Ott 31 2012

GIAZZA TRA STORIA E MEMORIA: VITTORIO AVESANI E L’ECCIDIO DEI PARTIGIANI A GIAZZA DURANTE LA SECONDA GUERRA MONDIALE.

 

Vittorio Avesani e l’eccidio dei partigiani a Giazza durante la Seconda Guerra Mondiale. Una storia che forse molti conoscono, ma che grazie alle testimonianze e ai documenti raccolti da Pantheon, torna ancora protagonista di un dramma senza tempo.

 

Indagini rimaste incompiute, domande, dubbi. «Chi ha ucciso chi?». Forse bisogna anzitutto domandarsi perché. Perché  la guerra? Perché questo bisogno di atrocità?  Al di là del mistero che cela spesso gli avvenimenti passati, c’è una realtà: la morte di tre giovani, spinti da un sentimento coscienzioso di ribellione verso chi la Patria l’aveva rovinata.

 

Era il 22 giugno 1944 e Vittorio Avesani, tenente degli Alpini, fu una delle giovani vittime. Si trovava a Giazza. Insieme a lui Gino Consolaro e Pietro Bauce. «Quella mattina le mie zie sentirono partire una camionetta dall’accampamento delle SS», ci racconta Maria Pia, nipote di Vittorio. Dopo l’8 settembre del 1943, infatti, i tedeschi avevano occupato una casa di fronte a quella della famiglia Avesani, nei pressi del Saval a Verona.

«Dopo qualche ora videro ritornare le camionette, piene di viveri, galline, oggetti». Continua Maria Pia: «Eleonora, una delle sorelle di Vittorio, si era sentita male». Un presagio? Vittorio da quasi un anno era diventato partigiano, aderendo a un gruppo con sede a Campobrun, in Lessinia. In tutti quei mesi, solo una volta era ritornato a casa, per salutare la nuova arrivata in famiglia, Maria Pia. Fu solo una brevissima sosta. Poi di nuovo la fuga sulle montagne. E il silenzio. L’ultima notizia di Vittorio fu quella della sua uccisione da parte dei tedeschi.

La signora Rosa della contrada di Buskangrüabe a Giazza era presente, quella mattina. Aveva incontrato i quattro partigiani e dopo qualche minuto aveva sentito alcuni spari provenire dalla sua contrada. «Tutto era in fiamme. E i familiari, spaventati a morte, piangevano».

Vittorio, classe 1919, fu uno di quei giovani che per un intero ventennio assorbì il pensiero fascista, in cui era nato e cresciuto. Unico tra i suoi otto fratelli a iscriversi alla facoltà di Giurisprudenza a Padova, proprio qui il rettore dell’Università, Concetto Marchesi, rivolse un appello agli studenti: «Non lasciate che l’oppressore disponga ancora della vostra vita [ … ] liberate l’Italia dalla servitù e dall’ignominia».

Probabilmente in questo ambiente Vittorio si rese sempre più consapevole dell’assurdità in cui stava vivendo. E con la guerra il distacco morale sarebbe stato definitivo. Poi arrivò il giorno in cui la speranza di una liberazione si fece finalmente reale. Ma in Italia le reazioni all’8 settembre furono disparate. Ci fu chi assistette umiliato e deluso. Chi si rifugiò nell’indifferenza. Chi sperò nella vittoria degli avversari: «preferivano essere liberi nella sconfitta che schiavi nella vittoria». Milioni cominciarono a sostenere la Resistenza, nelle città e nelle campagne di tutta Italia e anche nelle montagne. Qui il potere giungeva solo per riscuotere le tasse, i contadini si riconobbero nei ribelli. Per la difesa dell’omertà. Anche se spesso dovevano fare buon viso a tutti, tedeschi, fascisti, partigiani che fossero, per il naturale spirito di sopravvivenza.

 

Ma in questa sanguinosa guerra civile, che non guardò in faccia a nessuno, si può parlare effettivamente di ribellione? Verso cosa? Verso chi aveva imboccato la strada delia distruzione della Patria? Forse Vittorio, come molti altri, cercò di agire obbedendo alla propria coscienza, e non a un’ideologia perversa. «Chi difese più la Patria e l’onore della Patria: quelli che obiettarono o quelli che obbedendo resero odiosa la nostra patria a tutto il mondo civile? Quali tra i due contendenti erano i ribelli e quali i regolari?». L’ultima guerra, si chiede ancora Don Milani, è stata un confronto di Patrie o, piuttosto, di ideologie?

 

L’idea di patria, essendo un concetto astratto, è adattabile a diverse correnti e partiti. Così dopo l’8 settembre si videro confrontarsi due schieramenti italiani. Entrambi lottavano per la patria. «Entrambi sventolavano la stessa simbologia di Mazzini, Garibaldi, Mameli, dei fratelli Bandiera», sottolinea lo storico Emilio Gentile.  E all’interno dello stesso movimento della Resistenza le correnti erano diverse. Dopo il ’45, infatti, quel «patriottismo resistenziale», quella sorta di «secondo Risorgimento», mosso da un mito comune, la liberazione dal fascismo, non sarebbe durato a lungo. Le correnti politiche si imposero con prepotenza. Cominciava l’era della partitocrazia. E con essa la lacerazione della memoria della Resistenza.

 

La percezione dei fatti spesso prevale su come sono realmente accaduti. La memoria è un insieme di processi che la mente usa per registrare le esperienze, attraverso la creazione di rappresentazioni. Quando queste prevale influenzando pesantemente il rapporto tra memoria e storia, si diffonde la versione della storia che corrisponde al pregiudizio e non quella che corrisponde agli eventi. Così hanno prevalso «le forme del passato che scindono fascisti ed italiani, che negano il consenso al fascismo e trasformano l’antifascismo in riscatto».

 

Molte storie sono state così inquinate. Altre sono cadute nell’oblio. Quella di Vittorio Avesani è una di queste. L’indagine dell’eccidio fu archiviata negli anni Sessanta. Qualcuno a Verona aveva sicuramente informato i tedeschi del nascondiglio dei partigiani a Giazza. Solo una breve inchiesta fu riaperta alcuni anni fa, stimolata dalla curiosità di Giuseppe Anti.  Ma i misteriosi colpevoli sono rimasti senza giudizio.  Solo Eleonora, la sorella di Vittorio, sembra conoscesse la verità.  Ma non la svelò mai, rassicurandoci solo con queste parole: «chi aveva fatto la spia, prima di morire, ha patito tanto».

 

 

Fonte: srs di Giovanna Tondini, da Pantheon di giugno 2012   n.5 

 

 

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