RISORGIMENTO. L’ALTRA VERITA’
La conquista della capitale pontificia: una decisione assunta in spregio agli obblighi morali e politici verso la Francia, che aveva sostenuto la causa dell’unità e ora era alle prese con il nemico prussiano.
Il 12 ottobre 1867 una bomba targata “rivoluzione” espose sventrando la caserma Serristori e uccidendo 23 membri del “Corpo musicale e orfani di Roma”. Un attentato che non provocò nessuna conseguenza insurrezionale tra la popolazione della città: insomma, una strage inutile.
La politica fiscale del nuovo Governo fu all’insegna della predazione: non si toccarono pensioni e vitalizi dei soliti privilegiati e all’odiosa tassa sul macinato si aggiunse un balzello che veniva calcolato sulla base della metratura delle finestre. Nonostante questo il deficit peggiorava.
A ROMA
A Roma! Marciarono sulla capitale mettendo in scena la solita gag teatrale.
Si cominciò con la fucilazione di Massimiliano d’Asburgo, in Messico, a opera del rivoluzionario Benito Juarez.
Benito Juarez: e che c’entra? C’entra! Perché Juarez aveva espropriato la Chiesa sudamericana e il Parlamento di casa nostra, assecondando i suoi impulsi anti-clericali, discusse e approvò una mozione a favore dei nuovi governanti d’oltre Oceano, incoraggiandoli anzi a proseguire sulla strada di quelle loro riforme.
IL PAPATO? UN “MOSTRO”
Garibaldi insisteva sulla necessità di spicciarsi a invadere lo Stato Pontificio e sosteneva la sue teorie con discorsi infuocati. «Più terribile che le guerra – secondo lui – è il mostro che si chiama Papato le cui emanazioni pestilenziali inondano il mondo». Avesse potuto scorticarli vivi… monsignori… vescovi… cardinali… «Noi siamo la religione del vero e la sostituiremo a quella del prete che è la menzogna». Più che a favore dell’Italia unita, sembrava che volesse combattere «contro le tonache che hanno infangato, beffato, contaminato: fatto cloaca».
A Ginevra, dove si presentò per parlare delle condizioni del suo paese, lo presero per matto e lo coprirono di fischi. Ma a Voghera, a Venezia, a Genova, a Firenze fu un’apoteosi, con i giovani che alzavano le mani per arruolarsi e correre alla conquista della città eterna.
MINISTRI DIVISI IN TRE PARTITI
Si stava creando una situazione imbarazzante. I ministri erano divisi in tre partiti. I più sornioni ritenevano che fosse possibile ripetere la sceneggiata già attuata nel 1860 quando venne annesso il Regno delle Due Sicilie che avevano conquistato, facendo finta di essere contrari.
Il secondo gruppo sosteneva la legalità e il rispetto degli accordi stipulati con la Francia, nei confronti della quale esisteva un debito di riconoscenza non trascurabile e alla quale avevano spergiurato che non avrebbero insidiato il potere del Papa.
Il terzo sembrava distratto da altre questioni. Urbano Rattazzi, per esempio, che doveva sostenere un duello con Minghetti, con Cialdini e con Pepoli per colpa della moglie, splendida oca, che parlava a vanvera e scriveva a penna libera: aveva firmato un libro di politica contemporanea e aveva fatto arrabbiare una quantità di persone che se la prendevano con il marito.
Nel 1867, i garibaldini attraversarono la frontiera, ma i soldati papalini li affrontarono e li scacciarono. I prigionieri – 160 – vennero portati a Castel Sant’Angelo. 1500 fucili requisiti vennero rottamati: erano talmente in cattivo stato che non era possibile utilizzarli nemmeno per andare a caccia. I l diplomatico Gregorovius, nel suo diario, in data 3 ottobre 1867, assicurò che «in nessuna provincia ebbe luogo qualche sollevazione».
L’assalto delle forze regolari italiane fu preceduto dalle mene garibaldine
Il gioco a mosca cieca del Parlamento non poteva durare. A Sinalunga, i carabinieri dovettero intervenire per fermare Garibaldi. Si trattava di tradurlo nella fortezza di Alessandria ma, per arrivarci, riservarono una carrozza di prima classe del treno da cui, a ogni stazione, «l’illustre prigioniero» si affacciava per salutare la folla e fare il pieno di applausi. A Piacenza, il marchese Pallavicini volle stringergli la mano. A Genova e a Torino, i prefetti consentirono che una piccola folla impiccasse – “in effige” – la maschera del Presidente del Consiglio. E il comandante della prigione lasciò il portone del carcere aperto in modo che la gente potesse entrare per rendere omaggio all’eroe detenuto.
In galera – con tutti i comfort – rimase pochi giorni: poi lo lasciarono libero di prendere il vapore e tornare a Caprera. Chi lo accompagnò disse che era tranquillo. A fibrillare era la politica italiana: aver tirato il sasso e nascosta la mano, non bastava più.
LUOGHI SACRI DA PROFANARE
A Subiaco, un centinaio di uomini proclamarono un “Governo provvisorio”, sotto l’autorità di Garibaldi. Il deputato Giovanni Acerbi si arrogò il titolo di dirigere un’insurrezione nel Lazio e una dozzina di colleghi accettarono di presiedere i comitati insurrezionali che nascevano nelle città. Il maggiore Filippo Girelli presentò le dimissioni dall’esercito per essere libero di organizzare la rivolta: si attribuì il titolo di “commissario” e, sconfinando con un gruppo di armati in terra pontificia, pubblicò bandi, decretò tasse, sequestrò le casse dei Municipi e sciolse una quarantina di ordini religiosi. Bande di garibaldini scorrazzavano al confine del Lazio.
Le squadre di Menotti, Nicotera, Ugolini, devastavano e saccheggiavano quello che trovavano ma, preferibilmente, cercavano conventi, chiese e luoghi sacri da profanare. Gli osservatori Stranieri notarono che, in quei giorni, l’ordine pubblico nelle città italiane era soddisfacente perchè tutti gli schiamazzatori stavano attorno a Roma.
Temistocle Solera, l’autore delle parole di Va pensiero, passato dalla poesia allo spionaggio, proprio da Roma mandò una relazione al Governo per descrivere la situazione politica nei domini papalini. «Attenzione – mandò a dire – il Governo è bassamente tradito da coloro che vantano di avere in Roma una seria influenza sulle masse e di poter quindi operare per indurle a insorgere. Mistificazione ordita per cupidigia di denaro. Non mi sono dato tregua – precisò – visitando e investigando uomini e cose, non risparmiando ne officine ne taverne ne postriboli dove, più di ogni altro luogo, la gioventù espande l’anima e perde ogni forma di prudenza. Ovunque prove e dati eloquenti m’accertano essere impossibile una seria ed efficace sollevazione. È bensì probabile che 200 garibaldini, da me già fiatati e riconosciuti per contrade, ingrossati da pochi emissari mazziniani e da pochissimi giovani di ancor vergine fede, al segnale di chi deve dar conto di promesse e forse di denaro percepito, arrivino a gettarsi vociando e con qualche bomba alla Orsini sulle piazze»
UN INUTILE MASSACRO
Si diffusero voci di insurrezioni. «Ebbene, il Pontefice uscì sorridente dal Vaticano e percorse a piedi piazza del Popolo. Nulla. Si adora Pio IX».
In effetti, il 12 ottobre (1867) una bomba scoppiò e riuscì a sventrare il fianco della caserma Serristori. Doveva essere assai potente perché sfondò un intero quarto dell’edificio, seppellendo sotto le macerie 23 soldati pontifici. Iniziativa militarmente improvvida. Fra i morti, nessuno aveva mai imbracciato un’arma: le vittime facevano parte del “Corpo musicale e orfani di Roma”. Un massacro inutile.
I responsabili – Gaetano Tognetti e Giuseppe Monti – vennero individuati, processati e mandati a morte.
La rivoluzione che doveva scoppiare il giorno prima e che era stata rinviata per qualche ora, subì un ulteriore ritardo poiché il tempo stava mettendosi sul brutto e manifestare con la pioggia risultava disagevole. Mazziniani, liberali e patrioti rivaleggiavano in prudenza.
Ritornò in scena Garibaldi che, il 26 ottobre (1867), assaltò Monterotondo con 3mila uomini e sgominò una guarnigione papalina. Nemmeno questa notizia incoraggiò i rivoluzionari della capitale.
Vittorio Emanuele II, augusto patrocinatore dell’impresa, sconfessò pubblicamente l’operato di Garibaldi e poi accettò che l’esercito entrasse nei confini dello Stato Pontificio «per difendere il Papa». L’avevano già fatto – con successo – con i Barbone. Ma, questa volta, gli avversari combatterono davvero e, a Mentana, il 3 novembre, li fecero a pezzi. Le camicie rosse erano 15mila ma per combattere si presentarono in 5mila.
Nemmeno pochi: cinque volte tanto quelli che, anni prima, sbarcarono a Marsala per prendere parte all’assalto di Calatafimi. Solo che, questa volta, i papalini e i francesi che li affiancavano accettarono lo scontro e reagirono. Quando si accorsero che i nemici facevano sul serio, i garibaldini cominciarono a mormorare: «Aho… ce volete portà ar macello» Si lasciarono catturare in 1.700: gli altri disertarono e si sbandarono.
LA VITTORIA DEGLI CHASSEPOT
Garibaldi si ri – lasciò ri – arrestare e negli uffici cominciarono a bruciare le carte più compromettenti. Vittorio Emanuele II diventò una mummia: non aveva visto nulla, non sapeva nulla, non aveva autorizzato nulla. Era contrario a tutto.
Dissero che la vittoria era dovuto al modello di fucile Chassepot. Per una di quelle contraddizioni di cui è ricca la storia italiana, si trattava di un modello fabbricato in Italia dalla ditta Glisenti di Brescia. I francesi l’avevano commissionato e proposto anche all’Italia per ammortizzare i costi ma il nostro ministro della Guerra non considerò l’arma efficiente: gli sembrava che andasse meglio il modello tedesco Dreyse o un altro fucile ad ago, lo Stutzen. Ma si era ancora nelle nuvole dei progetti: intanto, i soldati restavano con dei catenacci sulle spalle.
La credibilità del Governo stava precipitando in caduta libera. Rattazzi parlò per tre giorni ai deputati. Tanto tempo gli fu necessario per non dire nulla e, soprattutto, per non chiamare in causa la corona. Lo Stato unitario era sull’orlo del baratro.
Adolfo Thiers, certamente laico e liberale, patron dell’Assemblea di Parigi, pronunciò un discorso insolitamente duro nei confronti dell’Italia, chiedendo che la Francia assumesse la difesa di 200 milioni di cattolici. Dopo di lui, il ministro Rouher, portavoce dell’Imperatore, sbeffeggiò la politica di Firenze che preparava e lasciava preparare l’invasione con funzionari che dirigevano gli arruolamenti, gli inglesi che mandavano armi e i giornali che «si concertavano per la menzogna». Il documento di censura per il Governo italiano raccolse 288 voti contro 17.
Era la fine? Sembrava certo che Napoleone III, seccato per l’atteggiamento da voltagabbana dei politici italiani, fosse deciso a dare un calcio nel sedere a Vittorio Emanuele II per riportare al trono il Borbone.
Il bilancio, in ogni caso, era pauroso. Arrivavano a maturare gli interessi passivi della guerra del 1866 che toccarono il 37 per cento, portando il disavanzo a 239 milioni contro i 190 dell’anno precedente. Ma poiché i soldi non c’erano ed era tutto fondato sui, “pagherò”, i creditori non si fidarono, pretesero un aggio maggiore, che fece lievitare il debito a 266 milioni.
LA TASSA SULLE FINESTRE
Non si potevano toccare le pensioni e i vitalizi, le prebende e le sinecure: dunque, si tornò alle proprietà ecclesiastiche. C’era una tassa sul macinato e ne aggiunsero un’altra che veniva calcolata sulla base della metratura delle finestre. La gente diceva che, fino a quel momento, si era pagato per mangiare ma, da allora, era necessario mettere mano al portafoglio anche per respirare.
In Emilia, al grido di “viva il Papa” e “viva Francesco II”, i poveri inscenarono un rivolta violenta. Attribuirono al generale Raffaele Cadorna poteri eccezionali per domare Parma, Reggio e Modena che vennero governate con il pugno di ferro. Ravenna contendeva al meridione il primato della provincia più irrequieta. Il Procuratore del Re, Cappa, ricevette una lettera minatoria: «Non intendo come ella possa tenere reclusi tanti giovani… a buon intenditor» Lo trovarono colpito da una coltellata alla schiena che venne vibrata con tanta violenza da inchiodarlo alla porta della sua abitazione. Il generale Escoffier assunse le funzioni di prefetto e fu ammazzato a rivoltellate dal questore Pio Cattaneo, disturbato per un trasferimento che considerava ingiusto.
MILANO E TORINO MOLTO OSTILI
Milano era irritata. Torino fischiò il re in modo così vigoroso che Vittorio Emanuele II meditò seriamente di abbandonare il Piemonte per sempre. La Sicilia si sentiva tradita perché quell’autonomia amministrativa promessa a più riprese le era stata negata. E Napoli non accettava di subire senza reagire.
Roma da conquistare sembrava, davvero, l’ultimo problema.
Negli uffici della diplomazia, semmai, si scommetteva sulle scenario prossimo venturo. Secondo D’Ideville, la capitale sarebbe rimasta a Firenze perché Francesco Crispi si era messo a comprare immobili in toscana.
Lui sapeva come guadagnare e se investiva lì era perché prevedeva uno sviluppo edile tale da fare lievitare i prezzi.
Altri erano, piuttosto, convinti che avrebbero potuto ripiegare su Napoli. I piemontesi, scontenti per avere, perduto il ruolo di prima città, pur di togliere quel privilegio ai fiorentini, avrebbero potuto accordarsi con i meridionali e scendere più a sud. Ipotesi non strampalata se Petruccelli della Gattina, deputato lucano, cominciò a prepararsi per contrastare il progetto.
«Rimestando nella cosiddetta consorteria napoletana – appuntò nel suo diario – , molte miserie e cose non liete dovrei ricordare. Capo di questa associazione di mutua difesa e di mutua assicurazione è Pisanelli. Poi, come soci ordinari: De Blasis, Capone, Massari, Borghi, e altri di cui, come questi, non è delizioso parlare. Essi – aggiunse – sono passati per quasi tutti gli affari a Napoli. Non fecero che impinguare i loro, non obliando punto se stessi, considerando la cosa pubblica un affare di famiglia. Un giornale, a Napoli, accusò taluno di essi di peculato, si commise un’inchiesta sulla denuncia ma poi La Francesca che istruiva il fascicolo fu traslocato e il processo rimase sepolto senza che nessuno degli accusati reclamasse. Mediocrità, petulanza, alto sentire di se, rimestare senza scrupoli… ecco la camorra».
MAZZINI A BISMARCK
La commedia degli equivoci sfornava sceneggiature senza sosta. Vittorio Emanuele II puntava su un’alleanza con Francia e Austria, in funzione anti – prussiana. Mazzini, al contrario scrisse a Bismarck per confessargli: «Aborro l’impero napoleonico e la supremazia che la Francia si arroga sull’Europa». Secondo lui, occorreva che «il Governo prussiano offrisse un milione di franchi e 2mila fucili ad ago». Mazzini si impegnava «sul suo onore» a servirsene «solo per sventare un’alleanza italo-francese rovesciare il governo e rovesciare il governo italiano se persistesse nel volerla concludere».
Napoleone III, in realtà, stava correndo verso la guerra contro la Prussia, senza sospettare che ne sarebbe uscito a pezzi. L’imperatore francese aveva sperato che il Savoia avrebbe potuto ricambiare il favore che aveva ricevuto. Vittario Emanuele II si era anche lasciato andare a promettere l’aiuto di un contingente di 150mila uomini quando, sotto le armi, ne, contava poco meno di un terzo. Ma il re era fatto così: cacciatore e scalatore, amatore e cavallerizzo, un concentrato di energia senza cervello. Poteva dire qualunque cosa e gli interlocutori sapevano che non serviva a nulla.
Fiutando la piega che potevano prendere gli accordi internazionali, la sinistra di allora scese in piazza al grido di «viva la Prussia… abbasso la Francia… morte al Papa».
Crispi parlò di una politica «infranciosata». Il conte Vimercati trattava con il conte Beust, austriaco, contro la nascente Germania, mentre Isacco Artom, al contrario, per incarico del ministro Visconti – Venosta, all’insaputa del re, operava perché tutto venisse mandato a monte.
La sconfitta dei francesi a Sédan consenti al generale Raffaele Cadorna di schierare le sue cinque divisioni sotto le mura di Roma. Il comandante in seconda era Nino Bixio al quale non importava che buttare i cardinali nel Tevere, a calci nel sedere.
LA MISSIONE DEL SAVOIA
Re Vittorio tentò una soluzione amichevole, mandando in missione il vecchio conte Ponza di San Martino ma il segretario di Stato, cardinale Antonelli, lo ricevette con freddezza. Pio IX lasciò sul tavolo la lettera che il re gli aveva mandato: «La leggerò quando ne avrò il tempo…».
Il 10 settembre (1870), si doveva inaugurare l’acquedotto dell’Acqua Pia-Marcia. La folla era strabocchevole e tutti inneggiavano al Papa. Pio IX si era portato l’emissario di Vittorio Emanuele II e, con la mano, gli mostrava la sua gente. «Vede? Questi sono coloro che vogliono cambiare governo?». I giornali di Firenze scrissero che le acclamazioni erano indirizzate al piemontese.
LA BRECCIA DI PORTA PIA
Tuttavia la Roma papalina aveva le ore contate Il Pontefice se ne rese conto e diede ordine di attuare una resistenza simbolica, in modo da risparmiare un prevedibile lungo assedio e bombardamenti sanguinosi ma, nello stesso tempo, dimostrare che cedeva solo alla violenza.
All’alba del 20 settembre 1870 venne esploso il primo colpo di cannone dalle parti di Porta Pia. Un curioso, salito verso via delle Quattro Fontane per vedere l’assalto, fu colpito a una gamba.
Aperta la breccia, i bersaglieri si lanciarono all’attacco, al passo di carica. I difensori non difendevano, presentarono le armi ma non rinunciarono a dileggiare i vincitori: «A’ bas les canailles!».
Vennero sparati 835 colpi di mortaio e nello scontro morirono 49 italiani e 19 pontifici. Fra gli assalitori la maggior parte deve essere considerata “vittima del fuoco amico”: le prime linee erano già a ridosso dei bastioni e i cannoni continuavano a sparare facendo danni soprattutto sui loro compagni. Chi cadeva correva anche un rischio peggiore perché quelli dietro non si fermavano e non riuscivano a scavalcarlo: almeno una dozzina che avrebbero avuto ferite di poco conto, morirono calpestati dal resto della truppa compattamente schierata.
I feriti e i morti furono, rispettivamente, 141 e 68. Il dopo fu necessario portare una squadra di soldati sulla scena della battaglia e farli sdraiare per terra, come se fossero stati uccisi, per scattare delle fotografie da inviare come documentazione.
Quando i romani conobbero l’Italia restarono indifferenti: li colpirono soltanto le uniformi
Pio IX recitò la messa e poi si trattenne, nella sala attigua al trono, dove si erano radunati i diplomatici, le guardie, i nobili, i visitatori. «Patisco un sopruso. Siete testimoni. Cedo alla violenza». I valletti servirono il gelato.
Poi se ne andarono dal Quirinale per recarsi in Vaticano. Per non darla vinta agli italiani, si portarono dietro tutte le chiavi, obbligando gli invasori alla fatica di segare i chiavistelli dei portoni.
RAPPORTI CONGELATI
I rapporti fra Governo italiano e Santa Sede restarono da quel momento interrotti e congelati fino alla visita di Giovanni Paolo II alla Camera dei Deputati. Papa Wojtyla è quello che, definitivamente, ha ricucito lo strappo del Risorgimento. Lui ha perdonato tutti e ha chiesto scusa per tutto: per Galileo Galilei e per Giordano Bruno e per Tommaso Campanella e per le nefandezze dell’Inquisizione, per i soprusi dei Crociati e per le intemperanze dei religiosi al seguito degli spagnoli in Sud America. Immaginarsi se non avrebbe chiuso un occhio su quelli che avevano rubato tutto ai suoi predecessori.
Quando i romani conobbero l’Italia, restarono piuttosto indifferenti. Si incuriosirono soltanto della divisa dei bersaglieri che osservavano con insistenza, tanto sembrava loro bizzarra. A Roma. erano abituati con le uniformi dei papalini che esibivano righe rosse e gialle. Ma quei piumazzi sul cappello e quel cappello portato a sghimbescio, sulla testa, li divertivano.
Sul pennone sali il tricolore con lo stemma sabaudo. Mazzini, invece di esultare confessò di avere «l’anima a bruno». Scrivendo a Niccolò Le Piane aggiunse: «Il Governo è andato codardamente a Roma».
Non fu il solo a sofisticare. Ricasoli, Rattazzi, Cialdini, De Sanctis, il giovane poeta Carducci trovarono da ridire su Roma capitale, senza peraltro lasciare intendere che cosa proponessero di diverso.
Centottanta deputati dichiararono di non sapere giudicare se l’aver sottratto Roma al Papa fosse un bene o un male. Si definirono “indipendenti” e occuparono i banchi di centro.
Gregorovius dichiarò di sentirsi triste al pensiero che la città del bello fosse destinata a ospitare uffici e ministeri. Infatti vennero occupati tutti i conventi dei preti e dei frati che vennero cacciati. Cancellarono 150 organizzazioni religiose e si presero 212mila ettari di terreno.
L’Europa non riconobbe ma accettò.
L’Italia era fatta ed era fatta per gli italiani.
Anche se i Padri della Patria non avevano molto tempo per godersi il successo.
I “Padri della Patria” morirono tutti nel volgere di pochi anni: i seguaci tentarono di trasformarli in “sacre mummie”
Uno dopo l’altro morirono improvvisamente senza essere così anziani. Gli amici tentarono di renderli quasi immortali immaginando una sorta di imbalsamazione, con risultati nefasti.
I “PADRI” IMBALSAMATI
I medici riuscirono a fare poco per Vittorio Emanuele II che – come cadavere – doveva resistere solo qualche giorno: il tempo di decidere se portarlo in Piemonte, come pretendeva Torino, o lasciarlo a Roma. Per un attimo, si pensò di accontentare tutti, disponendo che per sei mesi il re avrebbe riposato a Superga e per gli altri sei al Pantheon. Alla fine, si convenne che due funerali l’anno, con l’augusta salma avanti e indietro, su e giù per l’Italia, avrebbe rappresentato uno spettacolo caricaturale.
Crispi tentò di fare imbalsamare Garibaldi perché, in quel modo, Caprera sarebbe diventata un’affascinante meta di pellegrinaggio. E Paolo Gorini e Agostino Bertani – strattonando i cadaveri, per calcolo o per affetto, per malizia o per pietà – si impegnarono per assicurare una sorta di eternità a Mazzini: ma anche questo proposito naufrago nel liquido della decomposizione. Adriano Lemmi che finanziò l’impresa dei “patrioti operai” fece pagare 800 lire per una cassa mortuaria che non ne valeva più di 200.
(15 – Continua)
Fonte: srs di Lorenzo Del Bocca; da La Padania di sabato 8 ottobre 2009, pag. 14- 15 -16.