RISORGIMENTO. L’ALTRA VERITA’
OPPORTUNISTA. Goffredo Mameli. Fratelli d’Italia non è opera sua ma di frate Anastasio Cannata
Con la scusa dell’Unità intere generazioni hanno speculati sul disinteresse dei patrioti per affari tutt’altro che gloriosi.
Il Risorgimento è quello che ci hanno insegnato a scuola? Nelle pagine dei sussidiari – quelli sui cui hanno studiato i nonni, i padri e, purtroppo, i figli e i nipoti – è uno spreco di retorica, e di buoni sentimenti, capaci di allineare un raro repertorio di luoghi comuni.
Gli autori. a ogni capoverso, si sono impegnati a citare: la Nazione, la Riunione, l’Autonomia, l’Indipendenza, l’Unificazione. Il tutto con uno spreco davvero eccessivo di lettere maiuscole e di virgolette per amplificare e sottolineare il significato di concetti di per sé chiari nel significato letterale e già abbastanza esagerati in quello concettuale. Sono i principi che rappresenterebbero la pietra angolare del nuovo edificio – Italia – dove coesisterebbero libertà, coscienza, Dio e popolo, religione, solidarietà, altruismo, gloria, diritto insopprimibile delle genti, redenzione, nuova alba e rinnovellate speranze. Mica facile! È stato necessario scuotere il giogo che ci asserviva, sotto gli occhi dell’Europa che ci guardava, mettere in campo animi indomiti e tenaci, spezzare le catene della tirannide e dare corpo a un’idea vagheggiata da secoli.
Ancora: si è dovuto passare per i nostri voti e le nostre convinzioni, per i supremi momenti e le supreme speranze, per il solenne fremito, il solenne palpito e il consenso dell’umanità – manco a dirlo – solenne. Però, ormai, l’ora era suonata ed era scoccato il tempo dei forti. Palpitava il cuore dei patrioti tanto da realizzare un destino che sembrava già scritto e in attesa di interpreti adeguati. Abbiamo avuto ragione della forza brutale e liberticida, delle inique mene dei tristi e dei tanti tirannelli austriacanti. L’animo indomito e tenace ha consentito di affrontare lo straniero in campo aperto, di sconfiggerlo e di scacciarlo. E quando l’ultimo barbaro ha lasciato il sacro suolo, un’alba radiosa si è levata a salutare la nuova Patria…. da indicare obbligatoriamente con la “p” maiuscola.
In cento e più anni, nemmeno il linguaggio ha azzardato una modernizzazione che lo rendesse comprensibile anche alle soglie del terzo millennio. I ragazzi delle scuole possono crederci? Una storia così zuccherosa risulta plausibile alle generazioni del piercing e dei tatuaggi dietro il collo?
Indubbiamente, nei cinquant’anni che se gnarono la nascita e la costruzione dell’Italia, non è difficile individuare esempi di entusiasmo genuino. C’è stata gente che ci ha creduto – e per davvero – tanto che a quelle sue idee, a volte venate di utopia, ha sacrificato tutto quello che aveva. Molti sono fmiti in manicomio, molti suicidi, molti sono andati a morire in Paesi anche lontani che, secondo loro, era necessario aiutare perché potessero conquistarsi un po’ più di libertà.
Ma accanto, e senza soluzione di continuità, quanti truffatori? Quanti magnaccia della monarchia sabauda? Quanti incompetenti con i gradi sulla giubba? E quanti stupidi, ancorché tempestivi voltagabbana?
Intere generazioni, con i figli e i figli dei figli, hanno speculato sul disinteresse politico dei patrioti per mettere in piedi business poco trasparenti ma molto redditizi. Hanno incominciato a rubare con la scusa dell’ Unità d’ ltalia. I furti riguardano piccoli tesori di denaro, di azioni, di crediti e di commercio ma toccano anche i simboli di un passato recente che si vorrebbe glorioso.
Il primo ladro si chiama Goffredo Mameli. Sì, proprio lui: l’eroe del Risorgimento, una delle vittime durante la difesa della Repubblica romana (1849), patriota a diciotto carati, senza “ se” e senza “ma”, che viene considerato l’autore dell’inno – a tutt’oggi – nazionale. Invece non è così: le strofe che si cantano a ogni ricorrenza e sui campi di calcio non sono farina del suo sacco e lui si è appropriato di un merito che non gli spettava.
Prima del 1848, il Piemonte di Carlo Alberto (alla faccia della propaganda sulla liberalità di casa Savoia) praticava una politica del tutto reazionaria. I liberali erano visti come pericolosi rivoluzionari ai quali polizia e tribunali erano impegnati a dare la caccia, per catturarli e sbatterli in galera. Mameli, che non faceva mistero delle sue idee, stava sul libro nero dei gendarmi e per non finire dietro le sbarre si fece ospitare a Carcare, sul passo di Cadibona, che sta à un tiro di schioppo dal confine tra Piemonte e Liguria. Il frate Anastasio Cannata, responsabile di un convento che era stato costruito ai margini del paese, accettò di nasconderlo. Chi poteva andare a cercarlo in un posto da eremiti, fuori dai circuiti di traffico tradizionali e abbastanza difficile da raggiungere?
Il religioso era anche un poeta. Non quel granché, almeno a giudicare dalla costruzione di rime un po’ raffazzonate e un po’ stentate. Lo salvava il sentimento che metteva nelle parole e che nobilitava espressioni di per se approssimative. Aveva composto anche un “Fratelli d’Italia/ l’Italia s’è desta/ dell’elmo di Scipio/ s’è cinta la testa” e aveva lasciato quella sua poesia fra le carte del suo scrittoio.
Tempo dopo, frate Cannata venne a sapere che a Torino tutti cantavano un inno vigoroso al quale Mameli avrebbe dato le parole e che Michele Novara aveva messo in musica. La sua poesia! Non c’era modo di rivolgersi al tribunale per denunciare il furto e il plagio. Si vendicò utilizzando l’arte del poeta per rivendicare i meriti che gli avevano negato. “Meditai robusto canto/ ma venali menestrelli/ mi rapinar dell’arpa il vanto”.
Chissà se allora tutto questo era reato punibile per legge. Certo, adesso, un Di Pietro metterebbe nero su bianco una denuncia circostanziata. E anche tutti quelli che cantano l’inno di Mameli potrebbero passarsela male perché rischierebbero di essere considerati “ricettatori” in quanto “traggono illecito profitto dal risultato di un, reato di furto”
Questo non per dire che i valori della patria non vanno riconosciuti o, peggio, devono essere svillaneggiati; ma per mettere le cose della storia al loro posto e attribuire a ciascuno il suo vero significato.
Anche il tricolore, del resto, fino a qualche anno fa, con i coloro verde-bianco-rosso stava nel simbolo del Movimento sociale italiano, il partito della destra che i più pretendevano di escludere dall’ “arco costituzionale”. Le feste del Msi erano da impedire o, almeno, da disprezzare. La bandiera era considerata fascista. La sinistra, per decenni, ha predicato che il nazionalismo era concetto angusto e reazionario che andava contestato a favore dell’internazionalismo proletario la cui guida era affidata soprattutto all’Unione Sovietica. È straordinario come, con un’inversione di 180 gradi, i denigratori di ieri siano diventati gli osannatori di oggi. Anche se l’esercizio di retorica che si sviluppa a ogni minimo pretesto, appare per quello che è: un po’ bolsa, animata da una sorta di indignazione ufficiale senza passione, ispirata da un finto amor di patria senza sentimento.
Del resto dov’è l’Italia? In Alto Adige pretenderebbero di essere austriaci: parlano il tedesco delle montagne tirolesi, festeggiano le loro ricorrenze facendo sfilare per le piazze gli Schützen armati che sparano a salve e per decenni hanno marcato la distanza da Roma, facendo brillare la dinamite sotto i pali della luce.
Giassico, in provincia di Gorizia, il 18 agosto di ogni anno – e quindi anche quest’anno – si popola di italianissimi e redenti cittadini che festeggiano il genetliaco di Francesco Giuseppe imperatore d’Austria al tempo del Risorgimento e della prima guerra mondiale.
Il 25 gennaio 2006, 113 sindaci della provincia di Bolzano (tutti meno tre) firmarono una petizione perché l’Austria inserisse nella sua Costituzione una clausola “per la difesa” delle minoranze di lingua tedesca, cioè loro stessi anche se, da quasi un secolo, fanno parte dell’Italia alla quale prestano un giuramento, assicurando di amministrare correttamente la porzione di Paese che è stato loro affidata. Il sindaco di Bolzano di allora, Luigi Spagnoli, leader locale dell’allora Margherita, commentò senza imbarazzo: «lo? lo non ho firmato perché non me l’hanno chiesto e, comunque, non l’avrei fatto. Però – giustificò l’iniziativa – so bene quanto sia inefficiente lo stato di Roma:
Un mese più tardi (15 febbraio 2006) alle Olimpiadi invernali disputate a Torino un altoatesino dal cognome. ostico, Gerhard Plankensteiner, vinse la medaglia di bronzo nello slittino. Alla premiazione, mentre suonavano l’inno di Mameli, restò a bocca chiusa e a chi gliene chiese conto rispose: «Non konozco kvella kanzone». Insorse Riccardo Villari, allora responsabile per il Mezzogiorno dell’allora Margherita (cioè lo stesso partito del comprensivo sindaco di Bolzano) che, risolutamente, sentenziò: – Chiarisca che la sua è stata un’infelicissima battuta o rinunci alla medaglia». Ancora: «Se si tratta di humour, non gli è riuscito bene perché si tratta di una presa di distanza dagli italiani, lui compreso». E, rincarando: «Mi sento profondamente offeso da uno sportivo che rinnega il simbolo della nostra identità nazionale». Dunque dov’è l’Italia?
Dall’altra parte delle Alpi, in val d’Aosta, senza terrorismo e con pochi strepiti ma rigorosamente, esibiscono il francese come una carta d’identità. I cartelli stradali sono un po’ più grandi del normale perché le indicazioni devono essere espresse in due lingue. Qualche volta, dovendo tradurre “via dante Alighieri” con “rue Dante Alighieri” potrebbe sembrare una posa. Eppure, fino alla fine degli anni Cinquanta, hanno coltivato l’ambizione di diventare una provincia parigina. Hanno rinunciato solo quando De Grulle le ha chiarito che non esistevano i presupposti per rivendicazioni territoriali. Da allora i valdostalli si considerano cittadini di una “petite patrie”, un po’ tradita e un po’ delusa e, comunque, con il cuore al di là del Monte Bianco e del Monte Rosa. A ogni elezione vince l’Union Valdotaine, che fa man bassa di voti, preferenze, amministratori e amministrazioni. Aosta conta solo due rappresentanti al Parlamento di Roma, un deputato e un senatore. Nella storia, i partiti tradizionali non ne hanno mai acchiappato nemmeno uno.
In compenso, fra Slovenia e Croazia vivono una quantità di cittadini che si sentono italiani ma che non sono riconosciuti. Nella migliore delle ipotesi, possono definirsi “esuli”. La città di Caporetto, simbolo di sofferenza per il tricolore, si trova all’estero, decine di chilometri oltre il confine dell’ ex Jugoslavia, dove ha perduto il suo nome e compare sulle carte, geografiche come Kobarid.
I siciliani. Chiamano l’Italia “”il continente”, espressione che sottolinea un distacco più profondo e più esteso del mare. In Sardegna, invece, preferiscono parlare di “penisola” e dal 1977, dovendo individuare una data per celebrare la festa regionale, hanno deciso per il 28 aprile perché, in quello stesso giorno del 1794, i cagliaritani riuscirono a cacciare in malo modo i piemontesi che li governavano. Abitualmente la gente dell’isola, quando era esasperata da padroni troppo autoritari, li legava sulla groppa di un asino che, andandosene al piccolo trotto, portava , via quei saccenti inopportuni. Poiche gli animali non erano in grado di attraversare il mare, in quel 1794 vennero utilizzate un paio di navi. Al momento di levare le ancore, un tripudio sulla banchine del porto. La scelta del Consiglio regionale non è stata apprezzata da tutti e ha sollevato qualche polemica ma non è stata cancellata. Dunque dov’’è l’Italia?
Chi la cerca non la trova perché non c’è. La nostra è una storia di città legate al campanile e spesso furiosamente ostili ai vicini. Esiste un Piemonte lombardo (a Novara e Vercelli), un Piemonte sabaudo (a Torino. Cuneo e Asti) e un terzo acquattato “sotto il Tanaro” che gli ortodossi aggregano direttamente a Genova.
La Liguria del Levante è una zona che quella di Ponente non considera nemmeno parte della famiglia e bersaglia con barzellette velenose da raccontare con un briciolo di cattiveria.
Gli umbri del nord, nella zona di Gubbio, si considerano marchigiani e, infatti, parlano con un accento che assomiglia più a quello di Ancora che a quello di Perugia.
In Veneto la gente di Venezia e di Padova si gratifica con il titolo di “gran signori” e “gran dottori”. l vicentini e i veronesi restano i parenti poveri: “magna gatti” e “tutti matti”.
Del resto, non sono forse i toscani che sostengono essere “meglio un morto in casa che un pisano all’uscio”?
Se l’Italia non c’è, invece di negare l’evidenza, meglio tentare di scoprire come è cominciata, dove e per responsabilità di chi.
Per esempio: perché non guardare che cosa capita nel resto del mondo? Negli Stati Uniti, giusto nel periodo del nostro Risorgimento, gli Stati del Nord si sono scontrati violentemente con gli Stati del Sud. Gli storici hanno studiato quel periodo con scrupolo e senza finzioni cominciando con il cercare le parole giuste. L’hanno chiamata “civil war”: guerra civile. Non hanno cercato definizioni auliche. Non ci sono i Risorgimenti e nemmeno le Liberazioni, le Resistenze e le Lotte di Popolo. Semplicemente guerra civile con una parte dei cittadini (con alcune ragioni e alcuni torti) che si sono scontrati con altri (che avevano opposte ragioni e opposti torti). In breve le biblioteche si sono riempite di libri e pubblicazioni che hanno descritto tutto quello che era successo con il risultato di costruire una storia condivisa. Ciò che manca all’Italia, dove di Risorgimenti ce ne sono almeno due: di chi ha vinto e di chi ha perso. Di storia del fascismo ne esistono almeno due: chi lo apprezza e chi lo odia. Di guerra mondiale se ne raccontano due versioni: di chi dice di aver voluto mantenere fedeltà al giuramento e di chi dice che era doveroso strapparlo per il bene del Paese.
Negli Stati Uniti, il film “Via col vento” (e il libro) dà conto di scontri accaniti fra la popolazione dove può riconoscersi l’esercito della Federazione, ma quello della Confederazione non appare ignobile né desteabile.
In Italia – a forza di anteporre le ragioni politiche dell’’ideologia su quelle dei documenti – l’immagine che si può proporre è quella del “Gattopardo”. Quella massima secondo la quale “tutto deve cambiare perché rimanga uguale a prima” è lo specchio di un Paese che sembrerebbe aver rinunciato all’onestà intellettuale per scegliere la via dell’opportunità.
(1- continua)
Fonte: srs di Lorenzo del Bocca, da la Padania di martedì 15 settembre 2009, pag.12-13