“Quante persone mi porti al concerto?”
“A dire il vero pensavo che interessasse la musica, mica gli amici. Serve anche che le presenti la fidanzata?”
“Ma hai una lista di amici che chiami quando suoni in giro?”
“Sì, ma non ho idea se quella sera avranno voglia di farsi 50km per sentirmi suonare.”
“Vabbè, passa di qui che ci mettiamo d’accordo”
“Hanno inventato il telefono proprio per evitare alle persone di perdere tempo e spendere la tredicesima in autostrada e benzina.”
“Porta recensioni e un CD demo.”
“Tanto lo so che resteranno sullo scaffale sotto al bancone per settimane, e che tutta questa manfrina serve solo a farmi telefonare almeno altre 4-5 volte, giusto per sottolineare chi è lo schiavo e chi è il padrone.”
“Speriamo solo che la serata vada bene (cioè io venda molta birra, ndr)”
“Tranquillo: lo so già che se va male ci viene dato metà del compenso (forse) ma che se va benissimo non ci viene dato il doppio”
Non è una conversazione tratta da qualche pièce teatrale di S. Beckett o E. Jonesco ma il dialogo tipico che intercorre tra un gestore di pub (che d’ora in poi chiamerò il barbaro per brevità) dove si fa musica live ed un musicista che cerca di proporsi per un concerto. I rapporti musicisti-barbari vengono costantemente arricchiti da gustose scenette; il chitarrista sta per entrare nel locale quando il barbaro lo blocca apostrofandolo: “Non va mica bene sai? Non hanno prenotato neanche un tavolo i tuoi amici”. Oppure si entra e si vedono dei tavoli riservati. Il barbaro li ha riservati per i nostri amici, senza neanche chiedere. Gentile davvero.
Non è sempre stato così. Negli anni passati chi gestiva quei locali erano persone che amavano la musica almeno quanto lo spillare birra, se non di più. Sapevano distinguere musicisti improvvisati da quelli navigati e sapevano conseguentemente adattare preferenze e compensi.
Con quello che si prendeva trent’anni fa, complice anche il ragionevole costo dei trasporti, ci si poteva permettere l’acquisto di strumenti e amplificatori. Quando ci rubarono tutta la strumentazione dal posto dove provavamo, ad esempio, ci fu un’intensa attività di ricerca date che ci permise di ripagare tutto nel giro di pochi mesi. Semplicemente impensabile oggi.
Quasi quarant’anni dopo abbiamo a nostra disposizione della strumentazione costosa e siamo cresciuti musicalmente. Carichiamo l’auto con migliaia di euro di strumentazione, spendiamo una piccola fortuna in autostrada e benzina (obbligatorio offrire l’auto più capiente e limitare il carico per tentare di farci stare tutto su un’unica macchina, ma non sempre riesce), mettiamo a disposizione una vita di esperienza sul palco per divertirci e divertire e alla fine…..facciamo due conti. Si parte da casa alle 7 e si ritorna alle 2. Sette ore tonde. Tolte le spese, se tutto va bene, ci sono 50€ a testa. Fanno 7€ all’ora. Con migliaia di euro di strumentazione e quarant’anni di esperienza. Se fosse per i soldi sarebbe meglio scaricare casse di patate al mercato ortofrutticolo.
Per fortuna non lo facciamo per i soldi, anche se D’Alema all’epoca decise di mettere fine a questo sistema fai-da-te in cui musicisti e gestori si arrangiavano tra di loro. Nel nome della trasparenza il titolare di IkarusII, comprato con un mutuo concessogli da Fiorani, decretò che ogni musicista che facesse anche solo una data all’anno dovesse essere iscritto ad una qualche organizzazione tributaria. Maledetti evasori, i musicisti. Nascono così le cooperative musicali, dove gli iscritti sono autorizzati ad emettere quietanza. Di quei 50€ cui accennavo sopra non ne rimane neanche più l’ombra, perchè l’iscrizione a quelle cooperative costa. Le sanzioni sono terribili, si arriva anche alla confisca di tutta la strumentazione. Dopo avere bombardato l’ex Jugoslavia nel nome della pace, D’Alema bombarda con chirurgica precisione i testicoli dei musicisti. Nel nome della cultura, ovviamente.
Il progressivo impoverimento in atto rende sempre più difficile il rapporto dei musicisti con la loro passione artistica: oltre alla desertificazione di settore (e culturale in genere), ci sono da tenere presenti inutili balzelli e proliferazioni burocratiche made in SIAE. Al mio matrimonio ho voluto circondarmi di amici musicisti con cui fare una jam session dopo la torta rituale. Pur essendo iscritto SIAE e suonando brani di mia composizione sono stato costretto a sborsare 100€ di diritti di autore. Che ovviamente non mi sono mai stati restituiti, ma sono andati nel gran calderone che premia chi maggiormente vende. Chessò Gino Paoli. Così la SIAE per difendere i miei diritti mi ha fatto fare un bonifico di 100€ a Gino Paoli. Beato copyleft.
Aggiungiamoci pure che sui libri si applica l’IVA ridotta, mentre sugli strumenti musicali no. Come se un libro fosse uno strumento culturale ma una chitarra no.
Così va a finire che, pur di non intrattenere rapporti con i nuovi barbari (i gestori del dialogo sopra) si preferisce organizzare le serate noi. Il trentennale del gruppo, ad esempio. 1976-2006. Oppure un compleanno. Allora sì che invitiamo gli amici, ma non perchè si affoghino nella birra del barbaro di turno.
Una volta ho addirittura tentato di organizzare un Blues Festival nella mia città. Dopo mesi di contrattazioni durante le quali mi pareva di avere raggiunto un qualche risultato, l’illuminata amministrazione di sinistra finalmente metteva nero su bianco la propria disponibilità: un po’ di sedie. Così, oltre a dovere organizzare tutto (l’avrei fatto gratis comunque) e a rischiare di mio dato che non c’era l’ombra di un centesimo nella generosa offerta dell’assessore alla cultura, avrei dovuto pagare anche 1200€ di occupazione di suolo pubblico. Per via delle sedie, proprio così.
Altro che evasione fiscale di baffino! Se devo tirare le somme degli ultimi anni devo dire che tra manutenzione, acquisti e spese varie posso solo considerare la musica come andare in vacanza: ci si diverte, ma si spende parecchio.
Sia come sia alla fine è rimasto solo dello spazio per chi fa musica gratis (o quasi) e si porta appresso orde di unni che tra una birra e l’altra ruttano a tempo di qualche brano di rock italiota (simpatica antinomia).
Unni e barbari si trovano bene assieme, pare. Stesso ceppo culturale.
Parlando di unni, una volta alle feste dell’Unità chiedevano se potevamo mica suonare “la cumparsita” o roba analoga. Data l’età avanzata ed il contesto, la cosa mi irritava ma tentavo di non badarci. Ben diverso è quando mi si avvicina al palco un unno di ultima generazione per domandarmi un brano di Vasco Rossi. La voglia di sferrare un calcio che mandi in frantumi una decina di denti è tanta e mi trattengo solo per evitare noiosi processi penali: la soddisfazione non vale le migliaia di euro dell’avvocato.
Insomma questa situazione incancrenita porta ad un avvitamento su sé stessa della dinamica di ascolto: i barbari chiamano gruppetti di poco conto perchè costano nulla e riempiono la sala di entusiasti consumatori, mentre gli spazi per musicisti navigati spariscono. Per carità: giustissimo dare opportunità ai nuovi arrivati di fare la gavetta (resterebbe solo da chiarire se sia sempre musica quella suonata dai gavettisti). Purtroppo c’è solo gavetta, e tutto il resto che c’era una volta in termini di varietà di offerte è sparito (salvo rare eccezioni e le imponenti tournée nei palasport).
Quindi il frequentatore di birrerie si abitua ad ascoltare musica di un certo tipo, cioè la stessa che ormai tutte le radio trasmettono, in ossequio alla dittatura delle chart che le major discografiche impongono. Sarà forse per questo che Finardi, sostenitore dantan delle “radio libere” adesso dichiara di volersene uscire dal business musicale (ma non dalla musica). Dice cioè di non volere più avere nulla a che fare con la barbarie. Stonata metamorfosi di “libero” in “commerciale”.
E’ andata peggio a Lester Chambers dei Chambers Brothers, che dopo avere venduto milioni di dischi si ritrova a dover fare affidamento ad associazioni caritatevoli per sbarcare il lunario, e denuncia la desolante barbarie dell’industria discografica.[1]
Courtney Love mette sotto la lente di ingrandimento tutto il business musicale e nota come i barbari operino all’interno della cultura dei soldi facili ed evitino di premiare chi svolge effettivamente il lavoro. [2]
Sparito il sostegno ai potenziali nuovi geni musicali, si assiste all’infinita riproposta del conosciuto, ovvero alla generazione di replicanti: zombie senza futuro sostenuti da barbari per un pubblico di unni.
[1]http://www.vice.com/read/screwed-over-by-the-music-industry-lester-chambers
[2]http://www.icrates.org/swimming-with-sharks-a-critical-view-of-the-future-of-the-music-industry/
Fonte: da Appello al Popolo del 17 maggio 2012
Link: http://www.appelloalpopolo.it/?p=6663