Le testimonianze raccolte dal nostro cronista, unico reporter italiano nell’area del presunto attacco chimico: “Le bombe sono un incubo. Eppure la storia del sarin…”
Ottocento metri più in là, oltre il fiume Barada, c’è Jobar, il villaggio punta di lancia dello schieramento ribelle che attraversa la piana di Ghouta, la foresta («ghouta» in arabo ndr) degli orrori dove a dar retta a Obama le armi chimiche avrebbero ucciso più di mille e cinquecento persone.
Qui, a meno di 800 metri, si stende uno dei quartieri più eleganti di Damasco, il preferito dalla borghesia cristiana della capitale. Ma anche qui eleganza e lusso hanno lasciato il posto a guerra e distruzioni. Il «Caffè di Roma» ne porta tutti i segni.
Una settimana fa, pochi giorni dopo la strage chimica destinata a far scattare l’intervento statunitense, le granate provenienti da Jobar sono esplose sul marciapiede qui davanti, hanno colpito in pieno Padre Amer, un prete siro cattolico sedutosi per un caffè pomeridiano. «Urlava, era in un lago di sangue, aveva la faccia distrutta, il fianco completamente aperto – ricorda Rania una ragazza cristiana – ora è ancora in ospedale preghiamo ogni giorno per lui».
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