Foto storica. Lla prima immagine fotografica del sito archeologico de “La pineta”
Tra gli scritti di Alberto Solinas, rubacchiati, si fa per dire, dalla sua scrivania, questo è uno dei più interessanti perché riporta, gli appunti, le impressioni e gli stati d’animo su una delle più importanti scoperte archeologiche, “La pineta di Isernia”. S’intravedono inoltre anche i primi dubbi su quelli che sono stati alcuni dei risultati finali delle ricerche archeologiche.
LA SCOPERTA
È necessario ora illustrare la tecnica per l’individuazione dei siti archeologici. Si tratta di un metodo personale, ma già sperimentato nella nostra famiglia da oltre mezzo secolo, e ha permesso la scoperta di importantissimi siti preistorici, alcuni dei quali di importanza anche basilare per la Paletnologia mondiale (Isernia e la grotta “Solinas” nella valle di Fumane, Verona).
Purtroppo la metodologia di ricerca sul terreno non era mai stata ritenuta importante dagli “addetti ai lavori” dal momento che i manufatti raccolti, trovandosi in superficie, erano stati spostati rispetto alla loro posizione originaria, perciò non erano in grado di fornire indicazioni scientifiche sicure.
Solo negli anni ’70 ci si rese conto che la ricognizione a terra era importantissima, non meno dello scavo archeologico, ed anzi necessaria per individuare nuovi siti archeologici, anche in aree in cui si riteneva impossibile la presenza dell’uomo paleolitico e mesolitico.
La nostra tecnica per individuare gli accampamenti estivi dell’uomo del Paleolitico superiore e del Mesolitico in alta montagna (oltre i 1.500 metri d’altezza) può infatti consistere anche solo nell’analisi dei mucchietti di terra, opera delle talpe, poiché queste possono talvolta portare in superficie eventuali manufatti preistorici, consentendo così di individuare l’area da scavare.
Iniziammo ad applicare tale metodo di ricerca in alta quota nel 1967 ed i risultati portarono a rivoluzionare completamente la teoria secondo cui nessun uomo, prima dell’uomo neolitico, poteva aver abitato nelle Alpi, ad altezze simili. Tale metodo è stato ora adottato nella ricerca archeologica ufficiale.
Il punto di partenza, per chi voglia condurre una fruttuosa ricerca sul territorio senza rischiare di perdere tempo prezioso, è una ricerca bibliografica sull’argomento che non trascuri gli aspetti folcloristici legati alla storia locale e alle leggende. È poi necessario dotarsi di una carta topografica dell’U.T.M. in scala 1:25.000 e segnare tutto ciò che può costituire oggetto di interesse archeologico, come ad esempio i toponimi legati alle fortificazioni (Rocca, Castello, ecc.): questi indicano infatti, in genere, villaggi dell’età del Bronzo o del Ferro. Ad esempio la ricerca di Colle Castellano, a sud di Montaquila, diede subito risultati positivi: si rinvennero manufatti ceramici del periodo medievale e abbondantissime scorie ferrose; si trattava probabilmente di reperti appartenuti al leggendario monastero, spesso ricordato nei racconti dei montaquilani.
Ai piedi di Colle Castellano, accanto ai reperti medievali e romani, ne furono rinvenuti anche di epoca preistorica, di tipologia Musteriana (Paleolitico medio) e genericamente Neolitici.
Questo ritrovamento costituì il punto di partenza per la ricerca successiva: poiché i reperti archeologici erano stati ritrovati ad una quota di 256 metri s.l.m., era opportuno indagare sui terrazzi fluviali del Volturno che presentassero all’incirca la stessa quota altimetrica, vale a dire la piana di Castelvecchio e Valle Porcina, a sud ed a est di Montaquila. I risultati, dal punto di vista archeologico, furono subito eclatanti: la selce trasportata dalle antichissime alluvioni del Volturno era abbondantissima e i manufatti preistorici ad una prima analisi furono attribuiti, per tipologia, al Paleolitico inferiore e medio, poi al Neolitico e all’età del Rame. Non mancavano reperti di epoca romana e medievale; procedendo con le ricerche, potei constatare che parecchio materiale edile, tra cui embrici, coppi, ecc., proveniva dall’Abbazia di San Vincenzo al Volturno, il che lascia immaginare che questa, dopo la sua distruzione, sia diventata fonte di reimpiego del materiale da costruzione. Alla fine di ogni periodo di ricerca i manufatti archeologici venivano siglati con la data del rinvenimento e la località di provenienza e poi, naturalmente, consegnati all’Antiquarium di Isernia.
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