RISORGIMENTO. L’ALTRA VERITA’
Il sovrano non era all’altezza di governare, ma amava donne, caccia e affari: voleva comprarsi persino Venezia…
Dopo la disfatta di Novara, gli misero in bocca una frase che, molto probabilmente non aveva mai pronunciato perché non era in grado di pensarla; «I Savoia conoscono la via dell’esilio, non quella del disonore».
Vittorio Emanuele II esordì in condizioni assai complicate, a Vignale, in una cascina appena abitabile, a un tiro di schioppo dal campo della battaglia di Novara. La sconfitta del suo esercito era stata definitiva e irrimediabile. Carlo Alberto – persino coraggiosamente – aveva abdicato e gli aveva lasciato il peso del trono con le responsabilità che comportava. Il suo futuro e, per la verità, anche quello del suo Stato e della sua gente, era punteggiato da troppi interrogativi che lui non poteva sciogliere perché non dipendevano da lui. Il destino dei Savoia era – ovviamente – nelle mani di chi aveva vinto espugnando il nemico. Vittorio Emanuele II incontrò il generale vincitore Radetzky.
I libri che si studiano a scuola lasciano intendere che si trattò di uno scontro fra titani. Da una parte un vecchio reazionario, intenzionato ad approfIttare del successo e, quindi, a punire quell’insignificante Piemonte, cancellandolo dalla carta geografica e dall’elenco dei diritti. Dall’altra, un re di fresca nomina, giovane per età e per esperienza ma risoluto nel rispettare i principi della libertà e della Costituzione, non importa quali fossero i costi da pagare. Gli misero in bocca una frase che, molto probabilmente, non pronunciò mai, soprattutto perchè non era in grado di pensarla: «I Savoia conoscono la via dell’esilio, non quella del disonore».
LA MISTIFICAZIONE DELL’ ARMISTIZIO
Dissero che fu lui a salvare l’indipendenza di Torino. In realtà, non fu necessario impegnarsi più di tanto e quando si conobbero le relazioni dei testimoni austriaci – che erano tanti – conservate negli archivi di Vienna, si comprese tutta la mistificazione costruita attorno a quell’episodio.
Quel vecchio generale era ben disposto verso il rampollo sabaudo: era stato il suo testimone di nozze, giusto pochi mesi prima dell’inizio del conflitto del 1848, e sapeva che; con il matrimonio, era diventato parente con gli Asburgo. Almeno per metà lo considerava di famiglia: un po’ discolo, se vogliamo, ma più per colpa del padre che per inclinazione naturale.
Per il monarca sabaudo i democratici non erano altro che «avvocatacci, canaglie e sovversivi» e lui si sarebbe preoccupato di sistemarli: «Si piomba su quella canaglia e la si schiaccia come le mosche»
Quanto al Piemonte, la politica suggeriva di non infierire. All’Austria non faceva paura quel minuscolo staterello, senza difese e senza economia, che sembrava incastrato fra i contrafforti delle Alpi, con dei sovrani scesi dalle giogaie della Savoia, lontani dal comprendere persino le proprie debolezze. Vienna aveva paura della Francia che, al contrario, era uno stato con una forza militare rilevante, aggressivo e ispirato da motivazioni strategiche che lo portavano a porsi in condizioni di rivalità per conquistare una leadership europea alla quale aspirava. Gli austriaci erano convinti che un cuscinetto, messo in mezzo fra loro e quel potenziale nemico, sarebbe stato tatticamente utile. Perciò, invece di entrare a Torino trascinando per un orecchio il giovane re, come avrebbe potuto fare, Radetzky gli strinse la mano, gli raccomandò di mettere giudizio e lo mandò a casa.
Negli archivi dello Stato Maggiore di Vienna è conservata una lettera scritta da Radetzky al generale Felix von Schwarzemberg nella quale il vecchio comandante riferì che il Savòia «dichiarò fermamente di aver la più solida intenzione di mettere a terra il partito democratico al quale suo padre, negli ultimi tempi, aveva dato tanta mano libera da fame un pericolo per se e per il trono». Per Vittorio Emanuele II, i democratici non erano altro che – avvocatacci, canaglie e sovversivi» e lui si sarebbe preoccupato di sistemarli a dovere.
Anche più tardi, in occasioni diverse (con l’ambasciatore inglese Ralph Abercombye con quello austriaco Rudolf Apponyi, per esempio) si espresse con sicumera: «Si piomba su quella canaglia e la si schiaccia come le mosche». Non gli piacevano proprio: «Li farei impiccare tutti». E ancora: «Con un paio di reggimenti mi incarico io di ridurre alla ragione quella marmaglia».
In coerenza con le promesse fatte agli austriaci, il re si presentò alle Camere e pronunciò il giuramento di fedeltà. Poi sciolse il Parlamento, indisse nuove elezioni e, poiché il risultato non gli piacque, le fece rifare, con esito, questa volta, più convincente per le sue idee. I democratici che gli davano tanto fastidio erano rimasti proprio in pochi da non potergli creare fastidio. Certo, perché il risultato gli fosse di gradimento fu necessario guidare la mano dei cittadini che andavano alle urne. «Giel’abbiamo cantata chiara e a vari chiarissima: li abbiamo destituiti». Parola di Massimo d’Azeglio, presidente del Consiglio. «Ogni giorno chiedo la testa di qualcuno. Nel mio ministero dove comando io, ne ho destituiti tre in un giorno».
Però quelli che restarono si dimostrarono fedeli: votarono bene e si impegnarono perché votassero bene anche gli amici e gli amici degli amici.
IL MASSACRO DI GENOVA
Nel frattempo Genova, per antichi umori repubblicani e municipalisti, si sollevò contro la monarchia. Il pretesto era il desiderio – sconclusionato quanto velleitario – di continuare a combattere contro l’Austria chiamando alle armi i volontari di mezzo mondo. Nei tafferugli, due ufficiali piemontesi vennero uccisi e il furore della piazza costrinse la guarnigione ad abbandonare la città. Vittorio Emauele II mandò il giovane Alfonso La Marmora con l’incarico «di tranquillizzare gli animi», «persuadere» della sincerità del Governo e «distruggere le calunniose insinuazioni sparse contro il re». Il militare fece il militare e, incapace per mentalità di tranquillizzare e persuadere, si limitò a distruggere. Fece piazzare i cannoni intorno a Genova e il 10 aprile 1849 ordinò di bombardare senza riguardo le piazze dove si raccoglievano gli insorti. Non andarono per il sottile; fu raso al suolo anche l’ospedale Pammattone e, sotto le macerie, restarono 200 ammalati che erano stati ricoverati per guarire. Dopo tre giorni di pioggia di fuoco la città era pacificata al prezzo di 500 morti.
Non basta. I bersaglieri entrarono in città a passo di carica e per altre 36 ore la saccheggiarono, approfittando di tutto quello che trovarono a portata di mano, comprese le ragazze di alcune famiglie definite “onorate”. L’ex prete e mazziniano Giorgio Asproni annotò nel suo “Diario politico” la confidenza raccolta dal ministro Vincenzo Ricci il quale aveva contestato al generale la brutalità gratuita della repressione, infangata da atti di libidine riprovevole. L’ufficiale si difese argomentando che «i soldati erano dei bei giovanotti e, in quelle violenze, le dame avevano anche provato piacere». Il commento fu che: «Auguravano al signor generale fortuna e piacere uguale anche alla sua moglie e alle sue figlie».
Hanno calcolato che l’assalto di La Marmora costò 721.237 lire e 87 centesimi che, al valore di oggi, fanno una sessantina di milioni di euro. La Marmora tornò a Torino come se avesse vinto una guerra, fu elogiato, premiato in pubblico per aver zittito «quella vile e infetta razza di canaglie e si trovò la giubba carica di medaglie e onorificenze che non si vergognava, nemmeno di mostrare in pubblico».
Questi super-ufficiali dei piani alti, incerti davanti al nemico, tremebondi al primo incrociare di baionette, più avvezzi alle ritirate – meglio se di corsa – che alla resistenza in difesa, si scoprirono ardimentosi solo contro cittadini in doppiopetto. Divorati dal dubbio sui campi di battaglia veri, davanti a nemici armati come loro, diventavano leoni se si trovavano alle prese con studenti e operai che brandivano volantini e manifesti.
Vale per La Marmora, in questa circostanza, ma va bene anche per Cialdini, funambolo della spada, in fuga disordinata a Custoza ma intransigente intorno a Gaeta e spietato contro i napoletani che considerava “briganti”. Vale per Persano e per i quadri dirigenti dell’esercito, quasi senza eccezioni, fino alla seconda guerra mondiale compresa.
Certo, il primo della classe resta Bava Beccaris che ottenne la massima onorificenza dei Savoia per aver sterminato gli operai disoccupati che, a Milano, urlavano slogan per chiedere pane e lavoro. Anche per lui una via discretamente illuminata che attraversa una porzione del centro di Torino.
QUEI DOCUMENTI “TAROCCATI”
Per troppo tempo, Vittorio Emanuele Il è stato, quasi, oggetto di culto. I documenti d’archivio, il più delle volte “taroccati”, lo dipingono come il “galantuomo” Padre della Patria. Ma sarebbe il tempo rivedere quelle pagine di storia, andando contro corrente. La lente d’ingrandimento dei nostri giorni, sovrapposta con qualche irriverenza sul mito del futuro re d’Italia, lo mostra appena nato, la notte fra il 13 e il 14 marzo 1820. Parto difficile e contesto noir. Nella camera della puerpera entrarono frati cappuccini in gramaglie, inalberando crocefissi, disperdendo incenso e intonando orazioni funebri. Era arrivato loro il messaggio di un inesistente conte di Noldberg che annunciava la morte della principessa durante il travaglio e li chiamava urgentemente per benedire la salma.
Per il battesimo non si badò al risparmio: Vittorio Emanuele, Maria, Alberto, Eugenio, Ferdinando, Tommaso. Sembrano tanti ma è uno solo. Ammesso che fosse lui e non il figlio di un macellaio. Massimo d’Azeglio che, quando non era vittima del suo cattivo umore, fulminava chi gli capitava sotto tiro con pettegolezzi micidiali, aveva messo in giro la voce che il vero principe era morto nel corso di un incendio a Firenze. Per non restare senza erede, la famiglia reale era ricorsa al sotterfugio di sostituire il neonato e non trovò niente di meglio che il figlio di un certo Tanaca che, di mestiere, ammazzava maiali, li affettava e ne vendeva la carne. Un macellaio, per l’appunto.
La vicenda è stata valutata poco più che un aneddoto da tutti gli storici che, abbastanza concordemente, sembravano poco disponibili ad attribuirgli un qualche elemento di credibilità. Anche se il lavoro di Silvio Bertoldi rimette tutto in discussione e, a leggere le sue pagine si sarebbe piuttosto incoraggiati a ritenere che la versione più romanzata abbia qualche elemento per essere ritenuta verosimile. Si può risalire alla dinamica dell’incidente soltanto dalla prosa sgrammaticata del caporale delle guardie Galuzzo che, al di là dei suoi problemi con l’italiano, sembrerebbe indaffarato a mascherare ciò che è successo piuttosto che descriverlo. Non è comprensibile come il fuoco abbia ustionato la governante così gravemente da ucciderla, lasciando il piccolo praticamente illeso. Il carattere di Vittorto Emanuele II e i tratti fisici restano lontani mille miglia da quelli dei genitori: come se non fosse stato nemmeno parente ne di Carlo Alberto ne di Maria Teresa. Se avevano potuto affastellarsi tanti sospetti era perché ne esistevano i motivi. Vittorto Emanuele II aveva la faccia del beccaio e i modi che usava – in pubblico e in privato – non erano in contraddizione con l’espressione del suo viso.
EDUCAZIONE SOLO FORMALE
Insieme a Ferdinando Maria, Umberto, Amedeo, Filiberto, Vincenzo (che sembrano tanti anche se si tratta soltanto del fratello di due anni più giovane) venne affidato a un gruppo di precettori parrucconi, mediocri in tutto ma rigidi nel pretendere rispetto dissennato per le formalità. Il cavalier Cesare di Saluzzo, Gerbaix de Sonnaz è Giuseppe Saint Just, ovviamente cavalieri pure loro; il teologo Charvaz, padre Lorenzo Isnardi e l’istruttore Giuseppe Manno facevano parte di quella aristocrazia sardo-piemontese che mostrava il tono rude e imperioso senza per questo apparire autorevole. Tutti quei precettori erano uomini antiquati, scelti soltanto in base allo zelo per la corona, vecchi d’età e di idee, consumati dai cattivi pensieri, intrisi d’inutile etichetta. Erano inflessibili sull’orario: sveglia alla 5 e mezza, colazione sobria alla quale seguivano una quindicina di ore inconcludenti. Per cavarci qualche insegnamento utile, in quel clima e con quel corpo docenti, ci voleva l’intelligenza di un premio Nobel. Figurarsi Vittorio Emanuele che considerava la conoscenza una perdita di tempo. Le sue erano inclinazioni primitive, quasi animalesche. Gli piacevano i cavalli e le galoppate, la caccia e le corse nei boschi, la sciabola e i duelli all’arma bianca. I libri lo innervosivano e i compiti lo mettevano di cattivo umore per cui, per evitare di farsi sangue cattivo, dovette spesso trascurarli. Controprova? Gli errori di grammatica e di sintassi che infiocchettavano la sua prosa scritta e parlata.
Le malelingue della servitù cominciarono a darsi di gomito sussurrando che fosse tardo di cervello. Silvano Costa corse subito ai ripari dichiarando: «Ha occhi ben sfrontati, un bel nasino all’insù e una bocca graziosa».
La madre, in alcune lettere indirizzate al padre Ferdinando II di Toscana, ricordò che, da piccino, si divertiva un mondo con un fucile di legno che gli era stato regalato dal nonno. Più tardi, con più affettuoso pessimismo: «lo non so proprio da dove sia uscito codesto ragazzo, non assomiglia a nessuno dei due e si direbbe arrivato per farci disperare tutti quanti».
Quanto a suo padre, Carlo Alberto, già in preda alle crisi sessuali e mistiche, ridusse al minimo i contatti umani con Vittorio Emanuele, limitandosi a parlargli per iscritto con la presunzione di un sovrano e l’inefficacia di un parente distratto.
Un giorno gli chiese di rispondere alla domanda se un nobile può occuparsi di commercio di cavalli. E quell’altro lavorò una settimana, sudando sulla carta da lettera e rompendo quattro matite, per rispondere che «no…non sarebbe regale…» Altre volte questo papà, alto e distante, gli mandò i suoi pensieri perché meditasse su quelle sue intuizioni elementari e su quei consigli davvero curiosi. Per esempio, sottolineò con due tratti di penna la massima cui doveva attribuire grande importanza: cioè che in caso di rivoluzione, un re doveva restare padrone degli avvenimenti. Come consigliare a un malato a rischio di infarto di tenere sotto controllo i battiti cardiaci.
Non c’era da divertirsi a palazzo. L’unico diversivo era il biliardo ma, poiché era assolutamente vietato giocare con poste in denaro, Vittorio Emanuele e gli amici di turno scommettevano fagiani. Una notte il principe perse 80mila fagiani in una volta sola: 400mila lire virtuali.
UN CASANOVA SENZA SENSIBILITÀ
Finalmente arrivarono i 18 anni e Vittorio Emanuele, nel castello di Moncalieri, riuscì a convincere una cameriera «fresca e giovane» a fare l’amore con lui. Poi non si riuscì più, a tenere il conto delle sue avventure galanti. I suoi istruttori che, intellettualmente, gli attribuivano le capacità di un somaro, avevano avvertito il problema che il principe era di sangue caldo: brouillement de sang. Altro che la grammatica e la sintassi: lui, in testa, aveva solo quella cosa li.
Si sposò con Maria Adelaide, figlia dell’arciduca Ranieri, vicerè del Lombardo-Veneto e onorò le lenzuola coniugali con una vigoria quotidiana e la passione che si riserva all’amore spensierato. Ma per il resto del tempo, faceva vita da scapolo. A corte gli svaghi erano rari e l’unico divertimento era quell’andirivieni di ragazzette che, confidenzialmente, venivano chiamate «le graziose emigranti».
I suoi piaceri risultavano rapidi e senza impegno, disordinati, senza finezze ne fantasia. Un egoista dell’amore, come se si trattasse di onorare una specie di obbligo e di sbrigare una formalità senza sottilizzare troppo. Un esercizio più sportivo che lussurioso. Alle signore dell’alta società, eleganti e raffinate ma, certo, svenevoli e, in qualche caso, pretenziose, preferiva le contadinotte ardite e le popolane compiacenti. I letti a baldacchino li sostituiva volentieri con la paglia dei fienili.
Gli piacevano “pienotte”, robuste, instancabili, grosse, grasse, vistose. Il suo ideale era Rosa Vercellana, “la bella Rosina”, che di fatto restò la sua compagna per vent’anni. «Giunonica, forte e prosperosa le cui forme, a stento contenute negli abiti, davano l’impressione di essere sul punto di fuoriuscire». Seni enormi, fianchi generosi, cosce smisurate e, sul didietro, «un’appendice carnosa, sporgente come un
mappamondo». La Rosina diventata la favorita di palazzo, cominciò a rendere vistosi anche gli abiti e a caricarsi di gioielli da sembrare un lampadario semovente.
Per Vittorio Emanuele l’amore si risolse in una sequela di passioni diverse che gli resero varia la vita. Un gioco. Bastava che fosse giovane e belloccia e non facesse troppo la ritrosa. Nella sua alcova non abitano immagini erotiche, sofisticate o intellettuali: e tutto straordinariamente uguale, ripetitivo e persino banale.
Qualche volta accadevano degli inconvenienti. Una sera, il gagliardo sciupafemmine entrò nella casa di una giovanetta passando per la finestra. Quando usci fu assalito da tre individui (probabilmente parenti della ragazza) e dovette combattere duramente a colpi di bastone. Alla fine della rissa, uno degli aggressori, rimase a terra morto. Omicidio: preterintenzionale finche si vuole ma – allora come oggi – da giudicare in Corte d’Assise. Invece la casa Reale indennizzò adeguatamente la vittima e La Gazzetta d’Italia si preoccupò di pubblicare una nota, a tutta prima incomprensibile, nella sostanza sfrontata «Il re ama le donne. Noi non lo sappiamo ma se il re ama le donne, se non può che essere accusato d’aver troppo amato, saremo noi, il popolo innamorato per eccellenza, che crederemo grave una simile accusa?»
SI OCCUPAVA SOLO DEI SUOI AFFARI
Quando non si infilava a letto di qualcuna, il principale impegno di Vittorio Emanuele II consisteva nel preoccuparsi degli affari suoi, disinteressandosi di quelli del Governo. I sudditi – ovviamente! – avevano la libertà di pagare le tasse che le ricorrenti “finanziarie” dell’epoca imponevano loro, in modo che lui avesse qualche opportunità in più per rovistare nell’erario e prelevare quanto gli serviva. La lista civile a sua disposizione – cioè l’insieme dei beni economici – era la più alta fra i paesi del mondo conosciuto e, facendo un rapporto con il potere d’acquisto, mai eguagliata in nessun tempo. Gli zar costavano meno, costa meno la regina d’Inghilterra e le spese della Casa Bianca sono più modeste. Nel 1867 il suo appannaggio raggiunse la cifra di 16 milioni, pari al 2 per cento del bilancio dello Stato.
Vittorio Emanuele aveva mantenuto tutti i palazzi di casa Savoia ma, rastrellando regioni e cacciando i sovrani che le governavano, acquisì le proprietà di quelle dinastie e le tenne tutte per se. Alla fine i suoi immobili, comprese le tenute di caccia, erano 343. Consumava somme favolose per cani, cavalli e favorite di ogni genere e grado e i loro parenti. Se tutto ciò fosse compatibile con le risorse del Paese era questione lontanissima dalle sue preoccupazioni e, purtroppo, analoga spensieratezza apparteneva all’elite al potere. Il regno d’Italia spendeva più del doppio di quanto avevano speso, complessivamente, i vari Stati pre-unitari messi insieme.
Le zone conquistate erano spremute dai tributi e le uscite superavano di un terzo le entrate. Il Paese era sull’orlo della bancarotta. Impossibile finanziare lo sviluppo, come sarebbe stato logico, riequilibrare lo stile di vita delle varie regioni, come era stato promesso e assicurare all’Italia – tutta l’Italia – un futuro di tranquillità, conie sarebbe stato doveroso.
Importava al re galantuomo? La corruzione era di casa a palazzo. Famigli e loschi personaggi si presentavano al re immaginando disinvolte speculazioni e “affari”
troppo simili a rapine di stato. Correvano tangenti se si dovevano costruire i tratti ferroviari. Ci volevano soldi per privatizzare (prima) e ricomprarsi (poi) il diritto di monopolio sui tabacchi. Una spesa aggiuntiva doveva essere prevista per ogni opera pubblica che veniva data in appalto. Quando dici “Tangentopoli” pensi che sia un’inchiesta della magistratura degli anni Novanta e sei portato a credere che il marcio sia nato allora o poco prima. La storia dimostra che le pianta del malaffare è alta e larga con radici che affondano nell’Ottocento dell’ Unità d’Italia.
Il parlamento dovette avviare almeno quattro inchieste politiche per chiarire voci insistenti di “peculato” che riguardavano gli altissimi vertici del Governo. Ogni volta si trovava una pista che portava direttamente al re. Letizia Rattazzi, amante del re che il re dirottò a sposare il suo presidente del Consiglio, con una punta di malizia, probabilmente senza prove documentali ma mettendo nero su bianco, scrisse che Vittorio Emanuele II «percepiva alcuni milioni l’anno dagli stanziamenti per l’esercito» e – stessa fonte – che nel 1968 la cifra che intascò «raggiunse i 20 milioni».
LA CASTIGLIONE SENZA VELI
Dopo la sua morte, il 9 gennaio 1878, nel suo studio, venne trovato, uno scrigno invisibile perché ben mascherato e ignorato da tutti. Dentro, insieme a una gigantografia della contessa di Castiglione nuda, venne trovata una valigetta con 20 milioni di lire in biglietti- nuovi di banca. Erano le “spese riservatissime” del sovrano che gli potevano consentire di acquistare un paio di quartieri “bene” di Roma: case, negozi e ; la gente che li abitava. La foto pornografica venne bruciata personalmente dal figlio Umberto I: i soldi, invece, non li bruciò.
I finanzieri di dubbia fama, gli affaristi senza scrupoli, i brasseur d’affaire e i trafficanti di ogni genere erano di casa a palazzo reale.
Sua figlia illegittima, Vittoria, si sposò con il marchese Giovanni Spinola, colonnello di cavalleria e blasone genovese, arrivando all’altare con alcuni carri di vestiti, una collezione di gioielli il cui valore fu stimato prossimo alle 300mila lire, mezzo milione di dote e altre 200mila per la liquidazione dei diritti di proprietà individuali con il resto della famiglia. Un contadino campava con dieci soldi la settimana.
L’altro figlio illegittimo, Emanuele Alberto, cominciò col pensare alla carriera militare. Il battesimo del fuoco avvenne a Custoza, nel 1866 e il suo comandante, cori piaggeria disgustosa, lo citò nell’ordine del giorno:
«Il predetto caporale Mirafiori Guerrieri riunisce autorevolezza e attitudini non comuni per diventare in breve un intelligente e ardito ufficiale».
Naturalmente il giovane ottenne la promozione a sottotenente e avrebbe scavalcato di corsa di gradi dell’esercito, raggiungendo rapidamente il livello degli inetti che hanno messo l’Italia nella condizione di perdere tutte le guerre. Però, essendo di costumi discutibili, si cacciò nei guai e dovette lasciare la divisa. Un ignorante in meno nei ranghi, ma un trafficone in più per uffici pubblici. Si occupò di amministrare il proprio patrimonio che – bontà del re – cresceva a dismisura. Arrivava ad accendersi il sigaro con un biglietto da cento lire. Quando si sposò con Blanche Enrichetta de Lardarel il papà re non gli fece il torto di trattarlo peggio della sorella. Ebbe un capitale fruttifero di 110mila lire, la tenuta di Mirafiori valutata 300mila lire e palazzo Poniatowsky, a Firenze, acquistato per 550mila lire. Basta? Il palazzo andava ristrutturato e Vittorio Emanuele pagò con i soldi della cassa d’Italia anche se, assalito da un sussulto di resipiscenza, un giorno, scrisse al figlio. «Ricordò che gli era stata assegnata una somma di 35mila lire per aggiustare la scuderia e il piano terra. Ora – commentò – sento che 50mila lire sono già state spese in aggiustamenti e che 70mila lire sono finite nella scuderia. Ciò fa pessima impressione perché dicono che io rubo i denari della nazione per darli a te».
I torinesi, gente schietta, avevano capito tutto. «Monsù Savoia pija gust a la canaja»: vedevano e capivano che le compagnie che frequentava erano fatte di furfanti.
Si era organizzato un servizio segreto, ritagliato sul suo personaggio. Doveva essere la cosa più riservata ma, in realtà, tutti ne erano a conoscenza. Scriveva l’ambasciatore Hudson: «Sono spie, uomini e donne della peggior risma che si limitano a spillargli denaro e dirgli quanto basta per eccitare la sua curiosità e servire i loro scopi». Voleva comprare Venezia per due miliardi (che non aveva). Immaginava di corrompere alcuni prelati del Vaticano perché gli aprissero le porte di Roma. Credeva possibile sobillare un’insurrezione in Grecia per farsi acclamare re anche da quelle popolazioni.
Al colmo del delirio di onnipotenza, chiese agli imperatori d’Austria e di Germania “mano libera” per “risolvere” la questione d’Oriente. Secondo lui quel groviglio di popoli e di etnie che aveva fato dannare il mondo per 500 armi era una questione elementare. Bastava “cacciare il sultano di Turchia” e sistemarlo “in qualche regione dell’Asia” dopo di che lui, Vittorio Emanuele avrebbe consentito alle nazioni di “papparsi” tutto quello che volevano, consentendo al Piemonte-Italia di tenersi qualche cosina.
I partner di questa strampalata iniziativa temporeggiarono e il re di Torino si spazientiva al punto da immaginare un’operazione tutta sua. Con qualche variante. Si trattava, a questo punto, di finanziare i mazziniani che volevano la rivoluzione in Transilvania e in Galizia. Gli austriaci avrebbero dovuto accorrere per domare le rivolte di piazza dando la possibilità a Vittoo Emanuele II di entrare in guerra e sbaragliare le fragili difese rimaste. I mazziniani, al momento di entrare in azione, furono catturati e rivelarono tutto lasciando allo scoperto tutta la diplomazia piemontese.
DUE PISTOLE SULLA SCRIVANIA
Lord Clarendon considerò che la corona d’Italia era a rischio con quel sovrano «ignorante, bugiardo, intrigante che nessuno può servire senza danno per la propria reputazione». Vittorio Emanuele aveva sentore che sparlassero di lui ma se ne fregava: Continuava ad andare in giro con le sue giacche di fustagno – sformate come le sue idee – dalle tasche delle quali usciva ogni genere di oggetti che gli potevano servire. Gli piacevano i toscani di trinciato forte ma, prima di fumarli li lasciava qualche giorno a macerare nel cognac perché prendessero più sapore. Al mattino, appena alzato, si scolava un bicchierone d’acqua ghiacciata. E quando aveva mal di testa – cosa che gli capitava soprattutto se doveva impegnarsi a leggere qualche cosa – prendeva alcune pillole che i veterinari prescrivevano ai suoi cavalli.
Sulla scrivania teneva un paio di sciabole, cartucce, bandoliere e due pistole cariche. Se si sentiva nervoso, sparava una rivoltellata e – secondo l’estro e la casualità del momento – abbatteva uno stucco piuttosto che un infisso o la cornice della porta.
Tutti pensavano che il Paese fosse nelle mani di una congrega di imbroglioni. «A giudizio di noi ambasciatori – è il testo di un’altra nota diplomatica inviata a Londra – è un governo di nullità. Il più debole di tutti è il ministro degli esteri conte Campello. La sua intelligenza è così limitata e appare così ignaro dei problemi del suo dicastero che tentare di avere una conversazione con lui equivale a perdere tempo». L’Italia stava prendendo corpo.
(4 – Continua)
Fonte: Fonte: srs di Lorenzo del Bocca; da La Padania di sabato 26 settembre 2009, pag. 11- 12 – 13 – 14.