Ott 16 2009

Giuseppe Garibaldi, rozzo e senza principi saldi, esordì come …schiavista

Category: Italia storia e dintornigiorgio @ 13:05

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RISORGIMENTO.   L’ALTRA VERITA’

Pronto a predare donne di tutte le età e condizioni sociali – fino al punto di macchiarsi dell’assassinio del marito di Anita – il “condottiero Nizzardo” si lasciò sempre trascinare non da una ideologia politica coerente, ma dal senso di avventura che lo portò a incappare  in iniziative dall’esito disastroso

Giuseppe Garibaldi?  Rubava i cavalli e quando lo catturarono,  in Sud America,  gli tagliarono un orecchio, secondo il codice gaucho che puniva con la legge del taglione chi toccava gli animali degli altri.  Dovette farsi crescere i capelli e lasciarli cadere sulla guancia per nascondere il padiglione che gli mancava.

Fra i tanti mestieri che praticò saltuariamente, fra un’avventura e l’altra, accettò di fare lo schiavista. Riempiva la stiva della nave di cinesi che dovevano lavorare il “guano”  destinato a essere utilizzato come fertilizzante.   Si segnalò come comandante di buon cuore, rispetto ai colleghi che trattavano quella povera gente peggio delle bestie: i suoi schiavi arrivavano “in buona salute” e persino “grassottelli”.

UCCIDE IL MARITO DELLA BELLA ANITA

E per conquistarsi l’amore  di   Anita non andò per il sottile:  ammazzo  direttamente il marito che gli intralciava la strada. Un giorno, a bordo della nave “Rio Pardo” vide, con il cannocchiale, il viso della donna destinata a condividere fino alla morte  (sulla spiaggia di Ravenna) la sua vita di guerrigliero.  Lo confessò lui stesso, con toni involontariamente trucidi,  raccontando la storia del  suo innamoramento che compare nell’Edizione nazionali  degli scritti di Garibaldi.  «Io non avea mai  pensato al matrimonio».  E, tuttavia, la mancanza di un legame solido e formale non significava  rinunciare alla soddisfazione dei sensi. Anzi: «Avea bisogno di chi mi amasse…e subito!».  Bastava guardarsi in giro. «Con quel pensiero, dall’alto del cassero, io volgea lo sguardo a terra. Scorgea donne occupate in domestici trattenimenti ma una giovane mi attraeva  sopra le altre. Ordinai perciò che mi sbarcassero e mi avviai verso quella casa con una di quelle soluzioni che non falliscono».

II marito  della prescelta? Alcuni sostennero che quell’uomo,  Manuel  Duarte, un calzolaio, si era arruolato nell’esercito dei reazionari.  Lontano dalla famiglia e al servizio di un’ideologia meschina, non poteva che attendersi di perdere la moglie.  Altri, tuttavia, rettificarono:  combatteva, sì, ma con i garibaldini con i quali venne ferito e, in quei giorni, stava in un letto d’ospedale  per farsi curare una ferita abbastanza seria.  In questo caso l’artigiano non avrebbe avuto colpe “morali”: sarebbe stato, piuttosto, l’amore a cambiare le carte del destino.   In  realtà, a leggere la prosa dello stesso Generalissimo, si comprende che non sono vere né l’una né l’altra versione.   «Un uomo – scrisse, infatti, l’eroe – mi invitò a entrare. Sarei entrato senza invito».  Manuel Duarte stava sull’uscio di casa sua, intento a riparare suole di scarpe. «Vidi la giovane! Tu sarai mia!».   Quel poveraccio di marito protestò?  Tentò di reagire?  Cercò di affrontare il rivale?  Un giorno non lo  videro più in paese e le ricerche non dettero esito: scomparso.

Anita seguì Garibaldi sul battello e vissero come marito e moglie.  Con qualche rimorso postumo, il Generalissimo ammise: «Se vi fu colpa, io l’ebbi intera e vi fu colpa». Più  esplicitamente:  «Si riannodarono due vite ma s’infrangea quella di un innocente».

Anche Giuseppe Garibaldi, abituati come siamo a vederlo seduto su un cavallo di bronzo, con la spada sguainata, lo sguardo dritto e il portamento fiero, ha goduto delle attenzioni favorevoli di agiografi (prima) e storici (poi) che hanno accettato acriticamente il mito del condottiero in  camicia rossa.  In realtà, anche lui andrebbe studiato con maggiore puntualità, evidenziando il coraggio che, certo, non gli mancava ma senza nascondere magagne e porcherie che, pure, l’hanno  accompagnato e di  cui è stato protagonista.  Più che l’eroe “dei due mondi” sarebbe più corretto discuterne come e l’eroe “dai due volti”.

UN BABBEO, SENZA ATTENUANTI

Un babbeo”, senza attenuanti.  Maxime du Camp, scrittore francese e camicia rossa di complemento,  quindi con pregiudizi assolutamente favorevoli, non riconobbe a Garibaldi alcuna intelligenza politica.  Lui che, pure, avrebbe dovuto essere incline ai complimenti più risoluti, stroncò l’eroe di entrambi i mondi.  Attribuendogli «spirito miope e ingenuo, incapace di illuminazione e di prospettiva». Ancora: «Provava un certo vigore davanti all’ostacolo solo perché poteva investirlo come un cinghiale arrabbiato».

L’unico valore che mantenne costante fu l’avversione alla Chiesa:  definiva il Papa «un metro cubo di letame»

Giuseppe Mazzini, in una lettera a Giacomo Daniele,  non ebbe esitazione  a sostenere che  «Garibaldi, quanto a coerenza di idee, è una vera canna al vento».  Con l’eccezione di considerare il Papa «un metro cubo di letame»,  si faceva convincere abbastanza in fretta e abbastanza in fretta diventava risoluto  sostenitore di quanto aveva avversato poco prima.

Denis Mack Smith lo considerò «rozzo e incolto».  E Indro Montanelli,  a più riprese, anche se con accenni inequivocabilmente comprensivi,  lo considerò  «Un onesto pasticcione».  Tuttavia, a nessuno passò mai per la testa di considerarlo un disonesto.  Per lui i soldi non contavano perchè non aveva il tempo per pensarci.  Quest’uomo, con convinzioni ideologiche traballanti,  con un carattere ispido come i suoi capelli,  con i reumatismi,  l’artrite cervica1e, la tosse e gli sputacchi di catarro, fu la vera stella  del  Risorgimento.  A furore di popolo.

L’AVVERSIONE DI CAVOUR

Mack  Smith spiegò che questa sua enorme credibilità rese possibile l’idea stessa del Risorgimento.  «Il principale merito di Garibaldi  fu quello di convincere gli stati stranieri e molti italiani che il movimento unitario non era un mero strumento di conquiste territoriali dei Savoia.  Persino Cavour, suo irriducibile avversario, convenne che questo era stato un grande risultato che nessun altro avrebbe potuto ottenere».   Come capitò raramente, fu  circondato fin dall’ inizio da un alone di leggenda,  capace di  amplificare ogni azione e di inventarne anche qualcuna.

Tracagnotto, con le  gambe corte  veniva descritto come un gigante «alto otto piedi».  E si giurava che,  dopo ogni combattimento, si scuoteva la giubba per far cadere le decine di palle di fucile,  che l’avevano colpito senza ferirlo. Invincibile perché invulnerabile.

In un secolo come l’ Ottocento  con i mezzi di comunicazione che appena riuscivano a balbettare, privi di veloci strumenti di trasmissione,  Garibaldi fu il protagonista di cronache epiche.  Il  personaggio era un tipo del tutto eccezionale, anticonformista,  sia che si fosse trattato di idee politiche o di  religione, di abitudini personali o di abbigliamento.  Per qualche anno si vendettero le camicie  “alla Garibaldi”,  i mantelli  “alla Garibaldi”, il cappellino “alla Garibaldi”.   Ovunque: immagini,  stampe, incisioni,  ritratti, disegni, mezzi busto in gesso che lo raffiguravano in pose gladiatorie.  Nelle cucine della gente i quadri che lo ritraevano stavano appesi accanto a quelli della Madonna.  E  la faccia di Garibaldi fu tra  le poche cose che vennero imballate e conservate quando quella stessa gente fu costretta dalla miseria a emigrare nel Nord Europa e  – più spesso – in Sud America.  Piacevano i panni di eroe intraprendente che, da solo, si era cucito addosso: come i protagonisti dei romanzi d’appendice.  Generoso, ma squattrinato. Forte, ma mai violento. Appassionato, eppure senza legami sentimentali troppo consolidati.  Antesignano delle proteste socialiste e, tuttavia, dichiaratamente favorevole alla dittatura.  Combatté per gli oppressi dovunque ne trovasse e finì per apparire un liberatore di professione.  Una specie di Che Guevara “ante litteram”,  destinato a soccorrere le rivoluzioni del mondo, senza badare troppo alle contraddizioni della politica.  Per lui, il patriottismo si  mescolò – costantemente –  con la ricerca dell’avventura.

SI CACCIÒ SUBITO IN GROSSI GUAI

Garibaldi cominciò a  cacciarsi nei guai  nel 1834, nel tentativo di partecipare a un movimento insurrezionale di Genova.  Agli esordi della sua vita da sovversivo, ebbe un ruolo del tutto marginale.  La rivolta avrebbe dovuto essere provocata da un’incursione di rivoluzionari mazziniani.  Entrando in armi e in gran numero dalla Savoia non doveva essere difficile scendere per la val di Susa e raggiungere direttamente Torino.  Contemporaneamente  doveva sollevarsi Genova.

Fantasie: ma facevano finta di crederci.  Avevano raccolto qualche milione di allora  sufficiente per equipaggiare qualche migliaio di volontari.  In  realtà servirono,  a mala pena,  per pagare i debiti di gioco del generale Gerolamo Ramorino (quello della prima “Guerra d’Indipendenza”  fucilato per tradimento) il quale, con tutto quel denaro a disposizione,  con la scusa di studiare un piano strategicamente appropriato,  perdeva tempo per vedere se la roulette si decideva a girare per il verso giusto e  se le signorine che lo accompagnavano continuavano a incantarsi per il  suo splendido portamento.

Certo, non si poteva ritardare in eterno e venne il momento che,  per  non perdere la faccia, decise di muoversi.  I rivoltosi erano rimasti accampati per troppo tempo e avevano cominciato a levare le tende: chi aveva un affare da concludere  chi il  raccolto da ritirare,  chi un figlio che stava per nascere e chi – la maggior parte –  si era  semplicemente stancato di non concludere nulla. Restarono poche decine  di uomini e quando videro che le armi promesse non c’erano, se ne andarono anche quelli.

L’invasione,  perciò, venne  tentata da Ramorino con due generali che lo seguivano, un aiutante, un medico e quattro ragazzi.  L’azione avrebbe dovuto comprendere anche un’incursione di un altro gruppo di patrioti che, attraversando il lago di Ginevra, dovevano  scendere dall’altro lato della montagna.  Ma quando spinsero la barca nella corrente, si accorsero che non avevano i remi e sudarono fatica,  sciacquettando con le mani nell’acqua, per riguadagnare la riva.  Più che un’azione militare, insomma, una gag d’avanspettacolo.

Ci scappò un morto fra le forze dell’ordine: il carabiniere  Giovan Battista Scapaccino.  Due patriotti, Angelo Volonteri e Giuseppe Borel vennero fucilati.  Il  Piemonte di allora del Carlo Alberto super-reazionario colpiva i reati politici con una durezza senza attenuanti.  Un’altra dozzina di persone vennero condannate a morte ma  riuscirono a scappare.

FUGGI’ PER EVITARE LA FORCA

Giuseppe Garibaldi,   per evitare la forca, si trovò in fuga sulle montagne travestito con abiti di un contadino che un   fruttivendolo  gli  regalò.  Gli esordi della sua vita da sovversivo  furono perciò maldestri e niente affatto eroici,  ma dalle  disavventure trasse insegnamento.  Campò della liberalità di alcuni amici,  fece qualche favore al sultano di Tunisi, prestò la sua opera di  volontario nella Marsiglia devastata dal colera e, infine, nel 1835,  si imbarcò sul Nautonier e arrivò in  Brasile.

A Rio de Janeiro, con due compaesani, si lanciò in un’impresa di trasporti che poco dopo fallì. L’eroe dei due mondi motivò la bancarotta «dalla fiducia in gente che credemmo amica e che incontrammo nientemeno che ladra».  Il  fatto è che non aveva testa per gli affari e tutte le volte che cercò di fame, si trovò raggirato e derubato.

Altra era la sua voazione: In una notte di luna piena, con sei compagni, rubò una nave ormeggiata nel porto.  I pochi marinai di guardia furono gettati in mare e l’eroe prese il largo per combattere la sue battaglie.

Combatte per tre anni  contro il Brasile  tentando di aiutare Bento Goncacalves che si era proclamato governatore delle province meridionali.  Quanto pesassero le ragioni della libertà in quell’impresa resta un  mistero perché il signorotto locale era più assetato di potere che di giustizia e aveva avviato una sua personale guerra per conquistarsi il trono.  Garibaldi, comunque, era convinto di servire i grandi ideali.  Fu ferito e per un solo millimetro la pallottola non gli troncò la carotide.  Venne arrestato e finì in prigione anche se il regime carcerario non dovette essere particolarmente duro perché, in quel periodo,  imparò a montare a cavallo come un  gaucho.

Una volta libero, per altri sei anni – dal 1843 al 1848 – combatté  contro l’Argentina.  Anche qui è difficile comprendere le  ragioni della contesa fra i possidenti dell’Uruguay e il generale Rosas, ma Garibaldi non stette a esaminare la questione troppo da vicino e si convinse di lottare per la giustizia.  Assaltava le navi e le depredava. Inutile sottilizzare se si fosse trattato di amici o di nemici: il bottino era lo scopo della sua azione,  perché si trattava di ammassare denaro per armare truppe e combattere.

QUELLE DIVISE  DA… MACELLAI

Le famose camicie  rosse nacquero dal  furto di un grosso  quantitivo di stoffa destinata ai… macellai

Quei soldati, sedicenti liberatori, piombavano sui villaggi con la foga dei conquistatori, allettati dai vitelli che stavano nelle stalle e dalle donne che stavano cucinando nelle case.   Un gruppo  così disordinato non avrebbe potuto continuare a lungo.  Garibaldi dovette correre ai ripari.  Entrò in un magazzino di stoffa, rubò una partita di tessuto rosso destinato a cucire i grembiuli dei macellai – i “saladeros” – e fece imbastire nuove uniformi.  Con addosso una camicia di colore uguale, quella banda di testa calde diventò un piccolo esercito:  la “legione italiana”. Il  capolavoro venne poi da Giovan Battista Cuneo,  un tipografo che, avendo qualche dimestichezza con la grammatica,fu in grado di preparare un giornale  – Il legionario italiano – voce ufficiale di quei guerriglieri senza patria,  con bandiere approssimative e ideali contorti.  Più che di informazioni si trattò di disinformazione: alla gente venne offerto un campionario di improbabili atti di valore e di gesta d’altruismo esageratamente amplificate,  ma di facile presa sui lettori. Una fabbrica di eroi.

L’unica impresa non millantata dovette essere la vittoria ottenuta a San Antonio sul Salto, in seguito alla quale Garibaldi venne nominato generale della piazza di Montevideo.  I giornalisti di Francia e Inghilterra cominciarono  a in ieressarsi di quel “rosso malpelo”, con la fronte alta, gli occhi azzurri che riusciva a essere,  contemporaneamente, veloce e impavido, coraggioso e altruista.

La sua leggenda, alquanto arricchita, invase l’Europa e i patrioti  italiani cominciarono a reclamare il suo rientro in patria.  Serviva una spada perché si stavano preparando tempi decisivi.  Abbandonò al loro destino i sudamericani e si imbarcò sul brigantino “Speranza”: lui, una sessantina di legionari, Aguyar, un indio gigantesco armato di lancia e scudo, la moglie Anita e i tre figli piccoli che, nel frattempo, erano nati dalla relazione.

DALLA REPUBBLICA ALLA MONARCHIA

«Tutti sanno s’io sia mai stato favorevole alla  causa dei  regi. Ora sono realista  e vengo a esibirmi al re»

La prima guerra d’indipendenza  era stata dichiarata – 23 marzo 1848 – e  Garibaldi, repubblicano della prima ora (senza capire bene perché) cominciò a convertirsi alla monarchia (senza averne ben chiare le, ragioni).  Si giustificò con qualche abilità. «Tutti quelli che mi conoscono sanno s’io sia mai stato favorevole alla causa dei regi.  Ma perché  i principi facevano  male all’Italia. Ora sono   realista e vengo a esibirmi al re di Sardegna che si è fatto rigeneratore  della nostra penisola».

Il  re non fu dello stesso parere. Il  “caloroso abbraccio” fra Garibaldi e Carlo Alberto che arricchisce l’oleografia risorgimentale non avvenne mai.  E, più tardi, con  Vittorio Emanuele II,  i rapporti furono altalenanti.  Nel senso che il re Savoia cercò di sfruttarne  la popolarità per trame degli utili a suo beneficio esclusivo.  Garibaldi  al contrario, che pure amava atteggiarsi in pose pittoresche, non si affannò per procurarsi vantaggi personali ne  badò a chi approfittava del suo nome per arricchirsi. Gli bastava l’odore della polvere da sparo e il profumo dei capelli delle signorine, si accontentava del chiasso delle battaglie e degli affanni delle  lenzuola; alternava le cariche a cavallo con quelle sotto le gonne delle cameriere, con identico spirito di conquista.  Non stette a badare se erano  mogli di amici e non si preoccupò che gli venissero attribuiti una dozzina di  figli fra legali, mezzi  legali e illegittimi. Amò quanto gli  venne consentito dalle sue forze umane che non erano disprezzabili: quando era giovane, affidandosi alla leggiadria del suo profilo greco che incantava – le contadinotte,  più in là negli anni, facendo leva sul mito che lo rendeva desiderabile.  Da sveglio.  Perché  quando si, addormentava, perdeva  un  pizzico di fascino e prendeva a russare.  A raschiarsi il catarro con colpi di gola e ad abbandonarsi ad altri rumori corporali. Emma Roberts, la sera,  gli suonava musica classica  sul  cembalo e lui,  sulla poltrona, fingeva di ascoltare, appoggiando pensosamente  la fronte sulla mano.  In realtà era tutto per nascondere gli occhi chiusi. Alla fine era il suo ronfare che  lo tradiva e quella, per svegliarlo, doveva attaccare l’inno di Cannata che lo faceva balzare in piedi.

Non  fu sempre un gentiluomo e, qualche volta, assunse pose disdicevoli.  Il  piacere della conquista al femminile lo incantava e nella corsa sopra il letto risultava fra i primatisti italiani.

Certo, anche i ladri corrono il rischio di essere derubati: Garibaldi che, nell’uno e nell’altro mondo, ha fatto fessi tanti  uomini si è trovato – anche lui! – con le  corna in testa e proprio  quando credeva di aver trovato la donna che faceva al caso suo.

Nel dicembre del 1859, l’eroe se ne stava, acquattato in un letto di Villa dell’Olmo,  appena sopra il lago di Como,  ospite di Giuseppina, figlia illegittima del marchese Raimondi.  Era nel letto e ci doveva rimanere quasi immobile perchè si era spezzato una gamba, cadendo da cavallo.  Perchè lamentarsi?  «lo non potea trovare un luogo più  adatto e più caro per sanare la mia ferita»,  Mentre recuperava le forze è consentiva ai due monconi d’osso di saldarsi, mescolava minestrine e baci,  pancotti e  carezze,  Una convalescenza “en rose.

LE NOZZE RIPARATRICI

Era un’amicizia giovane, quella di Garibaldi e di Giuseppina, sbocciata poche settimane prima, nel pieno della “seconda guerra d’indipendenza” La giovane donna, su un calesse, aveva cercato il generale che comandava  i “Cacciatori delle Alpi”  per  chiedergli una compagnia di rinforzo per Como che,  con quel piccolo aiuto, avrebbe potuto ribellarsi agli austriaci e conquistare la propria libertà.

Deludere  una  richiesta che mescolava le ragioni della strategia militare e gli affetti ancora acerbi di un cuore pronto a innamorarsi?  Si affrettò ad  acconsentire: «Stasera stessa sarò colà dove mi chiedete di esser».  I volontari andarono a difendere la città dall’aggressione austriaca e lui – come informò personalmente – trovò il tempo di fermarsi qualche ora all’ albergo “dell’Angelo”, all’assalto della giovane patriota. L’agiografia risorgimentale non conosce mezze misure: «Vederla e amarla fu tutt’uno».

Non destò meraviglia quando, tempo dopo, al generale infermo,  Giuseppina si presentò con il viso pallido e la mano sull’addome appena ingrossato. Niente paura.  L’eroe conosceva le regole della buona creanza. Le nozze “riparatrici” si poterono programmare il 24 gennaio 1860,  nella cappella privata della tenuta della famiglia Raimondi.  Scena stupenda, qualche barlume di commozione e l’impazienza di partire per la luna di miele.  A guastare la festa – come la strega che irrompe nella fiaba della Bella addormentata nel bosco –  un biglietto anonimo, (scritto probabilmente dal conte Giulio Porro Lambertenghi) nel quale, in poche righe, c’era la sintesi di una verità amara come la morte.  A mettere incinta la disinvolta signorina non era stato Garibaldi ma un  garibaldino: Luigi Càroli,  di casa a Villa dell’Olmo  e nelle grazie della marchesina.  Il generale afferrò la sposina per un braccio e la trascinò in disparte.  Le mostrò il messaggio e pretese una risposta: «È vero?» La donna non ebbe il coraggio di negare ma si limitò a ciondolare il capo in su e in giù per assentire.  «Siete una puttana»,  commentò quel gentiluomo dei due mondi.  Brandì una sedia e, quando tutti pensavano che l’avrebbe spaccata sulla schiena della fedigrafa, ebbe un sussulto di galanteria e si limitò a schiantarla per terra.  Giuseppina ebbe il coraggio e la forza di sussurrare: «Volevo sposare un eroe, non uno zoticone».

Lui si morse la lingua per evitare di risponderle per le rime e se ne andò lasciando che i pettegoli avessero campo libero.  Chissà per quanto tempo avrebbero continuato a sparlare se non avesse offerto un argomento di analogo interesse.  Giusto qualche settimana più tardi, infatti, Garibaldi si trovò a Genova, in procinto di capeggiare un migliaio di Camicie rosse,  pronte a lanciarsi alla conquista del Sud.

LA VIGILIA DEI MILLE

Anche questa vigilia è tutta da raccontare.  L’eroe dei due mondi,  amareggiato per un amore andato in frantumi e francamente indispettito per la figura del cornuto tricolore,  partecipò alla seduta del Parlamento riunito a Torino che ratificava la cessione di Nizza e Savoia alla Francia.  Era il prezzo da pagare a Napoleone III per l’aiuto che aveva appena concesso al Piemonte consentendogli di allargarsi prendendo Lombardia, Toscana ed Emilia Romagna.

Garibaldi era inviperito per le sue questioni personali che avevano trascinato pelose dichiarazioni di solidarietà e per le vicende politiche che gli ruotavano attorno senza convincerlo.  Nizza era la sua terra: alienandola e regalandola a Parigi, lo rendevano “straniero in patria”.  Per la verità, Vittorio Emanuele II  che era pur sempre un Savoia, cedeva la Savoia per l’appunto e, dunque, anche il re si rendeva “straniero in patria”.  Garibaldi pensava che, se a palazzo reale avevano accettato lo scambio, doveva convenirgli. Certo, lui non era disposto a sopportare in silenzio quel sacrificio. Fece una di quelle piazzate memorabili accusando questo e quell’altro di essere  parte di un  gioco schifoso e infame.

Con i nervi a fior di pelle e le arterie in ebollizione, si trovò sul treno per Genova in uno scompartimento, accanto ad un certo Laurence Oliphant che commentava favorevolmente le proteste del generale e gli suggeriva di tentare qualche cosa per evitare che, Nizza diventasse francese.  Il piano? Semplice. I cittadini stavano preparandosi a votare un plebiscito truffa, il cui esito era gia deciso e che avrebbe dovuto giustificare con una consultazione fintamente democratica una decisione di vertice presa fra Governi.  Bastava creare: qualche tumulto, impadronirsi delle urne e bruciarle. Poi la guerriglia…

Si promisero reciprocamente di rivedersi per approfondire l’argomento. Oliphant lo cercò e quando riuscì a incontrarlo, a Villa Spinola, vide che c’era tanta gente che gli stava intorno. Tutti ingalluzziti e visibilmente molto determinati. «Partiamo! Quando si parte?».  Dapprima si rallegrò. che quella sua idea avesse così tanti estimatori e solo dopo qualche ora si rese conto che la destinazione  non era quella cui lui pensava. Non si trattava di invadere Nizza, ma di correre  per conquistare la Sicilia. Il programma – grosso modo – era rimasto lo stesso, ma la meta era cambiata.

I “se” e i “ma” non appartengono alla ricerca storica e, tuttavia, come immaginare l’impresa dei Mille con un Garibaldi fresco sposo?  I clamori truculenti della guerra preferiti ai morbidi sussurri della giovanissima moglie? I languori della luna di miele trasformati in assalti all’arma bianca?

Probabilmente l’Italia diventò una proprio perché Garibaldi subì l’ingiuria sentimentale della marchesina Raimondi.  Niente casa e niente famiglia, si trovò ospite dell’amico Augusto Vecchi, combattente della prima ora in difesa della Repubblica romana (1849) proprio quando volontari assetati di avventura stavano radunandosi per fare un altro pezzo di strada verso l’unità d’Italia.

(10 – Continua)

Fonte: srs di Lorenzo Del Bocca; da La Padania di martedì  13 ottobre  2009,  pag. 12 – 13 -14.

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