Nella Seconda guerra d’indipendenza il Piemonte e i Savoia fecero da comparse. Avevano assicurato – Vittorio Emanuele II, Cavour e i comandanti dello Stato Maggiore – che sarebbero scesi in campo con un contingente di 150mila uomini ma, a stento, riuscirono a metterne insieme 50mila. Metà dei coscritti chiamati alle armi, utilizzando qualche pretesto a portata di mano, non rispose all’appello ed evitò di indossare la divisa. I volontari – che si attendevano a centinaia di migliaia – non si videro affatto. Forse non fu nemmeno un male perché i reparti, nonostante fossero più che dimezzati rispetto alle aspettative, non furono in grado di assicurare a tutti una giubba, un fucile e qualche munizione. Chi restava disarmato veniva inquadrato nelle retrovie e, avanzando al seguito delle prime linee, doveva preoccuparsi di recuperare l’attrezzatura abbandonata da qualche compagno rimasto ucciso o ferito grave.
IL RE “FINTO” CONDOTTIERO
Il re voleva fare la sua parte e, considerandosi un grande condottiero, pretendeva di assumere la direzione della guerra. Per non correre il rischio di essere contraddetto, scelse come aiutante di campo il super – fidato – Morozzo della Rocca che tutto avrebbe potuto fare (compreso sistemare la Rosina, amante di Vittorio Emanuele, al seguito delle truppe) ma non discutere per smentire sua maestà.
Il conte di Cavour, al contrario, non aveva fiducia nelle capacità belliche del suo sovrano e, per controllarlo, pretese che il generale La Marmora occupasse il ruolo di capo di Stato Maggiore. Il risultato fu che i due ufficiali, ritenendosi più alti in grado (e con protezioni maggiori), fecero la guerra ognuno per proprio conto, evitando il più delle volte di rivolgersi la parola. Fra tutti, ignorarono completamente le esigenze del Governo che non informarono affatto dell’andamento delle operazioni. Cavour veniva a conoscenza di che cosa stesse accadendo ai fronte leggendo i giornali francesi che gli arrivavano da Parigi.