di REDAZIONE
Proponiamo in ANTEPRIMA per L’Indipendenza la traduzione in italiano dell’articolo Nelson Mandela, ‘The Che Guevara of Africa’, un estratto dal capitolo The Che Guevara of Africa scritto da Ilana Mercer, scrittrice liberale classica/paleolibertaria canadese nata in Sud Africa, è opinionista e commentatrice presso varie testate giornalistiche statunitensi. I brani sono tratti dal suo libro Into the Cannibal’s Pot: Lessons for America from Post-Apartheid South Africa, edito nel 2011 (si fa riferimento alle pagine 140-151), il quale oltre a confutare vari falsi miti apologetici nati attorno alla figura di Nelson Mandela, descrive in ambito socio-politico il Sud Africa post-apartheid. (Traduzione di Luca Fusari, Copyright 2013 Ilana Mercer.com)
IL CHE GUEVARA D’AFRICA
(…) In una certa misura, la leggenda di Mandela è stata nutrita e addirittura creata dagli occidentali sentimentali. La valutazione dell’uomo (che Oprah Winfrey e la top model Naomi Campbell hanno preso a chiamare col titolo onorifico africano di ‘Madiba’) l’affettuosità di Winfrey e Campbell è stata determinata dall’imbevuto sentimentalismo che la nostra cultura in stile Mtv ha generato. Il sorriso televisivo di ‘Madiba’ ha prevalso sulla sua filosofia politica, fondata su una energica redistribuzione del reddito nella tradizione neo-marxista, per la “riforma agraria” della stessa tradizione, e sull’animosità etnica verso gli afrikaner.
Guru e tafano, saggio e showman, Nelson Rolihlahla Mandela non è al centro di questa monografia. Si possono trovare navi cariche di biografie osannanti il personaggio. Del resto concentrarsi su Mandela in un racconto sul Sud Africa di oggi, sarebbe come concentrarsi su Jimmy Carter in un racconto sull’America del 2010.
Andando contro la tendenza agiografica attuale, si deve ammettere che, nonostante il consenso sul “socialismo razziale” di Mandela (il quale sta attualmente contribuendo alla distruzione del Sud Africa), il suo ruolo attuale nella zimbabwenizzazione del suo Paese è maggiormente simbolico, come simbolica è la sua tardiva condanna di Mugabe davanti ad una folla intellettualmente carnosa di “modelli di Moody, dive disperate e priapici ex presidenti”, che si sono riuniti per festeggiare il novantesimo compleanno di Nelson. La nostra attenzione è quindi rivolta non al vecchio leader, ma alla sua eredità: l’ANC, The Scourge of the ANC, per citare il titolo del saggio polemico di Dan Roodt.
Il patrizio Mandela merita certamente i soprannomi riversati su di lui dall’insigne storico liberal Hermann Giliomee: «ha avuto una postura imponente e una presenza fisica seria e carismatica. Aveva anche quella rara qualità intangibile meglio descritta da Seamus Heaney come la ‘grande trasmissione della grazia‘». Innegabilmente ed unicamente, Mandela combina «lo stile di un capo tribale e quella di un leader democratico istintivo, accompagnato dalla cortesia del vecchio mondo». Ma c’è di più su Mandela per soddisfare l’occhio proverbiale.
Anno 1992, l’occasione è stata immortalata su YouTube nel 2006. Mandela saluta stringendo col pugno del potere nero. Lo fiancheggiano i membri del Partito Comunista Sudafricano, i leader del Congresso Nazionale Africano (ANC), e il braccio terrorista dell’ANC, la Umkhonto we Sizwe (‘Lancia della Nazione’ o MK), che Mandela ha guidato. I suoni dolci dell’inno MK mascherano le parole assassine della canzoncina:
«Vai sicura lancia
Lancia della Nazione,
Noi i membri della Lancia ci siamo impegnati a ucciderli,
uccidere i bianchi»
Il ritornello orecchiabile è ripetuto molte volte e infine sigillato con il responsoriale, ‘Amandla!’ (‘Potere’), seguito da ‘Awethu’ (‘al popolo’). Il geniale contegno di Mandela è in contrasto con l’inno agghiacciante che sta pronunciando con la sua bocca. «Uccidere i bianchi» è il grido di battaglia che suscita ancora l’entusiasmo ai funerali e alle riunioni politiche in tutto il Sud Africa, ed è in pratica una colonna sonora per l’epica campagna d’omicidio attualmente condotta (ma di rado divulgata) contro i boeri del Paese.
Questo è un lato del venerato leader che il mondo vede raramente, o meglio, che ha scelto di ignorare. In effetti, sembra impossibile convincere i circoli incantati dell’Occidente che il loro idolo (Mandela) aveva un lato sanguinario, che il suo Paese (il Sud Africa) è lontano dall’essere un idillio politico, e che questi fatti potrebbero in teoria essere importanti da valutare circa il personaggio.
Grazie alla stampa estera, un’aura sfuggente ha sempre circondato Mandela. Al momento della sua cattura, nel 1962, e nel suo processo per terrorismo, nel 1963, è stato descritto in possesso di qualità da Primula Rossa, come capacità di materializzarsi e smaterializzarsi misteriosamente per i suoi cammei spettacolari. In realtà il suo arresto e la sua cattura sono stati decisamente più prosaici (a quel tempo, il padre della scrittrice aveva brevemente dato riparo ai figli di due ebrei fuggiaschi coinvolti con le attività dell’ANC. La casa di famiglia fu saccheggiata, e il materasso di Ilana, allora bambina triturato dalla polizia sudafricana).
Circa il mito di Mandela come disciplinato combattente per la libertà, la Pittsburgh Tribune Review scrive ironicamente:
«Quale recente avvocato qualificato, [Mandela] era conosciuto più come un gran donnaiolo che come un attivista politico mirato. Per l’orrore dei suoi colleghi del Congresso Nazionale Africano (ANC), ha anche immaginato di diventare un pugile professionista, quindi alcuni dell’ANC hanno tratto un sospiro di sollievo quando è andato in galera».
Né l’ANC era molto capace col terrorismo, certamente non aveva nulla di ascetico e di auto-sacrificale come invece i salafiti e gli uomini di al-Qaeda. «Senza le competenze e la logistica dell’Europa orientale, per non dimenticare dei soldi svedesi, [l’ANC] non sarebbe mai riuscito a realizzare e a trasportare una bomba attraverso il confine sudafricano», sostiene Roodt.
Non fu certamente questo a smorzare l’entusiasmo di Joseph Lelyveld per The Struggle. Ma quando l’ex (di cui sopra), editorialista del New York Times andò a cercare i suoi eroi dell’ANC in esilio per tutta l’Africa, non trovò altro che uomini ubriachi monosillabici ed apatici, che egli disperatamente cercò di svegliare con la retorica rivoluzionaria.
In ogni caso, il santificato Mandela fu catturato mentre tramava un sabotaggio ed una cospirazione per rovesciare il governo. «Mandela (…) liberamente lo ha ammesso al suo processo, ‘Io non nego di aver pianificato un sabotaggio. L’ho programmato come il risultato di una valutazione calma e sobria della situazione politica». Conferma Giliomee: « sotto la guida di Nelson Mandela, il braccio armato dell’ANC, la Umkhonto we Sizwe, ha intrapreso una campagna di basso profilo di sabotaggio».
Per questo fu incarcerato a vita. Nel 1967, gli Stati Uniti avevano similmente incarcerato la Pantera Nera Huey Newton per aver commesso omicidio ed altri atti “rivoluzionari” contro la “razzista” America. L’Fbi sotto Edgar J. Hoover procedette a dare la caccia ai suoi connazionali che stavano tramando sabotaggi ed assassini. Erano davvero in errore? Il governo sudafricano in seguito offrì a Mandela la sua liberazione se avesse delegittimato la violenza. Mandela eroicamente, almeno secondo The New York Times, si rifiutò di fare ciò, così rimase dentro.
In quegli anni, il Pentagono aveva classificato l’ANC come organizzazione terroristica. Amnesty International concordava, dato che Mandela non fu mai riconosciuto quale prigioniero di coscienza a causa del suo impegno per la violenza. Nel 2002, a un «membro dell’ANC in esilio a Tokyo (…) è stato rifiutato il visto per gli Stati Uniti a causa del suo passato terrorista».
Mandela non ha sempre incarnato la «grande trasmissione della grazia». L’uomo riverito dai Clinton, dal rocker Bono, da Barbra Streisand, da Richard Branson, e anche dalla Regina Beatrice dei Paesi Bassi, era più scortese di George W. Bush. Nel 2003, Bush conferì a Mandela la più alta onorificenza civile della nazione, la Medal of Freedom.
Mandela avidamente accettò l’onore, ma rispose sgarbatamente definendo l’America «una potenza con un presidente che non ha lungimiranza e non può pensare correttamente» e che «ora vuole far precipitare il mondo in un olocausto. (…) Se c’è un Paese che ha commesso indicibili atrocità nel mondo, sono gli Stati Uniti d’America. A loro non importa gli esseri umani». Se l’allora ottantacinque anni Mandela si riferiva all’invasione dell’Iraq, deve aver dimenticato, nel suo rimbambimento, che lui aveva invaso il Lesotho nel 1998. Il bue che dà del cornuto all’asino.
RIDENOMINARE IL SOCIALISMO
La storia è stata estremamente gentile con ‘Madiba’. Da quando arrivò al potere nel 1994, circa 300 mila persone sono state assassinate. Il grido di battaglia della Umkhonto we Sizwe è indubbiamente, emblematico della realtà omicida che è oggi il Sudafrica democratico.
Pur avendo scelto di non implementare l’agenda radicale dell’ANC dagli anni ’50, Mandela ha sostenuto dei scribi socialisti stravaganti e disprezzabili come la canadese Naomi Klein. L’esigente signora Klein, autrice di No Logo: Taking Aim at the Brand Bullies, avrebbe brillantemente accreditato a Mandela di aver ridenominato il socialismo.
A parte la sua furba politica della terza via, Mandela è tuttavia rimasto impegnato come i suoi predecessori politici nel promuovere la pianificazione sociale su base razziale. «Un elemento importante della nostra politica è la derazzializzazione dell’economia per garantire che (…) nella sua proprietà e nella gestione, questa economia sempre più rifletta la composizione razziale della nostra società. (…) La situazione non può essere sostenibile in un futuro nel quale l’umanità si arrendesse al cosiddetto libero mercato, con il governo a cui verrebbe negato il diritto di intervenire. (…) L’evoluzione del sistema capitalistico nel nostro Paese ha messo sul più alto piedistallo la promozione degli interessi materiali della minoranza bianca», ha dichiarato alla cinquantesima Conferenza ANC, il 16 Dicembre 1997.
Sbagliato ‘Madiba’!. Se non altro, il capitalismo ha minato il sistema delle caste del Paese. I capitalisti hanno sempre sfidato le leggi su base razziale dell’apartheid a causa dei loro «interessi materiali». «Il più grande sconvolgimento industriale della storia del Sud Africa», lo sciopero dei minatori del 1922, scoppiò perché «la Camera delle Miniere annunciò l’intenzione di estendere l’uso dei lavoratori neri. Nel 1920, le miniere d’oro impiegavano oltre ventunmila bianchi (…) e quasi 180 mila neri». I minatori bianchi erano di gran lunga più costosi dei minatori neri, e non molto più produttivi.
«Uno dei capi minerari, Sir Lionel Phillips, dichiarò chiaro e tondo che i salari pagati ai minatori europei misero l’esistenza economica delle miniere in pericolo. (…) I costi di produzione erano in aumento così le case minerarie, interamente di proprietà inglesi e senza grandi simpatie per la loro forza lavoro sempre più afrikaner, proposero di abbandonare gli accordi esistenti con i sindacati bianchi e di aprire ai lavoratori neri (…) nei lavori precedentemente riservati ai bianchi».
Ne seguì una piccola guerra. Il bigottismo portò a spargimenti di sangue e alla dichiarazione della legge marziale. Anche se fu un evento determinante negli annali del lavoro sudafricano, lo sciopero generale esemplificò il modo in cui i capitalisti del Sud Africa lavorarono contro l’apartheid per massimizzare il loro interesse. Mandela guarda chiaramente gli affari attraverso la parte sbagliata del telescopio.
Problematico e troppo orwelliano è l’uso mandeliano della parola ‘derazzializzazione’, quando ciò che in realtà stava descrivendo era la prescrizione di una razzializzazione, uno Stato coercitivo in cui l’economia è costretta, con le buone o con le cattive, a riflettere la composizione razziale del Paese. Non a caso, il padre della ‘Rainbow Nation’ generò anche l’Employment Equity Act. Ha visto l’ANC assumere la proprietà parziale degli affari.
Il compagno d’armi di Mandela, il defunto Joe Slovo, una volta parlò della natura della proprietà nel Nuovo Sud Africa. In un’intervista con un giornalista liberal, questo leader dell’ANC e del Partito Comunista suggerì una alternativa alla nazionalizzazione che soprannominò ‘socializzazione’. Con una strizzatina d’occhio e un cenno del capo, Slovo spiegò come lo Stato avrebbe da allora cominciato ad assumere il controllo dell’economia “senza proprietà”:
«Lo Stato potrebbe approvare una legge per darne il controllo, senza proprietà, può solo farlo. Si può dire che lo Stato ha il diritto di prendere le seguenti decisioni sull’Anglo American [la grande compagnia mineraria]. Si possono avere regolamenti e delle normativa del genere, senza proprietà».
Tutto ciò è in corso in Sud Africa. Mandela ha inoltre fornito la base intellettuale per questo catastrofico “socialismo razziale” (chi può dimenticare come, nel Settembre del 1991, «Mr. Mandela minacciò con la nazionalizzazione delle miniere e delle istituzioni finanziarie gli affari sudafricani, a meno che questi non si fossero realizzati con un’opzione alternativa verso la redistribuzione della ricchezza»?).
Se i valori che hanno guidato la governance di Mandela possono essere scontati, allora è davvero possibile accreditargli una agevola transizione senza una rivoluzione in Sud Africa. A differenza di Mugabe, Mandela non ha nominato se stesso leader per la vita, ed è stato l’unico capo di Stato nel continente ad aver ceduto il potere volontariamente dopo un mandato. Se non scimmiotta i ladri al potere in Africa ciò è una conquista, allora così sia.
Certo, Mandela ha anche tentato di mediare per la pace in Africa. Ma «non molto tempo dopo il suo rilascio dalla prigione», osserva l’assistente editorialista James Kirchick su The New Republic, «Mr. Mandela ha iniziato a flirtare con personaggi del calibro di Fidel Castro («viva il compagno Fidel Castro!», disse in una manifestazione a L’Avana nel 1991), Muammar Gheddafi (che visitò nel 1997, salutando il dittatore libico come «mio fratello leader»), e Yasser Arafat («un compagno d’armi»).
Bisogna chiedersi, però, perché il signor Kirchick finga di essere sorpreso e si senta tradito da tali dichiarazioni amorose di Mandela. Mandela e l’ANC non hanno mai nascosto che erano in stretti rapporti con dei regimi comunisti e terroristi: Castro, Gheddafi, Arafat, la Corea del Nord e l’ulcerante Khamenei dell’Iran.
Tuttavia, e in quel momento, gli intellettuali pubblici come Kirchick non pensavano affatto che il Sud Africa fosse stato consegnato nelle mani di terroristi di professione, dei marxisti radicali. Chiunque avesse suggerito una tale follia alla saggia Margaret Thatcher avrebbe rischiato di prendere una borsettata. La Lady di ferro azzardò ad affermare che il governo dell’ANC per il Sudafrica equivaleva a «vivere in una terra di cuculi tra le nuvole».
In The Afrikaners, Giliomee elogia Mandela anche per la sua comprensione verso il nazionalismo afrikaner. Mandela, secondo Giliomee, considera il nazionalismo afrikaner «un movimento indigeno legittimo che, come il nazionalismo africano, aveva combattuto il colonialismo britannico». Questo è poco convincente. Prove forensi contro questa visione romantica devono ancora essere recuperate dal morente corpo politico afrikaner.
A giudicare da come l’ANC è contro la storia afrikaner del Paese, degli eroi, dei punti di riferimento e di apprendimento, Mandela non ha trasmesso al partito politico che ha creato una profonda comprensione delle istituzioni degli afrikaner. Di recente, l’establishment locale ed internazionale ha inondato il signor Mandela di molti elogi per aver mantenuto le potenti mascotte degli Springboks.
Gli Springboks sono la squadra nazionale di rugby del Sud Africa campione del mondo. Non sembra dal film Invictus, “film biografico ultra-riverente” di Clint Eastwood, ma Mandela non ha mai alzato la sua voce autorevole contro i piani dell’ANC per forzare il gioco tradizionalmente afrikaner affinché diventasse razzialmente rappresentativo. Al contrario, l’assenza di visi pallidi tra i ‘Bafana Bafana’, l’altrettanto celebre squadra di calcio nazionale del Sud Africa, non è riuscita a risvegliare simile impulsi sulla pianificazione centrale del leader.
Mandela si è forse opposto agli attacchi incessanti dell’ANC all’afrikaans come lingua di insegnamento nelle scuole afrikaner e nelle università? O circa l’abbattimento sistematico delle comunità agricole bianche? Quell’esempio di virtù di Mandela, ha forse chiesto pubblicamente la fine di questi pogrom? Ha forse annullato una festa di compleanno con il “vacuo jet set internazionale di ex-presidenti, politici vuoti ed egocentrici, di starlette, di modelle sotto effetto della cocaina, di musicisti intellettualmente e moralmente impegnati”? Ha forse chiamato ad una giornata di preghiera (oops, lui è un ex-comunista)? No, no e ancora no.
A poco a poco il barbarico Sud Africa è stato smantellato grazie al socialismo razziale ufficiale, a livelli osceni di criminalità organizzata e disorganizzata, all’Aids, alla corruzione, e ad una cleptocrazia in accrescimento. In risposta, le persone sono state «imballate per Perth», o come direbbe Mandela, i «traditori» sono stati spediti a Perth. Il South African Institute of Race Relations (SAIRR) era giustamente sgomento nello scoprire che quasi un milione di bianchi avevano già lasciato il Paese, la popolazione bianca si è ridotta da 5 milioni e 215 mila abitanti nel 1995 a 4 milioni e 374 mila abitanti nel 2005 (quasi un quinto di questa demografia).
Fra le ragioni addotte per l’esodo vi sono i crimini violenti e le affirmative action. Ahimè, con la crescita della criminalità il governo ha interrotto la raccolta delle statistiche necessarie per l’emigrazione (la correlazione non è causale…). La stessa strategia è stata inizialmente adottata per combattere il crimine fuori controllo: sopprimere le statistiche.
I numeri esatti sono dunque sconosciuti. Quello che si sa è che la maggior parte degli emigrati sono uomini bianchi qualificati. Anche in un messaggio registrato Mandela li apostrofa come: «vigliacchi». Ha accusato i bianchi di averlo tradito e di essere «traditori». ‘Madiba’ ha lottato con questo problema, forse erano meritevoli di assistere alle mostruose statue erette in suo onore. Anche queste sono nella tradizionale estetica realista socialista.
SALUTO AL MASCHIO ALFA
Torniamo alla domanda iniziale: perché i leader del Paese più potente del continente (Mandela e Mbeki) soccorrono il leader del più corrotto (Mugabe)? I luminari della società del caffé occidentale non sono stati gli unici ad aver approvato Mugabe. Così fecero i neri. «Quando Mugabe macellò 20 mila persone di colore nel sud Zimbabwe nel 1983 nessuno al di fuori dello Zimbabwe, tra cui l’ANC, vi diede la minima attenzione. Né si preoccuparono quando, dopo il 2000, guidò migliaia di lavoratori agricoli neri via dai loro mezzi di sussistenza, commettendo innumerevoli atrocità contro la popolazione nera. Ma quando ha ucciso una dozzina di agricoltori bianchi e spinto altri fuori dai loro poderi, ha provocato grande eccitazione», osserva l’editorialista Andrew Kenny.
Facendo con la forza il fighetto, Mugabe ha cementato il suo status di eroe attivista tra i neri e i sicofanti bianchi in Sud Africa, Stati Uniti ed Inghilterra. «Ogni volta che c’è un programma sudafricano sullo Zimbabwe al telefono in radio [sic], i sudafricani bianchi e i neri dello Zimbabwe denunciano Mugabe, mentre i sudafricani neri lo applaudono. Pertanto la teoria è che Mbeki non poteva permettersi di criticare [sic] Mugabe», il quale è venerato e mai insultato dai neri sudafricani.
Il giornalista di sinistra liberal John Pilger e l’editorialista liberale classico Andrew Kenny concordano: nei bar dello Zimbabwe, i neri in Africa ed altrove, hanno un debole per Mugabe. Pur evidenziando le denunce sul despota, Pilger chiarisce che Mugabe è solo un ingranaggio di una vera e propria «guerra silenziosa sull’Africa», combattuta dai borghesi, da uomini d’affari neo-coloniali e dai loro intermediari nei governi occidentali.
Dal suo comodo trespolo in Inghilterra, questo fan di Hugo Chávez predica contro il colonialismo e il capitalismo. Scrivendo sul Mail & Guardian online, Pilger scioglie il mistero di Mbeki e il suo rapporto intimo con Mugabe: «quando Robert Mugabe partecipò alla cerimonia per il secondo mandato di Thabo Mbeki come presidente del Sud Africa, la folla nera ha riservato al dittatore dello Zimbabwe una standing ovation». Questa è una «espressione simbolica di apprezzamento per un leader africano che molti neri poveri ritengono abbia dato a quegli avidi dei bianchi, con lungo ritardo, solo una giusta punizione».
Gli uomini forti del Sudafrica stanno salutando il loro maschio alfa, Mugabe, implementando una versione slow-motion del suo programma. «E’ sufficiente guardare al presente dello Zimbabwe se volete vedere il futuro del Sud Africa», avverte Kenny. «Quando Mugabe ha preso il potere nel 1980, c’erano circa 300 mila bianchi in Zimbabwe. Ai sensi delle purghe condotte dal leader e dal suo popolo, oggi rimangono meno di 20 mila bianchi; di questi, solo 200 sono agricoltori, il 5% del totale otto anni fa».
Sebbene la maggior parte dei terreni agricoli in Sud Africa siano ancora di proprietà dei bianchi, il governo intende cambiare il paesaggio di proprietà terriera entro il 2014. «Finora la compravendita della terra si basava su un’acquirente disposto e un venditore disponibile, i funzionari hanno però segnalato che le espropriazioni su larga scala sono possibili».
In Sud Africa il principale strumento di trasformazione è il Black Economic Empowerment (Bee). Ciò richiede ai bianchi di consegnare grandi blocchi di proprietà d’aziende ai neri e di cedere a loro i migliori posti di lavoro. Quasi tutti i neri così arricchitisi appartengono ad una piccola élite collegata all’ANC. Il Bee sta già accadendo nelle miniere, nelle banche e nelle fabbriche.
In altre parole, un programma simile a quello di Mugabe è già in corso in Sud Africa. Solo che non è così tranquillo e pacifico. I sudafricani stanno morendo in massa, una realtà che l’affabile Mandela, l’imperioso Mbeki, e il loro successore Zuma hanno accettato senza pietà e compassione.
Fonte: visto su L’Indipendenza del 7 dicembre 2013
6 Novembre, 2014 17:58
…per non dimenticare chi ha lottato affinché “altri fossero liberi” (senza avere nulla in cambio…)
I GUERRIERI DIMENTICATI DEL SUDAFRICA
“Se questo paese è libero -si rammaricava un ex guerrigliero – ed ha potuto organizzare eventi come la Coppa del mondo, lo deve all’MK”, Umkonto we Sizwe, il braccio armato dell’African National Congress (ANC). Ma sembra che all’epoca nessun alto dirigente si fosse recato nel misero ufficio dei reduci, con le pareti ricoperte da manifesti ingialliti, per invitare qualche veterano alle manifestazioni.
Tutto era cominciato il 21 marzo 1960. Quel giorno in diversi centri urbani della RSA si svolsero manifestazioni, organizzate dal Pan African Congress (PAC), contro l’obbligo per i neri di portare con sé un lasciapassare. Il regime rispose massacrando a Sharpeville decine di persone. Ufficialmente le vittime furono sessantanove, ma i testimoni sostengono che furono molte di più. Altre vittime a Langa (52 morti) e a Nyanga. Seguirono scioperi, manifestazioni, scontri con barricate e assalti agli uffici del Native Affairs Department. Migliaia di persone vennero arrestate, mentre le truppe isolavano i centri della rivolta. In aprile, il governo metteva fuori legge l’Anc e il Pac. Entrambe le organizzazioni costituirono un braccio armato. L’Anc con l’Umkonto we Sizwe (MK, “Ferro di lancia della nazione”) e il Pac con le unità Pogo (“Noi stessi”). Le prime azioni armate dell’MK contro alcuni palazzi ministeriali a Johannesburg, Port Elisabeth e Durban risalgono al dicembre 1961. Nel 1963, a Rivonia, vennero arrestati vari dirigenti dell’organizzazione clandestina e la guerriglia si trasferì nei paesi amici della “linea del fronte”: Zambia, Mozambico, Tanzania, Angola. Proprio in Angola vennero scritte alcune delle pagine più oscure della lotta di liberazione. Accusati di indisciplina e ingiustamente sospettati di tradimento, alcuni guerriglieri del “Campo 4” vennero torturati dai loro stessi compagni. Altri vennero fucilati per essersi rifiutati di tornare a combattere. In seguito, negli anni ottanta, l’MK porterà a segno alcune delle sue azioni più spettacolari e disperate: attentati contro i depositi di carburante e lanci di granate contro una centrale nucleare.
Oggi i sopravvissuti dicono di sentirsi “messi da parte, cancellati dalla memoria del paese” come i volti dei loro antichi compagni, morti in combattimento o impiccati nelle carceri. Anche Mandela, il loro ex comandante, sembrava averli dimenticati. L’altro leader, Chris Hani (esponente dell’ANC e del SACP, il partito comunista sudafricano) era stato ammazzato in circostanze non del tutto chiare. Ufficialmente da bianchi razzisti, ma non si esclude un regolamento di conti interno all’ANC.
Divenuto presidente, Jacob Zuma, per un breve periodo esponente dell’MK, aveva costituito un segretariato dotandolo di un modesto finanziamento. Un gesto comunque di buona volontà, anche se per la maggior parte di questi freedom fighters era ormai troppo tardi. Molti ex combattenti, ricordava Kebby Maphatsoe “vivono per la strada e per mangiare rovistano nella spazzatura”. Analogo destino per chi faceva parte delle Unità di autodifesa (SDU), 45mila ragazzi che negli anni ottanta presero alla lettera la consegna di “rendere ingovernabili le townships”. Agli scontri con l’esercito e la polizia si aggiunsero i conflitti settari con l’Inkhata Freedom Party (IFP, definiti quisling, collaborazionisti) e le lotte fratricide con formazioni minori. Una guerra civile a bassa intensità, alimentata ad arte dai servizi segreti del regime di Pretoria.
Con la fine dell’apartheid, dopo un rapidissimo processo di smobilitazione delle strutture della guerriglia, in parte erano stati arruolati nell’esercito. Si temeva che questi uomini, provvisti di armi e abituati ad usarle, venissero utilizzati da gruppi più radicali o dalle gang criminali. La maggior parte non riuscì ad inserirsi e abbandonò l’esercito ritrovandosi in una condizione di emarginazione. Il giornalista Jean-Philippe Rémy (Le monde) ne aveva incontrati alcuni che si sono isolati sulle montagne del Magaliesberg, non lontano da Johannesburg. Perseguitati dai ricordi, avevano iniziato un processo di purificazione tradizionale che si richiama alle tradizioni guerriere dei popoli nativi.
Gianni Sartori
20 Novembre, 2014 00:06
Per non dimenticare cos’era l’apartheid e quale eredità di sofferenza e ingiustizia abbia lasciato…
Un’intervista pubblicata da “A, rivista anarchica”
anno 22 nr. 188
febbraio 1992
SUDAFRICA: tutto risolto?
di Gianni Sartori
L’apartheid è finito, il Sudafrica non è più un problema. Questo è il ritornello che tutti i mass-media vanno ripetendo all’unisono. Ma è davvero così? Il nostro collaboratore Gianni Sartori ne parla con Sandro Zanotelli, frate comboniano noto per essere stato “licenziato” dalla rivista Nigrizia – di cui era direttore – per il suo impegno nella denuncia delle molte complicità italiane con i regimi dittatoriali nel Terzo Mondo.
Un tuo giudizio sul “dopo Botha”: l’elezione di de Klerk, la legalizzazione dell’ANC, del PAC.., i colloqui di Groote Schuur ecc. Secondo te il Sudafrica è cambiato realmente dopo l’89 o è solo apparenza?
Come puoi immaginare a Nairobi non ho avuto le stesse possibilità di informarmi regolarmente che avevo a Nigrizia, non ho potuto consultare quelle valanghe di giornali e documenti che ci arrivavano in redazione. Lì avevamo sempre un sacco di dati, di fatti di prima mano da cui poter ricavare le debite considerazioni. Come sai in Africa non c’è tutta questa abbondanza…Comunque sui quotidiani del Kenya si parla abbastanza spesso del Sudafrica; poi ci sono parecchie riviste africane che commentano regolarmente… un po’ di roba quindi sono riuscito a digerirla. Le conclusioni a cui sono arrivato è che, chiaramente, per molta gente sono cambiate un sacco di cose ma per la stragrande maggioranza non è cambiato proprio niente. Vorrei dire che, a mio avviso, sotto certi aspetti ci troviamo in una situazione ancora peggiore, soprattutto quando si cerca di coinvolgere l’opinione pubblica.
Qualche anno fa era relativamente facile ottenere adesioni, manifestazioni di solidarietà perché davvero sembrava incredibile che esistesse un regime di apartheid alla fine del XX secolo.
Oggi con i cambiamenti avvenuti e con quelli che potrebbero avvenire rischi di sentir dire che “tanto il Sudafrica sta cambiando, cosa vuoi tanto sbraitare” (v. per es. quando, subito dopo l’elezione di de Klerk, sono riprese le esecuzioni anche di prigionieri politici ma in sordina, senza che l’opinione pubblica reagisse).
Il primo dato di fatto da registrare è la completa vittoria dei militari. Già da qualche anno sono convinto che con il Governo Botha i militari abbiano preso il potere; da quel momento sono loro il potere reale, di fatto, in Sudafrica.
In realtà si tratta di una combinazione, di un apparato militare-industriale in cui comunque l’esercito detiene un potere incredibile. Sono stati loro i veri artefici del cambiamento, quelli che hanno pilotato la “transizione”.
Intendi forse riferirti ai Servizi Segreti, alla Polizia… o proprio all’esercito, alle S.A.F. ?
Intendo proprio le Forze Armate Sudafricane, l’esercito.. Basta vedere, in cifre, quanto denaro è stato investito nell’esercito, l’enormità degli interessi economici che ruotano attorno all’apparato militare.
I militari, alleati del potere economico e “faccia” del potere economico, ne hanno assecondato la volontà.
Quello che il potere economico voleva veramente era aprire il grande mercato dell’Africa Australe (non solo quello del Sudafrica, che era già aperto sostanzialmente). Aprirlo ai capitali sudafricani (in questo momento per esempio le multinazionali si stanno accaparrando territori e risorse nel Mozambico, debitamente messo a ferro e fuoco per anni dalla Renamo, finanziata dal Sudafrica).
Questo spiega un decennio di guerre spaventose: in Namibia, in Angola, in Mozambico…Guerre che di fatto si sono concluse con la vittoria del Sudafrica. Oggi i militari, l’apparato militare-industriale del Sudafrica, hanno stravinto in tutta l’Africa Australe; le porte sono aperte…La Namibia è praticamente una colonia del Sudafrica (l’indipendenza è solo una bella parola…).
I due bastioni che potevano resistere al colosso sudafricano, il Mozambico e l’Angola, sono stati piegati, completamente. Adesso l’Angola è in via di “normalizzazione”, vedremo cosa ne verrà fuori… Il Mozambico invece è stremato , in ginocchio, finito. . .
Oggi come oggi l’intera Africa Australe è ai piedi del Sudafrica, o meglio: dell’apparato militare-industriale sudafricano. Ora si tratta di far digerire l’operazione, la presa del potere reale da parte di
questo blocco, frutto dell’alleanza tra militari e capitale, all’opinione pubblica mondiale, relativamente sensibilizzata sulla questione sudafricana (v. le diffuse campagne anti-apartheid di questi anni, la grande popolarità di Nelson Mandela…).
Vinta la prima operazione, quella strettamente militare, il capitale ha ormai tutto l’interesse a “sposare la faccia nera”. . .È quello che già stanno facendo: mettere su un apparato con qualche volto nero, più o meno di facciata, mantenendo integro il potere dell’apparato militare-industriale bianco. A mio avviso è questa l’operazione in atto.
Naturalmente non posso sapere con certezza come andrà a finire ma se l’ANC accettasse di partecipare ad una operazione del genere, si prestasse al gioco, questo rappresenterebbe il tradimento di tutto. Appare chiaro come non ci sia da parte dei “Poteri di fatto” nessuna reale volontà di rimettere in discussione il sistema; quindi anche se Mandela diventasse primo ministro (o forse Presidente, dipende da come si accorderanno a livello istituzionale) non cambierebbe niente.
Non cambierà niente finché l’87% delle terre resterà in mano alla minoranza bianca, finché il 95% delle risorse è in mano al potere bianco… Se non viene fatta giustizia non c’è soluzione al dramma sudafricano. Questo, per me, è il nocciolo della questione, non i cambiamenti di facciata.
Volevo sentire una tua opinione sull’Inkata, sul suo ruolo nella “crisi” sudafricana. Un’opinione che non sia però scontata. Mi spiego. Ormai è risultato fin troppo chiaro come Buthelezi e compagni si siano prestati a fungere da provocatori, oltre che da collaborazionisti (“quislings”). Mi sembra comunque riduttivo pensare che l’Inkata sia solo questo. Inkata sembra esprimere anche il bisogno degli Zulu di darsi una precisa rappresentanza politica che sia anche espressione di identità etnica… Tu cosa pensi? Che questa esigenza, questo “orgoglio etnico” in un contesto come quello sudafricano debba necessariamente sfociare nel tribalismo e diventare funzionale al Potere Bianco? Pensi che Inkata sia solo una quinta colonna dei Bianchi dentro al movimento nero o non potrebbe essere stata solo una “sbandata”? Te lo chiedo perché dopo il “prepensionamento” di Botha mi sembra che per una parte della sinistra Inkata sia diventato il “Nemico”, l’unico (in mancanza di meglio). Contemporaneamente si rischia di avere un atteggiamento disponibile, comprensivo nei confronti del Governo, di de Klerk, dell’apparato statale-poliziesco, dei militari, degli imprenditori… che invece restano, a mio avviso, l’avversario principale dei proletari neri.
Naturalmente ho seguito la vicenda dell’Inkata, lo scandalo che ha messo in luce come il Governo sudafricano finanziasse e “coprisse” regolarmente il partito di Buthelezi affinché l’Inkata svolgesse quel determinato “lavoro”, cioè creasse problemi, lacerazioni, innescasse faide all’interno della comunità e del movimento dei neri.
Personalmente non ho mai capito fino in fondo quale sia il vero ruolo di Buthelezi e compagni. In proposito ho avuto una lunga conversazione con Farisani quando è venuto a Verona per Arena ’87…
Puoi dirci brevemente chi è Farisani?
Certo. Del resto in quella occasione lo avevi conosciuto anche tu. Io sono convinto che attualmente Farisani sia uno dei più grandi pensatori del Sudafrica. È un pastore luterano che ha pagato sulla sua pelle la scelta di battersi contro l’apartheid. Del resto ti ricorderai di come si muoveva, portava ancora addosso i segni delle indicibili torture subite..
Mi ricordo anche del suo intervento (che tu gli avevi tradotto in italiano): “Sono i vostri camion Fiat ad essere usati durante i rastrellamenti di bambini che poi vengono internati, sono le vostre armi Beretta che uccidono donne e bambini neri, sono le vostre banche (ndr. Credito Italiano, Banco di Roma, S. Paolo, B.N.L, Banca Commerciale. Senza dimenticare le allora ancor divise Nuovo Banco Ambrosiano e Banca Cattolica del Veneto). Cosa ti ha detto dell’Inkata.
In passato Farisani era stato membro dell’Inkata. Mi disse: “Anch’io ero militante dell’Inkata e grande ammiratore di Buthelezi. Poi, quando lentamente ho cominciato a capire chi fosse veramente Buthelezi, non solo me ne sono tirato fuori ma oggi sono uno dei maggiori critici dell’Inkata. Del resto questo sta avvenendo continuamente: sono molti gli Zulu che lasciano Inkata delusi dal comportamento di Buthelezi, dalla sua arroganza e dai suoi “signori della Guerra”. La pretesa di Buthelezi di rappresentare sette milioni di Zulu appare sempre meno credibile. In particolare molti ex-sostenitori gli rinfacciano una buona dose di ipocrisia nell’essersi presentato come “apostolo della non-violenza”, contrario alle scelte di lotta dell’ANC, di fronte all’opinione pubblica mondiale. Dicono in sostanza che predicava la non-violenza contro la violenza dell’apartheid ma che non ha avuto scrupoli nello scatenare i suoi guerrieri contro i militanti antirazzisti.
Io sono personalmente convinto che l’Inkata è stato usato dal potere bianco per rompere l’unità del movimento nero e fare l’interesse del capitale. Naturalmente questo non deve significare, come dicevi giustamente “negare l’esistenza di una “questione Zulu” del tutto legittima. Gli Zulu rappresentano la più grande etnia del Sudafrica e chiaramente hanno diritto al loro futuro, a essere garantiti sul piano linguistico, culturale…
Però questo non è il problema che pone Inkata, non sono queste le richieste di Buthelezi.
Invece Buthelezi utilizza gli Zulu per i suoi fini di potere personale e il Potere Bianco è ben felice di favorirlo così da poterlo usare per disgregare il movimento dei neri. Quello che è venuto alla luce questa estate, lo scandalo dei finanziamenti da parte del Governo di Pretoria, ha chiarito la situazione, ha reso evidente quale tipo di rapporti si fossero stabiliti tra Buthelezi e il blocco militare-economico che detiene il potere reale in Sudafrica.
Mi aveva fortemente impressionato qualche anno fa il fatto che la DC avesse invitato Buthelezi in Italia (ndr. proprio nell’87 intervenne, su invito di Comunione e Liberazione, anche al meeting di Rimini,forse come contraltare all’Arena di quell’anno organizzata sul Sudafrica con l’intervento di Farisani, Beyers Naudé, allora segretario del S.A.CC, Denis Hurley, arcivescovo antirazzista di Durban).
Io ero proprio allibito e lo dissi chiaramente a vari leader democristiani: “Ma come potete in coscienza invitare uno come Buthelezi?”. Poi ho capito che in fondo la cosa era logica. Oggi nella DC prevale una politica sostanzialmente di destra e quindi era ovvio che il loro riferimento tra i neri sudafricani fosse Buthelezi, più che un Mandela o un Desmond Tutu.
Invitando Buthelezi ha manifestato quali siano le sue posizioni. In questo almeno la DC è stata onesta.
In questo momento sono ormai cadute anche le sanzioni (peraltro mai applicate seriamente). Cosa pensi dovremmo fare qui, nel “ventre della Bestia” diciamo, cosa pensi possa maggiormente essere di aiuto alla lotta di liberazione in Africa Australe? Adesso che non è più così evidente per tutti l’infamia del regime sudafricano come dovremmo mobilitarci: fare controinformazione, rilanciare il boicottaggio dei prodotti sudafricani (penso all’oro…) fare sit-in davanti alle banche che finanziano Pretoria?
Chiaramente mobilitarsi sul Sudafrica diventerà sempre più difficile e “minoritario” perché a livello di opinione pubblica il Sudafrica apparirà come un problema risolto.
Non dimentichiamo però che il Sudafrica è stato uno dei pochi paesi dell’Africa in cui è stato fatto veramente un buon lavoro di base. Non proprio su tutta la popolazione nera beninteso ma qui puoi contare come minimo su due-tre milioni di persone coscientizzate politicamente, abituate a mobilitarsi, ad auto-organizzarsi. E questa base cosciente farà ancora parlare di sé.
Sono convinto che anche qui, nel “1° mondo”, bisognerà lavorare avendo presente questo movimento di base. Dovremo domandarci cosa sta dicendo questo movimento di base, cosa vuole, perché sta lottando, cosa propone… E dovremmo aiutare questo movimento ad andare avanti. Con buona probabilità accadrà che i livelli alti, i vertici dell’ANC entreranno nel sistema, sposeranno il sistema e saranno la nuova facciata, nera, del potere economico.
Mentre la gente che sta sotto, che è oppressa, i diseredati andrà avanti a soffrire. E a lottare, naturalmente. Sono questi “dannati della Terra” coloro a cui dovremo far riferimento, che dovremo aiutare, sostenere. . .
Secondo me (parlo da credente ma forse per i non-credenti è lo stesso) è qui il caso di ripensare allo spirito di quella lettera di Don Milani a Pipetta, quando dice (cito a memoria): “Caro Pipetta, tu dici che sono un prete buono, che ti fidi di me… Però non fidarti perché quando avremo fatto insieme la rivoluzione, quando avremo sfondato la porta del Palazzo e ci saremo entrati, tu ti stabilirai dentro. Ricordati che in quel momento io ti tradirò e andrò con chi è rimasto fuori” .
Ecco: questa è l’unica maniera di aiutare i diseredati del Sudafrica; stare dalla parte di chi non entra nel Palazzo del potere. Penso che oggi la gente, la base, si senta peggio di prima. Si sentirà ancora più impotente, tradita da chi ha portato avanti un discorso sostanzialmente di potere.
Vuoi dire che non bisogna “prendere il potere”…?
Voglio dire che molto probabilmente in Sudafrica non cambierà nulla; o meglio – cambierà tutto per non cambiare niente. Anche con qualche esponente dell’ANC al governo. L’ingiustizia di fondo rimarrà immutata. Quindi l’importante, anche per noi, è dare una mano alla base perché venga fatta giustizia. Ripeto: alla base, alla gente. Non ai vertici, agli apparati…Torno sul discorso che ho fatto all’inizio. Finché l’87% delle terre sarà in mano ai bianchi non c’è liberazione in Sudafrica, non c’è giustizia, non c’è “soluzione politica”… Finché il 95% delle risorse (compreso l’oro) è in mano ai bianchi non è possibile parlare di “nuova era” in Sudafrica.
Temo che per i diseredati sarà peggio di prima, con in più il tradimento da parte di quei leader che copriranno, daranno una faccia nera al potere reale, quello economico e militare dei Bianchi.
La questione “presa del potere” ne richiama un’altra: quella dello Stato. Cosa rappresenta, che valore assume a tuo avviso lo stato in Africa? Intendo riferirmi sia allo stato in quanto tale che in relazione al problema dei conflitti etnici pensando a come si va rafforzando (v. nell’Europa dell’est) l’idea di uno “stato nazionale omogeneo” con tutta la sua carica di pericolosa utopia reazionaria.
Rispetto a come si vanno strutturando i problemi culturali ed etnici in Europa (in un ottica “statalista” n.d.r.) direi che in Africa siamo ancora agli inizi. Mi auguro vivamente che i Neri sappiano trovare altri sbocchi. Man mano che vanno avanti dovranno vedere e valutare che tipo di percorso praticare. Non dimentichiamo che nel continente nero gli stati sono stati imposti da noi; prima praticamente non erano mai esistiti.
Qui in Africa gli stati sono stati fondamentalmente una creazione del colonialismo, forse erano serviti a qualcosa in Europa nel secolo scorso, diciamo che possono essere stati uno “strumento di lavoro” in un determinato momento storico particolare, “nostro”,dell’occidente.
Sono comunque convinto che oggi come oggi lo stato sia fondamentalmente una grande bestialità. Perché in un mondo che economicamente è uno, che non è altro che un piccolo villaggio non si può continuare a ragionare con la “ragion di stato”, anzi con quella di 170 stati diversi che operano ognuno in nome della “ragion di stato” e non delle ragioni della gente, della regione del mondo. Ecco perché gli stati devono essere radicalmente messi in discussione.
Rimetterli in discussione cosa comporterà per le diverse etnie e per le diverse culture?
Questo in Africa è tutto da inventare. Anche perché siamo ancora lontanissimi dal mettere consapevolmente in discussione lo stato.
Comunque tu sostieni che nella cultura tradizionale africana l’organizzazione sociale non si identificava automaticamente con lo stato?
Assolutamente. In Africa lo stato praticamente non è mai esistito. A parte qualche esperienza di tipo “imperiale” come Zulu, Zimbabwe, i grandi imperi dell’Africa Occidentale (Mali, Timbuctù…) e mettiamoci anche l’Egitto con il periodo faraonico (io sono convinto che l’Egitto sia stato una civiltà africana). Invece per le comunità tradizionali, la stragrande maggioranza, non c’era il concetto di stato; sostanzialmente la comunità si auto-organizzava…
Dimostrando oltretutto che questo è possibile…?
Ma certo che è possibile. Chi ha mai potuto dimostrare che non è possibile auto-organizzarci senza stato? L’uomo vive in questo mondo da un milione d’anni mentre gli stati sono qualcosa che si è imposto su tutto il pianeta sostanzialmente in queste due ultime, paia di secoli. Vorrei insistere nel dire che a questo punto gli stati diventano sempre più qualche cosa che non aiuta certo il mondo ad andare avanti (e lo dico proprio come credente). Penso che dovranno nascere delle forme nuove, popolari, dal basso che lentamente prenderanno il posto degli stati mentre contemporaneamente si andrà sempre più ad organizzarsi a livello economico per “larghi strati”.
Vedi in Europa con la CEE, vedi adesso in Nordafrica con queste nuove forme di rapporti economici che si stanno dando…Il potere politico dovrebbe diventare molto più popolare, “largo”, decentrato; dovrebbe strutturarsi al di fuori degli schemi statuali.
Un’ultima domanda. Chi è in realtà Alessandro Zanotelli? Un pazzo, un idealista, un illuminato, un sovversivo, un sognatore…?
Sono solo un povero cristiano che cerca di camminare con gli altri tentando di capire un po’ la realtà, che è molto difficile da capire, e di impegnarsi a cambiarla per quanto può e nella piccolezza in cui si può…Perché non posso accettare un mondo come l’abbiamo, dove per un preciso sistema economico muoiono ogni anno di fame milioni di persone.
Se vuoi, sì è vero che sono anche un sognatore, che sto sognando un mondo differente. Del resto non potrei fare altro come cristiano perché se credo che “Venga il Tuo Regno” vuol dire che questo regno, questo mondo non posso accettarlo così com’è, con tutte le sue ingiustizie..
(Gianni Sartori 1992)
2 Dicembre, 2014 10:42
Riprendo da un mio vecchio articolo sull’apartheid…ciao, GS
Era il 1986, probabilmente l’anno più drammatico per il Sudafrica dove la popolazione nera si stava ribellando contro il sistema dell’apartheid.
Il 19 febbraio ad Alexandra (Johannesburg) la polizia sudafricana si rese responsabile dell’ennesimo eccidio uccidendo una ventina di manifestanti. A tre giorni di distanza gli scontri proseguivano nella città assediata, circondata dall’esercito e isolata dal resto del paese.
Il governo di Pretoria stava cercando in ogni modo di impedire il dilagare delle proteste, non solo attraverso la repressione, ma anche innescando con provocazioni “da manuale” conflitti interni ai diversi gruppi politici per scatenare faide e regolamenti di conti. Con l’intento di alimentare nell’opinione pubblica l’idea che i neri non fossero in grado di autogovernarsi e legittimare quindi l’intervento della polizia definita “imparziale”.
L’anno prima, il 1985, era stato attraversato da un grandioso ciclo di lotte contro l’apparato burocratico-militare statale. Il 21 marzo a Langa (Uitenhage-Port Elisabeth) la polizia celebrava a modo suo l’anniversario della strage di Sharpeville del 1960: aprendo il fuoco con fucili da caccia grossa su un corteo funebre (composto prevalentemente da donne e bambini) e provocando una ventina di morti. Altrettanti neri erano stati ammazzati in circostanze analoghe nella settimana precedente. A fine aprile 1985 le vittime della repressione dall’inizio dell’anno erano oltre centocinquanta. In maggio il “Comitato di sostegno ai parenti dei detenuti” (DPSC) informava che “nelle ultime settimane 21 persone sono morte nelle mani della polizia in seguito a interrogatorio, cinque dall’inizio di aprile”. Negli ultimi venti anni i morti accertati nelle stazioni di polizia risultavano essere 63 (24 nel solo 1984), la maggior parte per ferite alla testa. Il DPSC denunciava poi la scoperta di una fossa comune di almeno cinquanta cadaveri sepolti clandestinamente dalla polizia in marzo nella township di Zwide.
La mobilitazione degli abitanti dei ghetti neri si fondava sulla tattica di aggregarsi, attaccare e disperdersi, contemporaneamente in più punti del paese. Ferma restando la disparità incolmabile tra chi lanciava pietre e chi sparava. Altrettanto efficaci le innumerevoli azioni di lotta nonviolenta (dal boicottaggio dei negozi di proprietà dei bianchi alla partecipazione di massa ai funerali dei militanti caduti), determinanti per la ricomposizione della comunità oppressa.
A venir messo in discussione ormai non era soltanto il monopolio del potere da parte dei bianchi, ma anche il ruolo delle multinazionali occidentali (o meglio, delle loro succursali) che realizzavano enormi profitti grazie allo sfruttamento intensivo della manodopera indigena. Tra le altre, a futura memoria: Coca Cola, IBM, Generals Motors, Alfa Romeo, Union Carbide, Olivetti, IRI, Ford, Siemens, Wolkswagen, Bosch, Renault, Leyland, Goodyear, Toyota, Nissan, Ciba, Nestlé, Spie-Batignelles, Pechiney, Rio Tinto Zinc, Barklays, Gec, BP, Shell, Mobil, Control Data Mark. Caltex ecc. Nel settembre del 1985, con l’assalto congiunto di neri e meticci ai quartieri residenziali della ricca borghesia bianca, si era giunti a livelli di scontro fino a qual momento impensabili.
Contemporaneamente il movimento sviluppava una capillare azione contro le “quinte colonne” dell’apartheid nei quartieri neri: collaborazionisti, funzionari locali, “quisling”, spie e infiltrati. In questa drammatica spirale di lotte, repressione e nuove lotte e nonostante le stragi, gli squadroni della morte, le torture, i licenziamenti di massa e le conseguenti deportazioni (a fine aprile più di 17mila minatori per uno “sciopero illegale” nelle miniere della Anglo-American e della Anglo-Waal), le masse popolari sudafricane sembravano avviate autonomamente verso l’insurrezione. E’ significativo che soltanto alla fine del giugno 1985, dopo mesi di scontri e rivolte, l’ANC lanciasse un suo appello a prendere le armi contro il governo segregazionista.
Questo nuovo ciclo di lotte (determinante dopo le sconfitte degli anni sessanta e settanta -v. Soweto- e di cui si possono individuare le origini nei tumulti scoppiati quasi contemporaneamente in otto città-satellite nere il 3 settembre 1984) aveva conosciuto naturalmente anche i suoi fallimenti. Era clamorosamente naufragata la manifestazione del 28 agosto 1985 al carcere di Pollsmoor, impedita con centinaia di soldati, poliziotti, cani, blindati, fucili e fruste. Organizzata e preannunciata con clamore da alcuni leader religiosi (immediatamente arrestati) come un decisivo confronto tra governo e movimento antiapartheid (Boesak aveva dichiarato che avrebbero “rivoltato dalla testa il paese”), nella sua spettacolarità aveva assunto forse troppa importanza, esponendo i manifestanti alla repressione più totale e indiscriminata. Per tutto l’85 sarà un crescendo di lutti. In agosto, dopo tre giorni di scontri, tra i neri si contano oltre trenta morti. E il massacro della popolazione nera in rivolta proseguirà inesorabilmente anche negli anni successivi.
Contro cosa si erano ribellati i neri del Sudafrica, oltre che contro la discriminazione razziale?
Un lungo elenco di buone ragioni: lo sfruttamento bestiale nelle miniere, nelle fabbriche, nelle fattorie-prigioni; l’alto livello di mortalità infantile (ufficialmente, 15% nei ghetti neri metropolitani, 25% nelle homelands, ma in realtà molto superiori, secondo l’ANC, arrivando al 50%); i lager per prigionieri politici come l’isola di Robben; le campagne di sterminio fuori dei confini contro i campi profughi (un migliaio di vittime a Kassinga nel 1977 e altri attacchi in Botswana e Leshoto tra il 1984 e il 1985 ); le condizioni di vita subumane per donne, vecchi, bambini, disoccupati e per tutti coloro che restavano esclusi dal mercato della forza lavoro; gli omicidi bianchi nelle miniere (nel 1985 a Secunda con decine di vittime), spesso per trascuratezza e cinismo da parte dei capisquadra bianchi; sempre nelle miniere la media di un morto ogni venti ore; la morte precoce dei minatori che estraevano l’uranio in Namibia, occupata dalla RSA che vi aveva introdotto l’apartheid;
le torture, le uccisioni in carcere, le esecuzioni, le “sparizioni” di oppositori (un caso fra tanti, quello dei tre militanti del “Port-Elisabeth Black Civic Organisation” nel marzo 1985 e di altri esponenti del PEBCO, Sipho Hashe, Qaquvuli, Godolozi e Champion Galela) e gli squadroni della morte statali e parastatali (nel solo mese di giugno 1985 l’uccisione di quattro dirigenti dell’UDF a Cradok e di otto esponenti del COSAS); l’arresto e talvolta anche la tortura di bambini (come gli 800 dai 6 ai 13 anni a Soweto nell’agosto 1985) per non essere andati a scuola o per aver violato le norme dello stato di emergenza; i più di cento bambini morti di fame ogni giorno in quello che è uno dei paesi più ricchi del mondo. Oltre, naturalmente, al sacrificio di migliaia di “dannati della terra” caduti nelle lotte degli ultimi anni, da Sharpeville a Soweto.
Ora, appare evidente che in Sudafrica, nonostante la fine dell’apartheid, molte di tali questioni rimangono drammaticamente aperte. Va ricordato che ancora negli anni ottanta, il regime di Botha aveva finanziato e favorito la nascita di una borghesia clientelare nera (permettendo a qualche imprenditore di costituire società al di fuori dei bantustan). Attualmente anche molti esponenti dell’ANC si sono trasferiti nelle aree di lusso, con ville e campi da golf. Con il risultato che mentre sono diminuite le disparità tra bianchi e neri, sono vertiginosamente aumentate quelle all’interno della comunità nera. E naturalmente le multinazionali (in particolare quelle anglo-statunitensi) hanno potuto conservare il loro potere quasi inalterato. Ma sarebbe comunque ingiusto attribuire troppe responsabilità a Mandela. Un uomo che aveva dignitosamente fatto la sua parte contro l’ingiustizia istituzionalizzata. Sicuramente molti tra i suoi seguaci e successori – in particolare Zuma – non si sono mostrati all’altezza e il cammino da percorrere è ancora lungo (a cominciare da quella ridistribuzione delle terre che era nel programma originario dell’ANC), ma questo sopravvissuto a 27 anni di prigione (e, moralmente, anche alla “sfilata degli ipocriti” intervenuti al funerale) se ne è andato con il suo carisma di combattente della libertà praticamente intatto. Alle future generazioni il compito di completarne l’opera. Quanto alla sua eredità ideale e politica, più che dal presidente statunitense Obama, penso sia oggi rappresentata da “Apo” Ocalan, il leader curdo rinchiuso nelle galere turche.
A chi scrive, con la morte di Nelson Mandela sono tornati alla mente i nomi delle innumerevoli vittime del regime dell’apartheid. Alcuni sono comunque passati alla Storia: Steve Biko (militante della SASO, morto sotto tortura), Victoria Mxenge (avvocato dell’UDF, uccisa da una squadra della morte), Joe Gquabi (oppositore, assassinato dai servizi segreti), Ruth First e Janette Curtis (entrambe con un pacco-bomba dei servizi segreti di Pretoria), Benjamin Moloise (poeta, impiccato), Neil Aggett e Andreis Radtsela (sindacalisti, morti sotto tortura), Dulcie Septembre (esponente dell’ANC, assassinata in Francia dai servizi segreti)…). Ma per un gran numero di assassinati il rischio è di essere definitivamente dimenticate. Chi si ricorda ancora di Saoul Mkhize, Samson Maseako, Taflhedo Korotsoane, Elias Lengoasa, Sonny Boy Mokoena, Mvulane, Bhekie…?
Per ognuno, una piccola storia di sofferenze e umiliazioni ancora da raccontare.
E un commiato affettuoso vada anche alle tante persone conosciute all’epoca del maggiore impegno per “strappare le radici dell’ingiustizia” e che nel frattempo ci hanno lasciato: Benny Nato, Alberto Tridente, Edgardo Pellegrini, Beyers Naudé…
Un esempio per chi li ha conosciuti e per chi non ha avuto questo onore.
Gianni Sartori