Daniele Manin proclama la Repubblica di Venezia
Nell’agosto di 160 anni fa la resistenza all’assedio degli austriaci tra colera, carestia e bombardamenti. Il leader Daniele Manin fu costretto a prendere la via dell’esilio. L’esperienza della rivolta anti-asburgica dimostrò la straordinaria tempra della popolazione, che affrontò da sola la schiacciante superiorità militare dell’Impero, arrendendosi con onore.
A 160 anni di distanza, l’eroica resistenza di Venezia contro gli austriaci simboleggia ancora la mai sopita voglia di libertà e indipendenza dei veneti, che ancora a metà Ottocento non si rassegnavano alla caduta della millenaria Repubblica Serenissima avvenuta nel 1797.
“Viva Venezia! L’ira nemica la sua resuscita virtude antica, ma il morbo infuria, il pan le manca, sul ponte sventola bandiera bianca”, recitano le celebri strofe che il poeta Arnaldo Fusinato dedicò al terribile assedio sopportato nell’estate del 1849 dalla città lagunare.
Alla fine di agosto la resa era ormai inevitabile, tra l’infuriare di un’epidemia di colera e l’aleggiare della carestia. Da un anno e mezzo durava la nuova epopea della ex – Serenissima. Già il 17 marzo del 1848, sull’onda dei moti costituzionali dilaganti in tutta Europa (persino nella stessa capitale imperiale Vienna) i veneziani erano insorti contro l’occupante austriaco, che 50 anni prima si era visto consegnare da Napoleone Bonaparte le spoglie dell’antica Repubblica.
Fra le prime azioni dei ribelli vi fu la liberazione dal carcere del giovane avvocato Daniele Manin, 44enne di origine ebraica che inoltrando nei mesi precedenti alle autorità precise richieste in tema di miglioramenti amministrativi si era guadagnato l’ostilità del potere, ma anche il sincero favore della popolazione.
Liberato assieme all’amico Niccolò Tommaseo, Manin, noto per le sue posizioni liberali e repubblicane, proclamò la Repubblica Veneta di fronte alla folla riunita in Piazza San Marco alle 16.30 del 22 marzo 1848, divenendone subito presidente provvisorio. Grossomodo nelle medesime ore, si arrendeva la locale guarnigione di soldati austriaci, comandata dal maresciallo Ferdinand Zichy.
Seguirono mesi convulsi, in cui il Piemonte tentò di battere l’Austria durante la prima Guerra d’’indipendenza, mentre nella stessa Venezia si rafforzavano le istanze a favore della fusione col Regno Sabaudo, avversata però dal repubblicano Manin.
Il 4 luglio il giovane presidente dovette accettare la fine della Repubblica e la formale sottomissione al re Carlo Alberto, sia a causa dell’estenuante dibattito con i moderati “albertisti” favorevoli ai Savoia, sia per l’urgente necessità che a Venezia arrivassero fattivi aiuti contro l’Austria. Tuttavia la riscossa delle armate imperiali, guidate dall’anziano, ma temibile, maresciallo Johann Josef Radetzky (82 anni) non si fece attendere. Con l’armistizio fra Austria e Piemonte del 9 agosto, Venezia si ritrovò tanto sola quanto decisa a non arrendersi facilmente.
Così. Dall’ 11 agosto 1848 Manin riprese in mano la situazione dapprima come dittatore provvisorio, poi come leader di un triunvirato a capo di un nuovo “Stato di Venezia”. Ad affiancarlo, l’ammiraglio Leone Graziani e il colonnello Giovanni Battista Cavedalis. Nella seconda metà dell’anno la città si organizzò a difesa, cercando anche l’aiuto militare della Francia, che però non venne, ma confidando nella rivolta ungherese di Lajos Kossuth, che teneva impegnati nel centro dell’Europa migliaia di soldati austriaci distogliendoli dal Veneto. In data 11 ottobre un rapporto di Cavedalis indicava in 21.000 i soldati e marinai disponibili a Venezia, fra cui molti volontari da tutta Italia.
I militi veneziani furono talvolta vincitori in vari scontri, come la sortita su Mestre del 27 ottobre 1848, ma furono episodi isolati. Con la primavera seguente la morsa si strinse sempre più sulla città assediata, nonostante il 2 aprile 1849 Manin e il suo governo avessero decretato la “resistenza a ogni costo”. Già il 4 maggio gli austriaci presero a cannoneggiare il forte di Marghera, uno dei punti più strategici ancora in mano veneziana. I soldati veneti tennero duro tre settimane e infine evacuarono il forte la sera del 26 maggio. A partire dal 13 giugno, poi, le artiglierie furono schierate così vicine alla città da dare il via al primo bombardamento della millenaria storia di Venezia.
Qualche granata venne dapprima sparata sui quartieri occidentali, in particolare presso il ponte di San Giobbe. Nella notte fra il 29 e il 30 luglio il martellamento si fece più massiccio, dato che gli austriaci elevarono i cannoni all’alzo di 45 gradi per assicurare la maggior gittata possibile e coprire più vaste porzioni della città. Nonostante i danni alle case, la popolazione non si perse d’animo e dalle zone colpite si raccolse attorno a Piazza San Marco.
Intanto gli assedianti inasprirono il blocco terrestre e navale, causando dal 17 luglio la penuria di pane in città. Pochi giorni dopo fu la volta del colera, che infierì sugli abitanti indeboliti dalla carestia. Venezia aveva già patito tale morbo dal 1835 al 1837, quando si ebbero 23.000 morti in tutto il Veneto. Il 23 luglio 1849 il colera si rifece avanti mietendo la prima vittima e arrivando a 106 morti già il 6 agosto. Entro due settimane, alla data della resa i decessi per l’epidemia sarebbero saliti a ben 2.788. Terribile agosto per l’ex-Serenissima, gli ultimi difensori dell’indipendenza avevano le munizioni contate mentre vedevano i loro cari falcidiati dall’epidemia e dalla fame.
Vedevano inoltre gli austriaci bombardare la città coi cannoni e persino con ordigni a miccia ritardata appesi a piccoli palloni aerostatici, primo esempio accertato di bombardamento dal cielo! Manin e il suo Governo si decisero alla resa, firmata il 24 agosto 1849. La lunga lotta era costata a Venezia 1.000 morti in combattimento, 3.000 per colera e malaria e 600 feriti. Ma gli uomini di Radetzky avevano pagato carissimo il trionfo! L’esercito austriaco soffrì ben 12.000 morti e 15.000 feriti, consumando oltre 500.000 colpi di cannone. «Venezia è grande e la sventura le accresce nobiltà», commentò poi Daniele Manin sulla via dell’esilio, che lo portò in Francia, dove mori nel 1857.
Se anche il ritorno all’indipendenza era stato effimero, la città lagunare lo aveva vissuto intensamente e le innumerevoli prove di eroismo durante la disperata esistenza davano almeno il sapore di una vittoria morale.
Fonte: srs di Mirko Molteni: da La Padania di domenica 24 agosto 2009