Nov 22 2009

Vittorio Emanuele III: cedette al Duce e abbandonò il Paese alla guerra civile

Category: Italia storia e dintornigiorgio @ 09:51

vittorio emanuele

RISORGIMENTO.   L’ALTRA  VERITA’

Si conclude, con la puntata numero  17, il lungo saggio  di Lorenzo Del Boca  sulla storia del Risorgimento.  Al centro di questa sezione la figura di Vittorio Emanuele III,  “re sciaboletta”,  il sovrano di cui l’agiografia coniò il mito  del  “re soldato” durante la prima guerra mondiale

Quando si trattò di fronteggiare la “marcia su Roma”, l’unica sua  preoccupazione fu che il duca d’Aosta potesse essere insediato sul trono dai fascisti.  Per il resto, lasciò che  la violenza di piazza avesse la meglio sulle  istituzioni e non si preoccupò neppure di perdere molte prerogative

La leggenda del “re soldato” nacque con le prime cannonate.  La sera del 25 maggio 1915, Vittorio Emanuele III,  alla stazione di Roma,  venne salutato dal capo del governo Antonino Salandra, quando già teneva un piede sul predellino del treno diretto verso la frontiera austriaca.  Aveva fretta di raggiungere le zone di guerra ma non si fece accompagnare troppo vicino.  Preferì stare alla larga da Udine dove il generale Cadorna aveva acquartierato i suoi comandi e, per vivere il tempo del conflitto mondiale, scelse Torreano di Martignacco che gli consentiva di starsene in disparte, defilato e, per certi versi, assente.

LA CORTE TRASFERITA

Per quattro anni, dispose che la sua residenza fosse stabilita in una casetta anonima. “con le pareti bianche”, senza lussi architettonici e i comfort appena sufficienti ma abbastanza spaziosa per ospitare il suo seguito di cortigiani.  Con lui: l’aiutante di campo, generale Ugo Brusati,  il conte Alessandro Mattioli Pasqualini,  ministro della Real Casa,  l’ammiraglio Biscaretti di Ruffia e il marchese Carlo Calabrini. Saltuariamente, venne accolta anche la regina Elena che però si fermava pochi giorni soltanto.   Il  30  aprile 1916, una di queste visite,  testimone Bruno Astori che, con qualche stucchevole  ipocrisia,  la propose ai suoi lettori della “Illustrazione Italiana” «Vi è venuta la regina – esordi come cinguettando – vi sono venuti i principini: i bambini come li chiamano, con ingenua espressione di irriverente amore. i contadini del luogo. La regina faceva lunghe passeggiate: nei dintorni, visitò da sola il paese  e alcuni stabilimenti industriali, fece molto bene, con molta semplicità.  Le contadine dicevano: parla come noi e pare come noi ma è la regina!».  Un giorno, durante questo breve soggiorno, si fece portare a casa due oche per la cucina: «Quando il re le vide, non volle che si uccidessero. Si pascono nel piccolo orto dietro casa e il re: uscendo di mattina, se ne compiace come un buon campagnolo».

Con maggiore assiduità, la casetta bianca era frequentata da altre signorine ma si trattenevano giusto il tempo indispensabile.  Cronache impertinenti raccontano che le donnine venivano accompagnate di notte, abbastanza intabarrate in modo da risultare difficilmente riconoscibili. Questione di privacy… Cronometrarono che bastavano cinquanta minuti  – qualche volta nemmeno tutti – e, poi, le ospiti potevano essere riaccompagnate a casa loro.  Si svolgeva tutto molto rapidamente, senza impegno e senza trasporto. Presentazioni. «buongiorno», «buonasera»,  «posso offrirle un cordial?»,  giù le braghe, qualche momento di sesso,  rimettersi tutto addosso, pettinarsi anche sommariamente e «arrivederci».

IL  RE  EVITÒ  IL  COMANDO

Secondo la Costituzione,  ancora in vigore nei primi decenni del 1900, il re avrebbe dovuto essere il capo delle forze armate e, di fatto suoi predecessori non rinunciarono a quel ruolo.  Vittorio Emanuele III lasciò perdere.  Si rendeva conto di non essere all’altezza – in ogni senso – e accettò il ruolo che la natura gli aveva affidato: quello di appartarsi in un angolo, senza rompere e senza interferire.  Forse contro voglia ma non contro il suo temperamento, poté decidere di impersonare la parte dell’imboscato numero uno.

Era piccolo-piccolo, con il busto sufficientemente proporzionato, ma con due gambette miserelle che lo  facevano sembrare la caricatura di una macchietta.  Un paragone? Totò,  con il cappello a visiera al posto della bombetta;  il frustino in mano al posto del bastoncino da passeggio; e la faccia  sempre accigliata al posto di quella ridanciana del comico di Napoli.  Ma per il resto: stessa postura, stessa camminata, stessi atteggiamenti e – se non si fosse trattato del re – stessa propensione a far ridere, ogni volta che apriva bocca.

Ossessionato dal problema del fisico, visse senza  facilità di rapporti con chiunque

Quello dell’altezza – o meglio della bassezza  – era stato il cruccio dei suoi genitori. Il padre,  Umberto I, conversando con l’ ambasciatore Giuseppe Tornielli, si lasciò andare a una confidenza imbarazzante e, additando il figlio piccolo che giocava lì accanto, sentenziò: «Guardi che bei frutti danno i matrimoni fra parenti…!».  Per Vittorio Emanuele fu uno choc.  Sembrava indaffarato nelle sue cose e distratto: invece – come capita spesso con i piccoli – ascoltava tutto e quella frase lo colpì come una frustata.  La registrò nel suo diario e, quel difetto fisico, diventò anche psicologicamente un suo problema.

IL PROBLEMA DEL FISICO

In effetti, il giovane principe, come frutto, non era granché.  Cresceva normalmente ma soltanto di testa e di tronco. Dal bacino in giù rimaneva sottosviluppato e,  sulle gambe rachitiche, si reggeva a stento.  A  Bestie,  la nurse  irlandese che era stata scelta per lui,  confidava: «Me le sento di vetro».

Che questo dipendesse dalle consanguineità ancestrali è probabile.  Suo padre,  figlio di due cugini,  aveva sposato una cugina: matrimoni che, in qualunque altra famiglia. sarebbero stati sconsigliati e osteggiati.

Il ragazzo, della sua anomalia,  soffriva e i genitori non facevano nulla per alleviargli la pena.  La madre, Margherita,   si occupava di lui distrattamente.  Un  po’  perché  quanto a senso materno,  scarseggiava;   un po’  perché si sentiva tutta rapita dai suoi compiti di hostess del Quirinale;  un  po’ per che – forse – si vergognava di aver messo al mondo un mostriciattolo.   Preferì  affidarlo a istruttori e governanti e lasciare che glielo crescessero gli altri.   Il padre, Umberto I,  lo trattava come lui stesso era stato trattato dal suo e come era regola in casa Savoia:  con una freddezza che poteva arrivare alla brutalità.   Non un momento di confidenza ne un attimo di familiarità.   Il papà era come se non esistesse perché quell’uomo, prima di tutto, era il re e doveva essere trattato con le forme e il rispetto dovuto a un sovrano.  Il bacio della buona notte era regolato dal protocollo.

Un giorno sua madre, in vene di rare tenerezze, gli propose una passeggiata per le vie di Roma ma lui rifiutò:  «E  dove vuoi andare a mostrarti con un nano?».  I medici gli applicavano dei tiranti e, per ore, gli stiracchiavano cosce e polpacci per vedere di allungargli le gambe artificialmente, anche solo di qualche millimetro.  Soffriva anche quando doveva sottoporsi alle lezioni di ippica per imparare ad andare a cavallo e alle  lezioni di danza perché un principino, futuro sovrano, doveva essere in grado di padroneggiare il tempo delle serate di gala.

UN  INCUBO  CONTINUO

Quel cruccio, di essere poco presentabile, lo accompagnò anche quando sedeva sul trono del regno d’Italia.  Si faceva fabbricare a Londra degli stivali con una suola di 12 centimetri che lo aiutavano a sentirsi meno terra-terra.  E, tuttavia, gli sforzi artificiali,  per apparire normale, risultarono spesso inutili.  Quando ricevette in visita ufficiale il kaiser di Germania (allora suo alleato) non gli riuscì di sentirsi a proprio agio nemmeno un momento, stretto com’era, fra quel colosso di imperatore e le sue gigantesche guardie del corpo della Pomerania che, essendo già, loro, di due metri, portavano un elmo con pennacchio che le faceva sembrare anche più imponenti.  I caricaturisti dell’epoca non si lasciarono sfuggire l’occasione.

Dovettero cambiare i criteri di arruolamento dei soldati e abbassare di cinque centimetri il limite minimo per indossare l’uniforme.  Indispensabile per non dover scartare il re che era il primo cittadino dello stato e il comandante delle sue forze armate. Probabilmente, fu necessario ritoccare anche la lunghezza della sciabola d’ordinanza da dargli in dotazione in modo che – il giusto più corta – gli consentisse di marciare senza trascinarla, come accadeva quando Renato Rascel si esibiva nella parodia del corazziere. Una mini-sciabola, insomma: una “sciaboletta”.  E gli venne assegnato il compito di comandare il primo fanteria di Napoli.

Come meravigliarsi, dunque, di un carattere aspro, ombroso e alieno dalle passioni? Quando lo informarono che avevano assassinato suo  padre, a Monza, non si lasciò sopraffare nemmeno da un attimo di commozione.  Di fronte alla salma del re morto, già vestito con la grande uniforme e con la medaglia al valore di Villafranca, rimase a ciglio asciutto. Assistette, senza commozione, alle operazioni per chiudere la bara e occupò il tempo informandosi sui sistemi di saldatura.

I FUNERALI DI UMBERTO

I funerali si svolsero il 9 agosto (1900) e il cerimoniale d’onore fu rispettato, nonostante il sole che non concedeva tregua.  Davanti il generale Alessandro Avogadro che reggeva su un cuscino di velluto la spada del re.  Poi il feretro, deposto sull’affusto di un cannone trascinato da sei cavalli. Ancora dietro l’elmo piumato del defunto, il  suo cavallo preferito, una bandiera di combattimento, una sola  corona di fiori con i nomi: Margherita, Vittorio, Elena.

Il principe, rigido e, quasi, sull’attenti non si scompose nemmeno quando un trambusto fece temere a un attentato.  Urlarono che c’erano gli anarchici e quel grido dette vita a un disordinato fuggi-fuggi delle persone che assistevano, assiepate, al funerale.  In realtà, non c’era da temere nessun attentato: era stato un mulo degli alpini che, imbizzarrito, era riuscito a strappare la cavezza di mano al conducente e aveva cominciato a correre, scalciando e provocando disordine.  La ressa che ne uscì causò un morto e almeno quaranta feriti, calpestati dalla folla che scappava in preda al panico. Vittorio Emanuele non si voltò nemmeno per accertarsi di che cosa stesse accadendo.

Solo un accenno di impazienza, in occasione della cerimonia per l’ultimo saluto. prima della tumulazione; al Pantheon: «Quanto la tirano lunga… questi preti…»  Da quel momento lo considerarono un massone e, certo, era un anticlericale.  Carlo Alberto era stato un re bigotto; Vittorio Emanuele II un ateo devoto, con contraddittori singulti di superstizione;  Umberto I un’ agnostico osservante,  pieno di riguardi nei confronti della gerarchia cattolica.  Lui,  Vittorio Emanuele III non credeva, non praticava e non riteneva nemmeno che gli convenisse salvare le apparenze.  Più che un laico, era un ghibellino.

UN SOVRANO SCONOSCIUTO

Quando salì al trono era un uomo pressoché sconosciuto, scettico e anti-eroico che, nella riservatezza del carattere, racchiudeva il senso della regalità e, insieme, una naturale diffidenza. Liquidò le scuderie del padre che era arrivato a possedere mille trecento cavalli e tenne qualche animale, giusto per presentarsi alle cerimonie ufficiali, quando proprio non ne poteva fare a meno. E, di fatto, chiuse anche le porte del Quirinale.  Con i genitori era un continuo ospitare feste e ricevimenti: lui tolse il superfluo e, persino il necessario, aspirando a vivere come “munsù” Savoia, senza segni esteriori di regalità, quasi nascondendosi. “Low profile”: riservato e, persino. dimesso.

Nelle conversazioni, anche quelle più ufficiose e meno impegnative, era così riservato da sembrare reticente. Il nonno Vittorio Emanuele II non si tratteneva in nessuna occasione: dalla sua bocca poteva uscire  qualunque cosa. Franco, spontaneo. addirittura grossolano: non si preoccupava delle gaffe in cui poteva incorrere e si esprimeva esattamente per come la pensava.  Il  padre chiacchierava e faceva chiacchierare, indulgendo spesso al gioco dei pettegolezzi e delle confidenze. Vittorio Emanuele III, invece, parlava poco e con sospetto.  Ascoltava e taceva, non si sbilanciava mai e interveniva per cambiare discorso solo quando gli sembrava che la conversazione prendesse una piega sdrucciolevole.  Difficile – e, forse, impossibile – indovinare una decisione dall’espressione del suo volto.  Asettico e senza sentimenti, freddo nel cuore, irriconoscente,  tutto preso dal suo egoismo e dai suoi interessi.

Per le questioni rilevanti, Vittorio Emanuele III  era anche disposto a passare sopra. In compenso, le sciocchezze lo appassionavano fino a farlo diventare petulante.

Da bambino, congedò i compagni di giochi perché riteneva di trascorrere la giornata in raccoglimento: «È l’anniversario della battaglia di Novara…!».

Al momento di succedere al trono, prima ancora di pronunciare il suo discorso di investitura alle Camere, fece chiudere un passaggio abitualmente utilizzato da suo padre per passare dalla sua villa a quella della vicina, sua amante, Eugenia Litta Bolognini.

PASSIONI BORGHESI

Gli avevano regalato, da piccolo, una moneta di Pio IX e si trasformò in un pignolo numismatico, capace di raccogliere una collezione imponente che gli esperti assicurano fra le più ricche e complete mai esistite.

Allo stesso modo, il dono di una macchina  fotografica con il soffietto lo trasformò in un appassionato reporter che, in quel suo marchingegno, imprigionava le immagini che voleva conservare. Anche durante la prima guerra mondiale.

Fotografa qui e fotografa là, mise insieme otto album rilegati in tela rossa con l’intenzione di regalarli al figlio perché comprendesse cos’era stata la guerra. In realtà, da quella rassegna di scatti istantanei, non era possibile comprendere nulla. Il re non arrivava mai in prima linea e, se c’era lui, era perché non si stava più combattendo da un pezzo.

Nelle immagini che scattava era impossibile immaginare l’azione del combattimento. Non si trova un’immagine di Mussolini che, pure, era stato una figura determinante per l’entrata in guerra, ferito nello scoppio di una mina nelle trincee di Doberdò e ricoverato in condizioni serie all’ospedale militare.  E ce n’è una sola di Gabriele D’Annunzio,  nella divisa dei “Lancieri di Novara”, anche lui discutibile protagonista ma certo appariscente e combattente di valore.  A Vittorio Emanuele III, non piacevano ne l’uno ne l’altro. Troppo atletici e muscolari, per le propensioni di chi doveva stare attento a come appoggiava i piedi per non cascare per terra.

I suoi scatti riguardavano le trincee vuote, i cannoni trascinati per le retrovie, alcuni reparti ordinatamente in marcia di avvicinamento: sempre gli stessi soggetti, quasi obbligati e puntualmente ripetuti.

UN  CARATTERE  SENZA  PASSIONI

Il lavoro di fotografo del re rispecchiava il suo carattere: diligente, freddo e persino un po’ distaccato.  Vedeva la guerra con l’occhio del collezionista  di immagini, senza partecipazione emotiva.  Dove ci sarebbe stato il pathos, si preoccupò di eliminarlo.  La brigata Modena aveva respinto un attacco nemico e, in uno spicchio di prato verde, fra due filari di pioppi, erano stati ammassati due o trecento cadaveri di morti, tirati fuori dalle trincee e lasciati lì, da dove sarebbero stati portati via  con le carrette.  Venne l’ordine di spostarli di 50 metri «almeno».  Vittorio Emanuele III -«sentiva»  una bella inquadratura proprio in quel punto: voleva fotografare i pioppi ma senza che la scena venisse  «rovinata» da quella macabra catasta di corpi, buttati, senza ordine, uno sull’altro.

La leggenda del  “re soldato”   prese consistenza perché – si disse – il sovrano condivideva i disagi dei militari.  Dormiva su una branda da campo e si concedeva i riposi e le licenze che toccavano agli ufficiali superiori.

Sveglia di buon mattino, al più tardi alle sette, colazione frugale poi in auto verso la zona di guerra, avendo cura di non avvicinarsi troppo.  La sua auto, una “tri-Kappa2 scoperta, era stata adattata con particolari balestre in modo da poter percorrere  strade dissestate senza schiantarsi dopo aver preso qualche buca.  Gli itinerari venivano decisi la sera  prima e comunicati  all’autista soltanto al momento di avviare il motore.

LE  CHIACCHIERE   COI  COMANDANTI

Indugiava a chiacchierare con i comandanti dei reparti che visitava,  si faceva fotografare dai giornalisti della  “Illustrazione  Italiana”, calzava scarpe pesanti e mostrava le fasce attorcigliate sui polpacci alla maniera dei “marmittoni”.  Discuteva e si   informava ma sembrava interessarsi di dettagli poco significativi per il combattimento:  quanti abitanti vivevano in quel paese, che economia rappresentavano, come si chiamavano le cime delle montagne intorno.  Del resto, i piani di battaglia era meglio che li lasciasse perdere perché quando gli facevano vedere le piantine topografiche, regolarmente, confondeva le posizioni italiane con quelle austriache.

Si sforzava anche di avvicinare i soldati  semplici ma doveva scontare l’impaccio del suo carattere, incapace di slanci d’affetto e impermeabile a qualunque tipo di passione.  Perciò, ne faceva avvicinare qualcuno: chiedeva al primo nome, cognome, luogo di nascita, se aveva famiglia e al secondo le stesse domande e di nuovo, ancora, per quello più  indietro,  con una pignoleria, senza fantasia, che meravigliava gli stessi militari.

Assaggiava il rancio dei soldati ma non lo mangiava.  All’ora di pranzo terminava la visita.   Il re, con il seguito,  risaliva in auto per fermarsi poco distante in un prato.  I suoi uomini  distendevano dei plaid e preparavano il pic-nic che consisteva in panini con salame, formaggio, uova.  Roba frugale, il re non pretendeva nulla di particolare.

I carabinieri allontanavano i contadini che  guardavano quell’ometto, in gambali, alle prese con una fetta di frittata e rimanevano delusi: quello era Vittorio Emanuele III?

QUEI  PICNIC  DI  GUERRA

Certo, i giornalisti, la raccontavano diversamente.

«L’ora di colazione, seduto sull’erba, il re levava qualche provvista che s’era portato, il suo rancio, un po’ di affettato, del pane, lo spuntino di un  buon escursionista borghese. Talvolta, mentre faceva colazione passava un fantaccino per la strada attigua.  Il re lo chiamava: vuoi mangiare un boccone? Il soldato diventava rosso, abbassava  gli occhi e non sapeva  rispondere. Il re lo incoraggiava: “Ti fa riguardo? Oh, non è che un po’ di formaggio e il pane che mangi anche  tu tutti i giorni”.  Il soldato prendeva a sedersi sul prato, accanto al suo sovrano, a dividere il rancio del re».

Il re, alle quattro,  rientrava nella casetta  dalle pareti bianche, si concedeva qualche momento di riposo e poi leggeva gli incartamenti, telefonava a Cadorna o riceveva in udienza i comandanti delle quattro armate ma si preoccupava di non interferire e, men che meno, dare l’impressione di voler sfruttare la sua autorità per orientare delle scelte in un senso, piuttosto che in un altro.

La sera, cena, con una minestra di brodo, carne e qualche verdura cotta, formaggio e frutta.  Non era ghiotto di niente.

La scelta (probabilmente obbligata dalle circostanze) di regnare senza governare sembrò indovinata,  Al momento della sconfitta di Caporetto la sua figura non venne toccata ne da accuse ne da critiche e Vittorio Emanuele III  poté proporsi come la persona attorno alla quale poteva costruirsi  lo sforzo italiano della rivincita.  Ma il successo, anche personale, durò poco perché la fine della guerra fece esplodere rancori e contraddizioni che il conflitto aveva contribuito a sedare.  Nell’Italia post-bellica, quel piccolo re non poteva rappresentare la figura di garanzia di cui c’era bisogno.  Il Parlamento non riuscì a esprimere una maggioranza solida ed efficiente e lui si limitò ad assistere, ansioso ma anche impotente, come se si fosse trattato delle sorti di un vicino di casa.

NON  SI  OPPOSE  A  MUSSOLINI

Risultava una figura lontana e, quasi astratta.  Edoardo Scarfoglio, corrosivo e irriverente poteva scrivere: «A che pro, vagheggiare la repubblica, mentre nessuno si accorge che ci sia una monarchia?».

In effetti, il suo ruolo risultò marginale. Si lasciò condurre – e qualche volta trascinare – nella direzione della corrente senza preoccuparsi di essere, coerente, con un senso angusto delle prospettive storiche.

A Bonomi che gli chiese di opporsi a Mussolini rispose di non essere competente

Quando Mussolini scelse la strada della  violenza e azzardò, lanciando la marcia su Roma, il re non si preoccupò ne di garantire l’ordine ne di interpretare la costituzione. «Viene il duca d’Aosta… viene il duce d’Aosta…!».  Altro che le sorti dell’Italia, in quel momento, sembrava preoccupato soltanto di conservare la sua poltrona, allarmato per una “voce”, secondo la quale i fascisti avevano intenzione di cacciarlo dal trono per mettere il cugino al suo posto.  Perciò accettò che la piazza vincesse sulle istituzioni e conferì a Mussolini  l’incarico di formare il nuovo governo.  Da quel momento la sua figura risultò addirittura sbiadita.  Non concorse a prendere nessuna decisione ma controfirmò, senza discutere, tutto quello che altri avevano deciso anche per conto suo.

Alcuni memorialisti forse per giustificarlo o attenuarne le responsabilità morali,  assicurano che alcune pratiche non lo convincevano.  Ed è persino peggio perché significa che si ritagliò il ruolo dell’esecutore di ordini, senza volontà e senza esercitare nemmeno il diritto all’obiezione.

Insensibile al tempo del delitto Matteotti, insensibile in occasione della protesta dei democratici sull’Aventino, insensibile al clima di intolleranza che attraversava il suo paese.  A chi gli chiedeva di intervenire rispose con una battuta che liquidò le battaglie degli oppositori del regime. «Sono cieco e sordo – spiegò al sottosegretario agli interni Aldo Finzi – i miei occhi e le mie orecchie sono la Camera e il Senato».  E ad  Ivanoe  Bonomi che gli presentava un dossier per dargli l’opportunità di intervenire fu ancor più risoluto: «Non sono un giudice, io… non sono competente…».

Eppure, quando il fascismo di sbarazzò di se stesso, con il voto  della notte del 25 luglio, (1943), a cose fatte, fu il primo ad approfittarne.  A Benito Mussolini che gli aveva chiesto udienza per rassegnare le dimissioni e riconsegnargli,  il potere di decidere, non trovò di meglio che rilevare: «L’ltalia è in tocchi».

Una banalità che, pronunciata dal barbiere, avrebbe potuto persino caricarsi di saggezza. Ma dalla bocca del re di un paese in guerra da quattro anni (che, prima, aveva affrontato la guerra in Spagna e la guerra in Etiopia) non risultava soltanto di stupefacente superficialità.

IL  25  LUGLIO  E  IL  CROLLO

Aveva già dato disposizioni perché un drappello di carabinieri, comandato dal colonnello Frignani, arrestasse il Duce all’uscita di casa sua.  Il capo del Governo, diventato ex, fu bloccato e portato via in un’ambulanza. Anche la regina Elena che, pure, non era stata tenera con i fascisti e, dunque, non poteva essere accusata di improprie simpatie, trovò modo di rimproverare il marito: quello che aveva fatto «non era un gesto da re».

Nominò capo del governo il maresciallo Pietro Badoglio e, da quel momento, a lasciarsi portare dagli avvenimenti, piuttosto che tentare di indirizzarli, furono in due.

Inerti con i nemici che stavano diventando alleati.  Subdoli, in modo irritante, con gli amici che stavano per essere dichiarati nemici.

LA  GUERRA  CIVILE

Nei 45 giorni, fra il  25 luglio e l’otto settembre (1943) il governo italiano si baloccò in chiacchiere, inseguendo voci e dando credito a una quantità di progetti per lo più strampalati.  Non si tentò la minima organizzazione e – peggio – non venne informato nessun comandante di quanto stava succedendo.  La guerra civile che spezzò l’Italia e le famiglie ha la sua origine proprio nell’ignavia di chi avrebbe dovuto provvedere e, invece, ascoltò soltanto i richiami dell’egoismo.

Da un momento all’altro, alla lettura del comunicato infame di Badoglio che annunciava, contemporaneamente, la fine della guerra e il suo proseguimento, i reparti dell’esercito si trovarono senza indicazioni e senza conoscenza di che cosa stesse capitando attorno a loro.  I tedeschi che aspettavano la notizia del cambio di campo dell’Italia si erano attrezzati per tempo e sapevano che cosa fare. Gli italiani, abbandonati a se stessi, furono colti in contropiede e dovettero prendere delle decisioni radicali sulla base del poco che era stato loro comunicato e del poco che intuivano autonomamente.  Le scelte di ciascuno, per se stesso o per l’intero  contingente che comandavano, furono a volte intempestive e a volte irrazionali. Anche dolorosamente sanguinose come per la divisione Acqui di Cefalonia che, abbandonata al proprio destino, dovette subire la rappresaglia dei nemici che sterminarono i suoi uomini, comandanti compresi.

LA  FUGA  DA  ROMA.

Il re e Badoglio?  In auto, da Roma a Pescara, scappando coraggiosamente per strade rese opache dal buio della notte, con la sola preoccupazione di  essere intercettati dalle  truppe tedesche. Tutte le vie consolari erano controllate dai nemici che avevano sistemato ovunque dei posti di blocco insuperabili.  Restava un varco solo per la Tiburtina che fu, appunto, quella che presero.  Nessuno garanti l’agibilità fino all’Adriatico, invece, dopo un intrecciarsi di soste, conciliaboli, ipotesi, piani alternativi, ci arrivarono sostanzialmente senza inconvenienti. Proprio la facilità della fuga accreditò l’ipotesi che il re (o qualcuno per lui) avesse accettato il baratto che i tedeschi gli proponevano: la possibilità di andarsene, in cambio di Roma. E, infatti, il generale Roatta dette disposizione alle truppe, ammassate attorno alla capitale, di rinunciare alla difesa della città per ripiegare verso est, nella direzione di Tivoli.

Il re “soldato”, fotografo, numismatico ed escursionista si ritrovò, sulla banchina del porto di Pescara, con un inutile Governo, un  inutile presidente del Consiglio e un’inutile congrega di alti ufficiali.  Ogni generale si era portato un seguito consistente di militari di  grado inferiore, collaboratori, segretari, accompagnatori e porta-borse a vario titolo. Una fiumana di persone che rinunciava alle proprie responsabilità e sceglieva di scappare.

Chissenefrega del dovere e dell’onore! E chissenefrega se, in quel momento, l’Italia -il loro paese – si stava spaccando, tramortito dalla vergogna e dall’incertezza, in attesa di dilaniarsi con metodica ferocia. Al resto del mondo uri chiaro ordine: «Arrangiatevi».

TRAMONTO   INGLORIOSO

La marina  aveva provveduto a far arrivare la corvetta “Baionetta” ma perché si potesse salire furono necessari i carabinieri.  Nel clima del «si salvi chi può», non contavano più ne gradi ne gerarchie e la voglia di mettersi al sicuro stava provocando una rissa dai contorni pericolosi.

La nave salpò verso Brindisi.  Persone che avevano l’ambizione di considerarsi la classe dirigente di un Paese con  l’ambizione di emergere nel mondo occidentale, finirono per comportarsi non meglio dei “quaraqquaquà” dei romanzi di Sciascia.

In quel momento, c’era qualcosa in più di un gruppo di fuggiaschi: c’era il destino di una dinastia che aveva speculato per fare l’Italia e che: per  una speculazione personale, l’abbandonava.

Il re  pensava di poter  salvaguardare la monarchia e la sua successione.  In realtà, era troppo piccolo. Forse, poteva diventare un buon campagnolo con le  sue due ochine; forse, un discreto impiegato di banca, rigoroso nel controllare ogni cifra e attento nel rilevarne le incongruenze: forse un onesto rigattiere, assennato nel valutare i pezzi di pregio e abbastanza taccagno per venderli ricavando degli utili.  Ma non poteva essere messo a capo di un paese complicato come L’Italia.  Del resto, lui non lo governò mai: si limitò a vestire i panni del re.

(17 – Fine)

Fonte: srs di Lorenzo Del Bocca; da La Padania di sabato     21   novembre   2009,  pag. 14- 15-16

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