RISORGIMENTO. L’ALTRA VERITA’
Dopo la cacciata dei Borboni dalle Due Sicilie, il nuovo Governo piemontese riuscì a rendersi cosi impopolare da scatenare un’insurrezione di popolo in piena regola: si formarono 400 bande agguerrite, con oltre 80mila combattenti e almeno altrettanti impiegati nei “servizi ausiliari”
I nuovi dominatori colpirono i patrimoni delle famiglie con sistematica rapacità per ricavare denaro ovunque. Qualche volta trascurarono i potenti, specialmente se erano amici politici, ma non rinunciarono a guadagnare sulle piccole proprietà e si accanirono sulle minuscole
Quando sembrava che, la guerra del Risorgimento fosse finita ne cominciò un’altra che mise a dura prova l’esercito della nuova Italia.
Da Calatafimi al Volturno le battaglie non erano state granché, soprattutto perché gli ufficiali borbonici ordinavano di ritirarsi quando sarebbe stato il momento di attaccare. Ma quando tutti pensavano a riporre le armi per gestire gli affari con più tranquillità, le campagne cominciarono a rivoltarsi. Cafoni e contadini inneggiavano al re “Franceschiello” ma, in realtà, si dichiaravano per il passato regime soltanto per sottolineare che con il nuovo non volevano avere niente a che vedere.
UNO SCONTRO SENZA TREGUA
Lo scontro tra soldati regolari dell’esercito italiano e guerriglieri meridionali fu senza esclusione di colpi e senza tentennamenti. In dieci anni (dalla proclamazione del Regno d’Italia alla conquista di Roma del 1870) i morti si accatastarono a migliaia e le nefandezze – senza distinzione fra regolari e partigiani – furono di tale portata da far rabbrividire.
«Cari sudditi, non vi lasceranno neanche gli occhi per piangere».
Francesco II, in un anelito di compassione, l’aveva scritto al momento di lasciare il suo regno. Era una previsione quasi ovvia. Qualcuno era già piegato sotto il tallone del conquistatore. Dopo la guerra “ufficiale” – si fa per dire – con scontri “regolari” tra borbonici e garibaldini, ne era cominciata un’altra più nascosta, ma violenta e senza esclusione di colpi.
Nelle campagne, sulle montagne, attorno alle città, la gente si ribellava ai nuovi padroni. Li avevano sentiti, quando si presentavano come i campioni della libertà, proponevano la fine delle ingiustizie e quando promettevano di dividere i feudi per assegnare un pezzetto di orto ai contadini. Ma poi, ancora provvisoriamente insediati, si accorsero che imponevano incomprensibili ordinamenti, che applicavano leggi importate direttamente da Torino e, soprattutto, che promuovevano una quantità di nuove tasse,
IL PREZZO DELLA CONQUISTA
Il prezzo della guerra che il nord aveva unilateralmente dichiarato bisognava pur pagarlo e il conto toccava per intero al sud. Senza curarsi di quel “comune sentire” cui attribuivano – sembrava – enorme importanza, fin tanto che si trattava di chiacchiere. Senza nemmeno provare a realizzare quel buon governo per il quale avevano speso tanti proclami.
I “nordisti” introdussero per esempio la tassa di successione: «Così i pupilli perdono ciò che il genitore, con sacrificio e privazioni, aveva creato per il loro decoro»
Colpirono i patrimoni delle famiglie con sistematica rapacità per ricavare denaro ovunque. Qualche volta trascurarono i potenti, specialmente se amici, ma non rinunciarono a guadagnare sulle piccole proprietà e si accanirono sulle minuscole.
Introdussero, per esempio, l’imposta sulla successione che, di per se, è un’assurdità. Perché pagare per conservare ciò che è già tuo?
Un padre muore e la tenera famiglia resta. Ma un ricevitore, con il feretro ancora caldo, si presenta imperterrito, rovista la casa, penetra i segreti, fa l’inventario, somma il valore dell’eredità, calcola il diritto del fisco ch’egli rappresenta e i lacrimanti figli con la derelitta vedova pagano una somma gravissima. E i pupilli perdono ciò che il genitore, con sacrificio e privazioni, aveva creato per il loro decoro. Lo scrisse un nordista con accenti che parrebbero compassionevoli: il conte Alessandro Bianco de Jurioz.
Peccato che la sua riflessione sia maturata troppo in là negli armi, nel 1876, al momento in cui tutto era irrimediabilmente finito, e il Sud era già diventato “la questione meridionale”. Prima, quando faceva par te del corpo dello Stato Maggiore dell’esercito, con qualche possibilità di farsi sentire e mitigare – se non proprio correggere – quegli atteggiamenti repressivi, lasciò che la burocrazia facesse il suo corso.
Si domandava Bianco de Jurioz: «Perche quella famiglia, rovinata negli affètti e depredata nel patrimonio, avrebbe dovuto essere grata al Savoia che aveva scacciato il Borbone?».
Già…perché? E, infatti, quelle famiglie – altro che grate – consideravano il nuovo regime come un pericolo da cui difendersi.
In fondo, la questione “tassa – di – successione- sì o tassa – di – successione – no” che ha infiammato il dibattito politico di queste ultime legislature – dal 1995 ai giorni nostri – con Berlusconi che ha tolto l’imposta e Prodi che ce l’ha rimessa con la conseguenza che Berlusconi l’ha rilevata, affonda le sue radici nelle disposizioni prese in seguito alla conquista del Sud.
PIEMONTESI CRUDELI E INEFFICIENTI
Dal 1861, le leggi erano orrende ma diventavano atroci per colpa di coloro che le applicavano. I liberatori si rivelarono, al tempo stesso, avidi e insensibili, crudeli e incapaci.
Secondo Dennis Mack Smith, i politicanti del Nord non avevano che da ringraziare se stessi per l’impopolarità che ben presto si guadagnarono.
Lacaita, dalle Puglie scrisse al Presidente del Consiglio Cavour per informarlo che «i fautori dell’Unità d’Italia e del partito dell’annessione erano in netta minoranza». E, ancora Mack Smith: «L’incursione del Nord sembrava una nuova invasione barbarica e l’avversione al Piemonte ricordava l’antipatia cui molti tedeschi del Sud guardavano ai Prussiani del Nord».
La nuova classe politica non aveva nessuna esperienza amministrativa e nessuna conoscenza del Meridione per cui i meriti patriottici – spesso presunti – furono considerati sostitutivi dell’abilità nella gestione delle questioni burocratiche. Parola di Pasquale Villari: «Le varie oligarchie regionali furono sostituite da famiglie rivali che erano state più rapide a cambiar casacca. Questo spiega perché insieme a una quantità di avventurieri e disonesti, un numero spaventoso di imbecilli abbia invaso le nuove province del Regno».
Dopo l’attacco di Garibaldi alle difese belliche di Francesco II ci fu un secondo assalto della democrazia piemontese agli uffici pubblici. Gli invasori occuparono tutto quello che materialmente era possibile occupare, confiscarono lo Stato e poi lo trattennero come se fosse diventato “cosa loro”. Un volonteroso capitano di Torino diventò un generale pedante a Reggio Calabria. Un discreto maestro settentrionale si trasformò in un pessimo direttore didattico in una circoscrizione del Sud. Un giudice coscienzioso della capitale sabauda si trasformò in un arrogante procuratore di una regione meridionale. Il capo sezione divenne capo ripartizione e il capo divisione diventò prefetto.
PROMOZIONI POLITICHE
Ferrari, colonnello di Stato Maggiore, era cuciniere del duca di Modena. Il generale Pietro Fumel era un doganiere. Il colonnello Cattabena aveva fatto fortuna come tenutario di una casa da gioco. E un cassiere della spedizione dei Mille. Agostino Bertani da sottufficiale addetto ai servizi sanità, si ritrovo colonnello: quando doveva lavorare per vivere chiedeva il compenso di una lira e mezza per ogni visita medica ma, un anno dopo, era nelle condizioni di vivere di rendita con una fortuna stimata in 14 milioni di lire.
Ognuno venne sbalzato dalla piccola barca del tranquillo e ordinato Piemonte sulla grande nave Italia che, per di più, si trovava a manovrare in cattive acque.
Il Piemonte peggiorò se stesso e trascinò nel baratro l’Italia.
La legge della prevalenza dello stupido trovò un’occasione per essere applicata su larga scala.
Coinvolgere nel Governo i “terroni”? Erano considerati persone con due facce, inaffidabili, con una coscienza approssimativa e con nostalgie borboniche appena chetate, ma sempre pronte a risvegliarsi.
In Piemonte erano tutti “nuovi” e raccomandabili per cui ogni incarico venne distribuito fra Torino e dintorni.
Il duca di Maddaloni, ne11861; si lamentò con passione. «Ai mercanti piemontesi si danno le forniture più lucrose. I burocrati del Nord occupano quasi tutti i posti pubblici, gente spesso ben più corrotta degli antichi burocrati napoletani. A fabbricare le ferrovie si mandano operai piemontesi i quali, oltraggiosamente, pagansi il doppio dei napoletani. A facchini di dogana, a carcerieri, a birri vengono uomini dal Piemonte e donne piemontesi si prendono a nutrici all’ospizio quasi che neppure il latte di questo popolo sia salutevole. È unione questa?».
SEMPRE PIÙ POVERI
Degli invasori, i nuovi padroni ebbero gli atteggiamenti, la iattanza, il disprezzo e la supponenza. I ricchi furono nelle condizioni di aumentare le loro ricchezze e i poveri – se possibile – si ritrovarono più poveri.
La grande speranza stava partorendo il topolino. Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa insinuava come fosse stata immaginata una grande rivoluzione «per lasciare tutto come prima». In realtà: peggio di prima.
«Questo popolo del Sud, nel 1859, era vestito, calzato, industre, con riserve economieche». La penna del conte de Jurioz non era affatto indulgente nei confronti dei meridionali che considerava «nati in Italia ma appartenenti alle tribù dell’Africa come i Noveri, i Dinkas o ai Malesi di Pulo-Penango» Per questo, le sue osservazioni hanno maggiore valore. «Il contadino possedeva una moneta: comprava e vendeva animali, corrispondeva gli affitti, alimentava la famiglia, viveva contento del proprio stato materiale». Dati alla mano. «Le civaie (leguminose) furono trovate al prezzo di 2.80 ma nel 1863 erano già salite a 5.20. La carne di bue vendevasi a 15 grana il rotolo e nel 1863 a grana 36. Una gallina salì da 20 a 55 grana».
IL Governo appena instaurato non si curò dell’economia, non promosse l’industria, non favorì l’agricoltura e non procurò lavoro. Per l’immediato dispose lo stato d’assedio per assicurarsi obbedienza sollecita. Ed era bene che la felicità fosse anche esteticamente visibile. Occorreva celebrare messa per il nuovo Re, cantargli il Te Deum e tributargli onori e riconoscimenti.
Per chi si opponeva: la galera…e chi protestava più vivacemente (o, soltanto, sembrava averne voglia) finiva direttamente davanti al plotone d’esecuzione.
ESECUZIONI ARBITRARIE
Non c’era il tempo per sottilizzare. Le condanne potevano essere decretate ed eseguite anche solo perché il comandante, quella mattina, era di cattivo umore. L’arbitrio governativo era diventato una regola neanche si trattasse di governare quelle regioni con il criterio dei satrapi orientali. Per le bizze di alcuni funzionari, talvolta meschini, venivano arrestate madri, mogli, sorelle di ogni presunto responsabile di qualche reato «e su di esse si sfrenava la libidine».
Il capitano medico Antonio Rastelli bruciò con un ferro rovente un sordomuto di vent’anni, Antonio Cappello, perché credeva che facesse finta di non sentire. Ripeté la tortura 154 volte, come testimoniarono altrettante bruciature sul corpo di quel poveretto. I familiari protestarono e fecero ricorso al tribunale ma non ci furono conseguenze perché il giudice sentenziò che l’ufficiale aveva agito in buona fede. L’anno dopo, venne insignito della croce di san Maurizio e Lazzaro. La gente si nascose nei boschi e si difese cori le armi. Scelsero la macchia alcuni vecchi garibaldini che avevano tifato sinceramente per l’Italia dei Savoia ma che dovettero verificare quanta distanza corresse fra le aspirazioni ideali e il risultato pratico. Li seguirono alcune migliaia di reduci dell’esercito borbonico che si trovarono senza lavoro. Si diedero alla guerriglia alcuni nobili legittimisti che vagheggiavano il ritorno di Francesco II. E poi: contrabbandieri, furfanti, autentici criminali, gente in cerca di avventure, farabutti che, in qualunque tempo e con qualunque regime, avrebbero sparato per uccidere e ucciso per rapinare.
Alcuni erano di poche parole, altri invece erano capaci di improvvisare discorsi anche trascinanti. Qualcuno era vanitoso e cercava i giornalisti stranieri perché pubblicassero dei reportage su di lui. Qualcun altro viveva più defilato e non sopportava nemmeno di essere guardato con troppa insistenza.
In quell’accozzaglia di gente male in arnese, si trovarono i fanfaroni, e i romantici, gli ambiziosi che vestivano come ufficiali di immaginari eserciti e i pittoreschi, che portavano cappelli grondanti nastri e piazzi.
GLI IDEALISTI E I RUBAGALLINE
C’erano gli idealisti e i rubagalline, coloro che – come Domenico Triburzi – davano un senso cavalleresco alla battaglia e rispettavano i nemici o altri come Gaetano Colletta Mammone, che al contrario, inventavano sadiche torture per spaventarli.
Ebbero un momento di fama Giosafatte Tallarico nelle Puglie, Pietro Corea nella zona di Catanzaro e Gioria La Gala nella provincia di Avellino. A Potenza dominava “il generalissimo” Carmine Donatelli Crocco e il suo gregario Giuseppe Nicola Summa “Ninco-Nanco”.
La gente conosceva i briganti attraverso i nomignoli che si erano dati: Diavolicchio, Caprariello, Pelorosso, Cavalcante, Coppolone. Addirittura: Cappuccino, Chiavone e Culopizzuto. Arrotolata sulla pancia portavano un’ampia cinta di stoffa, zeppa di pistole e coltellcci, come i Pancho Villa che si sono visti nei film delle rivoluzioni messicane
Allora il conte di Cavour sentenziò: «Lo scopo è chiaro: imporre l’unità con la forza fisica, ove non bastasse la forza morale»
Tutti erano religiosi fino alla superstizione. Tenevano sul petto l’immagine del loro santo che doveva risparmiarli dalle schioppettate e, agIi incroci delle strade di campagna, si fermavano a baciare i piedi di tutte le statue di Cristo in croce che incontravano. Invece di comprendere le ragioni del malcontento, i padroni del tricolore inasprirono le sanzioni e la repressione diventò violenta con la “legge Pica” che poteva essere considerata una specie di licenza di uccidere.
Il conte di Cavour, dall’alto del suo seggio di Torino, indicò procedure e obiettivo. «Lo scopo è chiaro: imporre l’unità d’Italia alla parte più corrotta. Sui mezzi non vi è gran dubbiezza: la forza morale e, se questa non bastasse, la fisica». Della forza morale non fu possibile scorgere traccia. Le baionette, invece, si rivelarono appuntite e affilate a misura.
L’ ARTE DEL BOIA
De Sivo commentò: «Cominciava l’arte del boia». I piemontesi instaurarono il codice militare di guerra con corti marziali e fucilazioni non soltanto con chi “utilizzava” le armi contro i militari dei Savoia. La legge consenti punizioni esemplari anche nei confronti di coloro che genericamente “venivano sorpresi” con un’arma di qualsiasi genere. Significava che ogni contadino poteva essere ammazzato perché ognuno di loro possedeva un fucile “a trombone” per difendersi dalle fiere e almeno un’accetta per tagliare la legna da ardere.
Il generale Pinelli estese la pena di morte «a chi avesse con parole o con denaro o con altri mezzi, eccitato i villici a insorgere» nonché a «coloro che con parole o atti, insultassero lo stemma dei Savoia, il ritratto del Re o la bandiera nazionale».
Inventarono le figure dei “pentiti” che accettavano di abbandonare la banda di cui avevano fatto parte collaborando con le autorità per sgominare i vecchi compari. Nei loro confronti – era stabilito – sarebbero state applicate con manica larga tutte le attenuanti possibili e immaginabili, in modo da evitare loro il carcere. Coloro che mettevano l’esercito in condizione di acchiappare qualche brigante sarebbero stati ricompensati con premi in denaro.
Anche il poeta Dragonetti, patriota della prima ora e quindi non sospetto di nostalgia non volle sottrarsi a un commento critico. «Con la legge Pica le vendette non ebbero migliore opportunità di libero sfogo». Bastava poco per finire nella lista dei proscritti e candidarsi al plotone d’esecuzione. Rischioso avere un credito nei confronti di persone con il pelo sullo stomaco; pericoloso essere il marito di una donna troppo bella e appetita da chi non si faceva scrupolo. Una lettera anonima e i gendarmi che correvano per arrestarli cancellavano il debito e il rivale in amore.
La rudezza disumana dei conquistatori finì per accrescere il senso di ostilità delle popolazioni locali. Di conseguenza, aumentò la durezza della repressione. II numero degli sbandati crebbe proporzionalmente agli abusi.
I NUMERI DEI RESISTENTI
I fuorilegge riuscirono a costruire 400 bande agguerrite. Con calcolo meticoloso, Tarquinio Maiorino ha potuto stabilire che arrivarono a contare 80.702 combattenti.
Almeno altrettanti coloro che facevano parte dei cosiddetti servizi ausiliari: infermieri, informatori, porta ordini, vivandieri, conviventi, familiari e amanti. I briganti godevano di solidarietà diffusa fra la gente e, quando entravano nei paesi, era festa grande.
Risultò che, da settembre 1860 ad agosto 1861, vi furono 8.968 fucilati, 10.604 feriti e 6.112 prigionieri. Le case distrutte furono 918
Molti vennero uccisi. Dalle zone di guerriglia pochi riuscirono ad arrivare al carcere. La stragrande maggioranza veniva sterminata sul posto senza troppi complimenti. Quanti? Michele Topa cita i giornali stranieri che, in quegli stessi anni, tentarono un bilancio di questa guerra nascosta, non dichiarata eppure sanguinosissima. Risultò che, dal settembre 1860 all’agosto 1861, poco meno di un anno solare, vi furono 8.968 fucilati, 10.604 feriti e 6.112 prigionieri. Vennero uccisi 64 sacerdoti e 22 frati, 60 giovani sotto i 12 anni e 50 donne. Le case distrutte furono 918, molti i paesi cancellati dalla carta geografica.
UNA MARZABOTTO DELL’OTTOCENTO
Per esempio, con il ferro e con il fuoco distrussero Pontelandolfo e Casalduni. Nei ranghi dei reparti che si lanciarono all’assalto insieme ad altri 900 soldati, c’era anche un bersagliere di Delebio Valtellina, Carlo Margolfi che confidò al suo diario emozioni e ricordi. Il 4 agosto 1861, fu mandato a sedare i disordini esplosi nella provincia di Benevento. I ribelli filo borbonici Cosimo Giordano e Donato Scurignano si erano imbattuti in un distaccamento di fanti in marcia e li avevano sterminati. I cadaveri erano stati straziati, pezzi di corpi martoriati erano stati trascinati per la campagna, teste mozzate erano finite sulle picche e portate in giro in una macabra processione. L’aver calpestato le croci sabaude e innalzato le bandiere gigliate era il minimo. Lo Stato Maggiore non poteva lasciare correre e pretese una punizione esemplare.
«Riceviamo l’ordine di entrare in Pontelandolfo, fucilare gli abitanti, meno i figli, le donne e gli infermi e incendiarlo. Difatti un po’ prima di arrivare al paese, incontrammo i briganti che attaccammo e che, in breve, facemmo correre davanti a noi». I comandanti, invece di inseguire le bande armate, preferirono sfogare la rabbia contro chi era rimasto chiuso in casa sua: dunque rinunciarono a punire i colpevoli e se la presero con chi, certamente, non aveva responsabilità.
«Entrammo nel paese e subito cominciammo a fucilare i preti e gli uomini. Indi il soldato saccheggiava. E, infine, abbiamo dato incendio».
Fu una specie di Marzabotto dell’Ottocento.
Il diario di Carlo Margolfi lascia intendere che i soldati eseguirono l’ordine senza entusiasmo. «Quale desolazione! Non si poteva stare lì intorno per il gran calore. E quale rumore facevano quei poveri diavoli che, per sorte, avevano da morire abbrustoliti sotto le rovine delle loro case. Noi, invece, durante l’incendio avevamo di tutto: pollastri, conigli, vino, formaggi e pane».
Forse esagerano gli storici che, leggendo il Risorgimento in chiave borbonica, sostengono che il Meridione pagò l’unità d’Italia con 700mila vittime. E probabilmente è un impeto di polemica quello che porta Antonio Ciano a ipotizzare un milioni di morti. Ma, certo la parola “massacro” non è ne gratuita ne esagerata.
Di questo bagno di sangue il Nord Europa non volle sapere. Napoleone III informato evidentemente per sommi capi di quanto stava accadendo, commentò: «Nemmeno i Borbone potevano fare peggio». Ma, forse per evitare complicazioni diplomatiche, non ritenne di intervenire.
Il deputato Mancini, dovendone discutere in Parlamento, se la cavò con un tartufesco: «Preferisco non fare rilevazioni di cui l’Europa potrebbe inorridire». Dichiarazione, nel contempo, seria e ipocrita perché conteneva gli estremi di una denuncia anche grave e, tuttavia, inutile perché senza riferimenti specifici non poteva produrre alcun risultato. Anche allora – guarda un po’ come le questioni sono sempre le stesse – si trattava di fare bella figura in Europa!
UNA FEROCE DITTATURA
Dieci anni di scontri vennero nascosti o minimizzati all’opinione pubblica. I giornali erano pochi, compiacenti con il Governo e, contemporaneamente, disinteressati di quanto accadeva dal Tevere in giù.
Antonio Gramsci, fondatore del Partito Comunista italiano, non ebbe difficoltà a dichiarare che «lo Stato italiano fu una feroce dittatura per l’Italia meridionale e le isole, crocifiggendo, squartando seppellendo vivi i contadini poveri che gli scrittori sardi tentarono di infamare con il marchio dei briganti». Gramsci era cresciuto ad Ales, in Sardegna ma la sua famiglia era meridionale. Il padre, Giuseppe era nato a Gaeta nel 1860. Proprio durante l’assedio alla fortezza e il nonno, Gennaro, che poteva fregiarsi del titolo di “don” era stato capitano della gendarmeria borbonica. Generali, Governo e Parlamento non dettero conto dei morti ammazzati fra gli avversari ma si preoccuparono anche di non far sapere chi, fra i regolari, ci aveva lasciato la pelle. Certamente non pochi. Ma non è possibile stabilire quanti “piemontesi” furono uccisi perché nell’esercito, in quegli anni, proprio per mascherare l’evidenza, si ricorse alla formula generica di “deceduto per ragioni di servizio”
Nessuna differenza nel modo di combattere. Insieme praticarono una violenza sfrenata, gareggiando in ferocia. Imboscate, agguati, tradimenti, cadaveri ammucchiati nei cortili. Vigliaccheria ed eroismo, duelli e massacri, violenza e crudeltà. I banditi con il vantaggio di conoscere i luoghi e la possibilità di scegliere quando attaccare. I soldati con una migliore organizzazione e con retrovie che assicuravano rifornimenti rapidi.
Soltanto alla fine, quando i vincitori scrissero la loro storia, si seppe da quale parte stavano i buoni e i giusti e da quale parte gli infami e i cattivi. Nel Meridione d’Italia i briganti persero e restarono briganti, mentre gli ufficiali dell’esercito ebbero l’opportunità di mostrare il petto coperto di medaglie al valore.
I partigiani del Borbone, insieme a quelli che li aiutavano o che, semplicemente, non erano palesemente ostili, furono fatti a pezzi come non avrebbero osato nemmeno le truppe di occupazione più inumane. Li impiccarono e lasciarono i loro corpi a penzolare dai pennoni. Portarono in giro i cadaveri per paesi e contrade. Obbligando la gente a vedere con i propri occhi come venivano trattati i nemici dei Savoia. Alcuni furono inchiodati ai portali dei palazzi. Ad altri mozzarono la testa che riposero in una cassettina, come quelle che si usavano per ricoverare gli uccellini, per mostrarla in giro ed esibirla come trofeo.
Le canzoni popolari e i racconti dei bis-bisnonni registrarono ignomie e crudeltà orripilanti.
C’è più verità in una ballata di cantastorie che in una quantità di capitoli di storia compiacente.
(13 – Continua)
Fonte: srs di Lorenzo Del Bocca; da La Padania di sabato 31 ottobre 2009, pag. 14- 15 -16.
19 Maggio, 2011 00:10
[…] da: http://www.veja.it/2009/11/01/brigantaggio-una-guerra-sporca-nata-dal-giogo-dei-savoia-sul-sud/ […]