Centinaia di persone vennero costrette a prendere il mare in piccoli vascelli precari e salpare arditamente verso il Sole morente e una grande incertezza. 

Si trattava di un’era in cui molte di queste acque erano ancora completamente inesplorate ma, visto che tornare alle loro case significava morte certa, scelsero il  mare nonostante i pericoli. 

Alla fine, dopo tanti guai e tribolazioni, la coppia reale e la loro piccola flottiglia scoprirono una nuova terra che sembrava essere molto promettente. 

Come i Padri Pellegrini in un’ epoca molto più recente, questi emigrati decisero di fondare una nuova nazione molto lontano dalla lotta politica e religiosa della loro vecchia madrepatria, l’Egitto. 

Il principe e la principessa di questa cronaca scozzese si chiamavano Gaythelos e Scota, ed è dai loro appellativi che si crede provengano i nomi dei popoli “gaelico” e “scozzese”. 

E, dato che questa armonia terminologica può sembrare un pochino di convenienza, e forse persino studiata, dobbiamo puntualizzare che questa connessione non è stata mutuata dal moderno romanticismo New Age, ne dalle favole vittoriane.

 In effetti, la cronaca di Gaythelos e Scota è stata presa dal Lebor Gabala, un testo irlandese del XII sec. d.C. basato su altri scritti molto più antichi. 

Il Lebor Gabala vorrebbe essere la storia della fondazione dell’ Irlanda e della Scozia, e un piccolo sunto del suo contenuto si trova anche nella più famosa Dichiarazione di Arbroath, un documento scozzese redatto il 6 aprile del 1320 d.C., probabilmente dall’abate Bernard de Linton. 

Questo famoso documento, paragonabile per molti aspetti alla Dichiarazione d’Indipendenza americana, venne sottoscritto da numerosi conti e baroni scozzesi e quindi inviata all’altro capo d’Europa, a papa Giovanni XXII. 

Una versione successiva di questa storia, del XIV o XV sec., opera di John of Fordun e Walter Bower, venne chiamata Scotichronicon. 

Quindi è proprio così, per quanto incredibile possa sembrare, gli antichi cronisti pensavano davvero che l’Irlanda e la Scozia vennero popolate dai discendenti di un faraone egizio, della sua regina e dei loro vari cortigiani e seguaci.

Il viaggio periglioso

La storia in se stessa è focalizzata sulla coppia reale di Gaythelos e Scota. 

Si dice che Gaythelos fosse un principe greco ribelle che ebbe un litigio col padre o col fratello e quindi lasciò la Grecia alla ricerca di nuove opportunità. Essendo un individuo precoce e fortunato, si suppone che sia giunto in Egitto e sia riuscito a ingraziarsi la famiglia reale del luogo.

Contro tutti i costumi egizi conosciuti avrebbe sposato la figlia del faraone, in vista di ereditare il trono d’Egitto.  Tuttavia, la sua importante ipoteca sul trono non era affatto ben vista dal proletariato egizio e quindi venne espulso con la moglie, imbarcandosi in un viaggio epico attraverso il Mediterraneo. 

Dopo molte fermate brevi e colpi di scena, sarebbero approdati nel fiume Ebro, in Spagna, dove eressero una piccola città fortificata chiamata Brigantia. Ma, essendo costantemente attaccata dai nativi, la nuova proto-nazione decise di riprendere il mare in cerca di terre meno popolate in cui emigrare. 

La prima di queste terre si dice fosse un’isola visibile dalla foce dell’Ebro, e quindi potrebbe ben essere Maiorca. Infine, dopo alcune generazioni, venne scoperta un’ altra isola da eleggere come patria e questa viene identificata sicuramente con l’Irlanda. 

Molti degli abitanti di Brigantia, la cui popolazione era molto cresciuta, emigrarono allora in Irlanda, che venne chiamata Scozia dal nome della loro regina fondatrice. 

Il fatto che l’Irlanda venisse chiamata Scozia prima del III secolo d.C. è piuttosto risaputo e viene menzionato, tra gli altri, da Claudiano, Grosio, Mariano Scoto, Isidoro e Beda.

Figlia di Akhenaton

Ma questa antica cronaca scozzese era basata sulla storia o sulla mitologia? 

Uno dei primi indicatori della sua probabile autenticità è il fatto che la lista dei faraoni egizi e altri dettagli nella cronaca sono basati sui lavori dello storico egizio Manetone, che ha la reputazione di essere abbastanza affidabile nei suoi racconti. 

Se la Scotichronicon fosse basata su Erodoto si potrebbe essere apertamente scettici, ma Manetone è di gran lunga più autorevole. 

Il secondo punto è che il nome del padre di Scota, Achencheres, può essere prontamente identificato con il nome del faraone Akhenaton. 

Di nuovo, se la storia fosse stata ambientata in un qualsiasi altro periodo della storia d’Egitto si poteva essere fortemente scettici sulla veridicità del racconto, ma succede che lo Scotichronicon getta i riflettori su uno dei. pochi eventi instabili della storia egizia, in un momento in cui era altamente possibile che un principe e una principessa (o reregina) venissero espulsi dal paese. 

Effettivamente, un’attenta analisi dello Scotichronicon indica che la coppia reale (Gaythelos e Scota) sarebbero in realtà il faraone Aye e la regina Ankhesenamun e che i nomi usati nelle cronache scozzesi sono semplicemente titoli o appellativi.

In particolare, la confusione con la Grecia sorge in quanto Manetone farebbe menzione del fatto che Aye (Dannus) si recò ad Argo, in Grecia, per alcuni anni. 

Se così fosse, e se Aye davvero fuggì dall’Egitto con la moglie e una moltitudine di cortigiani e sostenitori alla fine del suo regno, dovremmo sicuramente trovare delle somiglianze tra l’Egitto, le isole Baleari e l’Irlanda. 

La prima cosa che salta all’occhio è che, insediandosi sul fiume Ebro, gli esuli egizi avrebbero trovato uno dei pochi luoghi del Mediterraneo identici all’Egitto. 

La foce dell’Ebro è un delta, come quella del Nilo, quindi i fattori che accompagnavano Aye avrebbero avuto una certa familiarità con le tecniche richieste per coltivare quella terra e sfamare gli emigranti, 

Si dice che queste storie dello Scotichronicon siano interamente mitiche, ma se così fosse, come hanno fatto Walter Bower e soci a individuare e inserire nel testo l’unica foce a delta della zona, simile alle terre d’Egitto? 

E allo stesso modo, come ha potuto creare nomi per la Spagna (Iberia) e per l’Irlanda (Hibernia) basati sulle medesime radici epigrafiche? 

Ma alcune generazioni dopo lo stanziamento sul delta dell’Ebro, alcune di queste persone sono emigrate nelle isole Baleari e in Irlanda, e anche se a prima vista si può pensareche non vi siano somiglianze tra l’Irlanda e Minorca, in realtà ce ne sono più di qualcuna

Le correlazioni

Uno dei tipi più interessanti di monumento a Minorca sono delle tombe a foggia di imbarcazione chiamate navetas. Gli archeologi le hanno interpretate come un segno che le genti di Minorca siano arrivate per mare dal Mediterraneo orientale nel XIV secolo a.c. Se queste genti facevano parte dell’esodo dall’Egitto di Aye e Ankhesenamun (Gaythelos e Scota) descritto dallo Scotichronicon, tale cronologia e rotta sarebbero assolutamente corrette. 

Ma in Irlanda esistono tombe-nave simili? 

Certamente, in quanto gli scoti si dice che sbarcarono nella penisola di Dingle, nel sudovest dell’Irlanda, e in questo stesso luogo troviamo un certo numero di tombe-barca identiche. In effetti, queste tombe-barca in Irlanda e a Minorca non solo sembrano identiche, ma sembrano utilizzare anche lo stesso sistema di misurazione. 

 

Ci sono altri monumenti di Minorca e Maiorca che forniscono interessanti paragoni, ma vediamo ora le somiglianze tra il regime amarniano di Akhenaton e l’Irlanda. 

Prima che la città e il regime di Amarna collassassero, Aye era il comandante dell’esercito e il visir (primo ministro) di Akhenaton e Nefertiti. Avendo servito Akhenaton così bene, Aye venne premiato con un cospicuo tesoro di preziosi manufatti d’oro, tra i quali c’erano collane d’oro e un paio di guanti rossi. 

La collana d’oro e i guanti sembrano essere regali tipici del regime di Amama, e non un uso tradizionale egizio, e un meraviglioso “fumetto” della cerimonia della loro consegna è conservato nella tomba di Aye.

Fatto abbastanza strano, un certo numero di collane d’oro sono state scoperte in Irlanda, cosa piuttosto inusuale, in quanto l’Irlanda non è nota per la sua opulenza o per la ricchezza di minerali nel suo periodo iniziale. Cosa ancora più importante, non sono mai state scoperte fonderie che possano giustificare questi manufatti d’oro. Quindi, da dove venivano tutte queste collane d’oro? E con cosa erano in grado di barattarle i regnanti irlandesi? Una possibilità concreta è che l’oro, e probabilmente le collane stesse, vennero direttamente dall’Egitto, come indicano le cronache scozzesi. La spiegazione più semplice è quella data dalla storia di queste terre.

E per quanto riguarda quegli strani guanti rossi donati ad Aye? 

Le tradizioni dell’Ulter indicano che alcuni dei primi insediamenti bell’Irlanda del Nord vennero fondati dagli israeliti, ed per questo che la bandiera locale contiene la Stella di David. 

Tuttavia, le mie ricerche mi dicono che gli stessi israeliti discendevano dall’era amarniana del faraone Akhenaton, con Mosè che probabilmente era Tuthmosis in realtà, il fratello più grande di Akhenaton. Nel qual caso, il nome comune degli ebrei potrebbe derivare da quello del figlio di Aye-Gaythelos chiamato Hiber, dal quale deriva anche Iberna (Spagna) e Hibernia (Irlanda). E potrebbe essere attraverso questa stessa rotta geografica e storica che il guanto rosso di Aye sia diventato la mano rossa dell’Ulster che si trova anche sulla sua bandiera. Questi sono soltanto alcuni dei collegamenti che legano l’Egitto amarniano alle isole Baleari, all’Irlanda e alla Scozia. 

Non si era mai fatto caso a molti di questi collegamenti, e quel paio che erano stati riconosciuti sono stati accantonati come mere coincidenze. Tuttavia, i legami architettonici e culturali possono essere notati da tutti; e, allo stesso tempo, abbiamo un’antica cronaca datata al XIII sec. d.C – derivata a sua volta da testi del XII sec. – che afferma chiaramente che ci fu un esodo che seguì proprio questa stessa rotta. E’ quindi del tutto possibile, persino probabile, che il Lebor Gabala e lo Scotichronicon non fossero racconti mitologici creati da monaci sconvolti, ma vera e propria storia scritta dalla penna d’oca di un clero educato. Nel qual caso, le antiche Irlanda e Scozia potrebbero davvero essere state in sediate dai rifugiati della corte reale del faraone Akhenaton. 

A confermare questa ipotesi di faraoni in Scozia e Irlanda, 

Il Lebor Gabala, un testo irlandese del XII sec. d.C. basato su altri scritti molto più antichi  e che vorrebbe essere la storia della fondazione dell’ Irlanda e della Scozia, e un piccolo sunto del suo contenuto si trova anche nella più famosa Dichiarazione di Arbroath, un documento scozzese redatto il 6 aprile del 1320 d.C., probabilmente dall’abate Bernard de Linton e paragonabile per molti aspetti alla Dichiarazione d’Indipendenza americana,  narra  questa leggenda focalizzata sulla coppia reale di Gaythelos e Scota:

“Moltissimo tempo fa, in una terra lontana, si narra che un principe e una principessa salirono sul trono con una cerimonia in pompa magna per diventare Re e Regina della loro gente. 

Ma il fato non sarebbe stato benevolo con nessuno dei due, ne con la moltitudine di cortigiani e funzionari che li stavano festeggiando, poiché molte di queste persone sarebbero presto state costrette a fuggire dalle loro case in cerca di terre meno turbolente al di là del “Grande Mare”. L’agitazione politica che circondava questo matrimonio, e le sue implicazioni teologiche, impiegò quasi quattro anni a suppurare e ulcerarsi. 

Alla fine, si verificò un sollevamento popolare di qualche genere che costrinse il re e la regina ad abdicare; ma la rivoluzione fu abbastanza pacifica da permettere loro di partire con il grosso della loro amministrazione e dei loro seguaci. 

Centinaia di persone vennero costrette a prendere il mare in piccoli vascelli precari e salpare arditamente verso il Sole morente e una grande incertezza. 

Si trattava di un’era in cui molte di queste acque erano ancora completamente inesplorate ma, visto che tornare alle loro case significava morte certa, scelsero il  mare nonostante i pericoli. 

Alla fine, dopo tanti guai e tribolazioni, la coppia reale e la loro piccola flottiglia scoprirono una nuova terra che sembrava essere molto promettente. Come i Padri Pellegrini in un’ epoca molto più recente, questi emigrati decisero di fondare una nuova nazione molto lontano dalla lotta politica e religiosa della loro vecchia madrepatria, l’Egitto. 

Il principe e la principessa di questa cronaca scozzese si chiamavano Gaythelos e Scota, ed è dai loro appellativi che si crede provengano i nomi dei popoli “gaelico” e “scozzese”.

Ma questa antica cronaca scozzese era basata sulla storia o sulla mitologia? 

Uno dei primi indicatori della sua probabile autenticità è il fatto che la lista dei faraoni egizi e altri dettagli nella cronaca sono basati sui lavori dello storico egizio Manetone, che ha la reputazione di essere abbastanza affidabile nei suoi racconti. 

Se la Scotichronicon fosse basata su Erodoto si potrebbe essere apertamente scettici, ma Manetone è di gran lunga più autorevole. Il secondo punto è che come detto prima il nome del padre di Scota, Achencheres, non è altro che la traduzione greca di Akhenaton, che regnò effettivamente intorno al 1350 a.C.

Di nuovo, se la storia fosse stata ambientata in un qualsiasi altro periodo della storia d’Egitto si poteva essere fortemente scettici sulla veridicità del racconto, ma succede che lo Scotichronicon getta i riflettori su uno dei. pochi eventi instabili della storia egizia, in un momento in cui era altamente possibile che un principe e una principessa (o re o regina) venissero espulsi

Le correlazioni

Prima che la città e il regime di Amarna collassassero, Aye era il comandante dell’esercito e il visir (primo ministro) di Akhenaton e Nefertiti. Avendo servito Akhenaton così bene, Aye venne premiato con un cospicuo tesoro di preziosi manufatti d’oro, tra i quali c’erano collane d’oro e un paio di guanti rossi. La collana d’oro e i guanti rossi  erano regali tipici del regime di Amama, e non un uso tradizionale egizio, e un meraviglioso “fumetto a geroglifici ” della cerimonia della loro consegna è conservato nella tomba di AyeBene! Sulla bandiera dell’Ulster da sempre vi sono riportate due simbologie che sono statica sempre  dei rompicapo incomprensibili   per gli studiosi di araldica.

Il guanto rosso, e la stella di David

Alla luce di questo il simbolismo del quanto rosso  diventa  comprensibilissimo,  non essendo altro che uno dei retaggi del grande esodo.

 Le antiche Irlanda e Scozia potrebbero davvero essere state insediate dai rifugiati ebrei della corte reale del faraone Akhenaton. 

 

 

Fonte: Hera


Mar 04 2009

Scota regina egizia di Scozia

Category: Bibbia ed Egittogiorgio @ 10:44

 

Nel 1955, il dottor Sean O’Riordan, archeologo del Trinità College di Dublino, effettuò un’interessante scoperta nel corso di uno scavo al Mound degli Ostaggi a Tara, un antico sito di incoronazione in Irlanda. Vennero trovati i resti scheletrici di quello che sembrava essere un giovane principe che ancora indossava una rara collana di perline di ceramica costituite da un impasto di minerali e estratti di piante bruciati. Lo scheletro fu datato al radiocarbonio al 1350 a.C. 

Nel 1956, F. Stone e L.C. Thomas rivelarono che le perline di ceramica erano egizie. In effetti, quando vennero comparate con perline di ceramica egizie, non solo si dimostrarono identiche nella manifattura, ma anche con decorazioni simili. Il famoso faraone-ragazzo Tutankhamon era stato sepolto nello stesso periodo dello scheletro di Tara e l’inestimabile collare d’oro trovato intorno al collo della sua mummia era tempestato da simili perline di ceramica coniche blu-verdi. Un girocollo

quasi identico è stato trovato in un mound sepolcrale dell’Età del Bronzo a nord di Molton, nel Devon, in Inghilterra. 

L’egittologa Lorrain Evans, nel suo irresistibile libro, Kingdom of the Ark, pubblicato nel 2001 (inedito in Italia) scritto alcuni anni prima di quello di Ellis, rivela legami archeologici tra l’Egitto e l’Irlanda. La Evans sostiene che i legami tra le due lontane terre erano plausibile e che esistono prove archeologiche a suffragio di questa teoria. 

Nel 1937, a North Ferriby, nello Yorkshire, sono stati trovati i resti di un’antica nave. All’inizio si pensò che si trattava di una nave vichinga, sino a quando successivi scavi produssero altre navi naufragate in una tempesta. Ulteriori ricerche dimostrarono che quelle navi erano molto più antiche dei vichinghi e la loro tipologia era riscontrabile soltanto nel Mediterraneo. Le conclusioni furono che quelle navi erano state costruite 2.000 anni prima dell’epoca dei vichinghi e vennero datate al radiocarbonio tra il 1400 e il 1350 a.C. Evans quindi opera delle connessioni per dimostrare che quelle navi potevano essere originarie dell’Egitto, in quanto il periodo di tempo coincide con quello delle perline di ceramica. 

Mentre sta conducendo ricerche sull’origine delle genti di Scozia nel manoscritto Bower, lo Scotichronicon, la studiosa scopre la storia di Scota, la principessa egizia figlia del faraone che fuggì dall’Egitto con il marito Gaythelos con un grande seguito che arrivò con una flotta di navi. Si insediarono in Scozia per un periodo tra i nativi, sino a quando non furono costretti a ripartire e si recarono in Irlanda, dove formarono gli Scotti, e i loro re divennero gli alti sovrani d’Irlanda. Nei secoli successivi tornarono in Scozia e, sconfiggendo i Picti, diedero il nome al paese. 

La Evans quindi pone diverse questioni: la collana di Tara era un regalo degli egizi a un capo locale dopo il loro arrivo? O forse il principe di Tara era in realtà egli stesso egizio? Secondo il manoscritto di Bower, i discendenti di Scota erano gli alti sovrani d’Irlanda. Nella sua ricerca per scoprire la vera identità di Scota, in quanto non si tratta di un nome egizio, la ricercatrice rileva all’interno del manoscritto di Bower che il padre di Scota aveva il nome di Achencres, versione greca di un nome egizio. Nell’opera di Manetone, un sacerdote egizio, Evans scopre che il nome Achencheres non è altro che la traduzione niente di meno che di Akhenaton, che regnò effettivamente intorno al 1350 a.C. 

La Evans, a differenza di Ellis, crede che Scota fosse Merytaton, la figlia più grande di Akhenaton e Nefertiti. La terza figlia, Ankhesenpaaton, sposò il fratellastro Tutankhamon, figlio di Akhenaton e della sua seconda moglie, Kiya. Il controverso passaggio religioso al dio Amon causò un conflitto con i sacerdoti di Amon, che riaffermarono la loro autorità alla fine del regno di Akhenaton e questo faraone scomparve dalla storia. Questo conflitto e le vociferate morti di peste potrebbero essere state una motivazione sufficiente per la figlia primogenita del faraone affinché accettasse in matrimonio un principe straniero, piuttosto che diventare la moglie di Tutankhamon, come avrebbe voluto normalmente l’usanza, e fuggisse dal paese dilaniato dal conflitto.

 

Fonte:  Hera 88 maggio 2007


Mar 03 2009

L’umanità è avviata con un senso di onnipotenza…

L’umanità è avviata con un senso di onnipotenza  e  mancanza di dignità, verso un assetto globale che mira alla distruzione, sia dell’ordine naturale, che della sacralità , per affermare il proprio nulla.


Mar 03 2009

Venera Dio sul tuo cammino, qualunque sia la forma in cui si manifesta

Category: Bibbia ed Egitto,Religioni e rasiegiorgio @ 09:43

 

Venera Dio sul tuo cammino,

Qualunque sia la forma in cui si manifesta

Che sia abbellito con pietre preziose o rappresentato da una statua di rame

Una forma ne sostituirà un’altra

Come una nuova inondazione segue la precedente

(insegnamento per Merekarie )

 

 

Dice Mosè: Perche il Signore vostro Dio è il Dio degli dèi

(Bibbia aramaica, Deuteronomio 10,17).

 

L’insegnamento impartito a Merekarie spiega che Dio si può conoscere tramite la varietà del creato. Questa presenza si manifesta nella vita quotidiana, in cui si riconosce il creatore attraverso la sua creazione, che suscita rispetto per la natura e compassione per l’uomo.

Unico o molteplice, visibile o invisibile, questo Dio è il medesimo nella Bibbia e nell’antico Egitto. È un Dio universale che ignora le rivalità e che è all’origine della creazione, che ha voluto per il bene e per amore degli uomini. Invocando il suo nome il faraone aveva il dovere di garantire la pace tra i popoli in terra d’Egitto. Il molteplice era l’unico, l’unico era il molteplice.

La spiritualità è parte integrante delle virtù più elevate: nobiltà d’animo, amore, eroismo, dignità, indipendenza. La natura è un incanto, una benedizione. Vi è spiritualità quando l’universo interiore ed esteriore sono in armonia perfetta.  La spiritualità è uno stato di semplicità sottile, in cui la bellezza del mondo si rivela istante dopo istante.

Il divino è tranquillo e silenzioso. Non appartiene a nessuno.

Le rappresentazioni scultoree e pittoriche fanno parte della bellezza del mondo, così come le religioni, le loro gioie, le loro feste, le loro tradizioni dolci e umane.

 

 

Fonte: Srs di Messod e Roger Sabbah


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