Da Il fondo di Miro Renzeglia
Luca Leonello Rimbotti
Il rinnovato interesse che la storiografia recente dimostra per l’antichità greco-romana è senz’altro un indice positivo. Al di là di singole interpretazioni anche discutibili, esso è la prova che l’ideologia artefatta della globalizzazione non è sufficiente a dare credibilità, se non ai livelli sociali già interiormente minati dal cosmopolitismo. I ceti di “nuovi ricchi” e le masse borghesi che aspirano a integrarsi nel modello consumistico occidentale non si pongono problemi di identità. Chi invece vede con chiarezza la portata dell’inganno universalista ed egualitario va in cerca delle radici e le trova proprio nel mondo classico e nelle sue propaggini barbariche. Che insieme, costituiscono un unicum. Il luogo in cui l’identità tribale delle gentes europee e l’ideologia dell’Impero si incontrarono, interagendo l’una con l’altra, è il luogo di nascita dell’Europa quale intendiamo preservare dalla finale distruzione.
L’Impero romano non fu, in fondo, che l’espressione massima – in termini civili e territoriali – di una gens tribale, nata guerriera e contadina nel piccolo spazio della terra dei padri. Dalla res publica laziale all’Imperium mondiale si ha solo una modificazione di quantità, non di qualità. Gli Dei abbattuti da Teodosio e maledetti da Tertulliano o Ambrogio con accenti di inaudita violenza, erano nel IV-V secolo dopo Cristo gli stessi di mille anni prima. Anche la figura nobile e accorata del vir romano arcaico rimase sostanzialmente la stessa nella tarda antichità. Gli accenti di amore per Roma di un Rutilio Namaziano sono molto da vicino paragonabili a quelli di un Catone, vissuto sei secoli prima. La tarda Romanità, fino a quando non sopraggiunse il collasso finale, presenta grandi esempi di continuità ideale con la tradizione arcaica. Prendiamo un caso.