Apr 24 2014

ARMENIA, 24 APRILE: ANNIVERSARIO DI UN GENOCIDIO DIMENTICATO

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Immagine tratta da “Ravished Armenia” (tr. Armenia violentata) un film americano del 1919 in gran parte andato perduto,  è   il primo film che ricostruisce la tragedia del popolo armeno

 

 

Intervista a Baykar Sivazliyan, docente universitario, esperto di Storia e letterature dell’area mediorientale e scrittore armeno.

 

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Baykar Sivazliyan

 

 

di GIANNI SARTORI

 

Iniziamo con qualche notizia biografica. In quali circostanze la sua famiglia è arrivata a Venezia?

 

Sono nato in una famiglia di sopravvissuti al Primo Genocidio del Ventesimo secolo.

I miei nonni venivano da parte di mio padre dalla città di Sivas e quelli di mia madre dalla città di Erzurum, entrambi situati in Anatolia, nell’Armenia Occidentale con una forte presenza armena di cittadinanza ottomana, annientata durante il Genocidio perpetrato dal governo Ottomano dei Giovani Turchi fra gli anni 1915-21. Attualmente in tutte due le città non esistono più armeni, come in tutta l’area circostante dell’Armenia Storica.

Successivamente, dopo il Pogrom del 1956 contro i greci e il golpe militare del 1960, le minoranze in Turchia non avevano più un futuro garantito. Nel 1966 i miei genitori mi hanno mandato, da solo, avevo 12 anni, a Venezia dove allora esisteva ancora un Collegio Armeno e dove ho finito le medie e il liceo. In seguito ho frequentato l’Università Cà Foscari. Subito dopo la laurea ho iniziato ad insegnare, prima nel Liceo Armeno e di seguito presso l’Università Statale di Milano, la lingua armena. Fra gli anni 1999-2005 ho avuto anche un incarico di insegnamento di Lingua e Letteratura Turca presso l’Università di Lecce, in quanto sono specializzato sia nella Storia Medio Orientale che in Lingua e Letteratura Turca.

 

 

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Il genocidio subito dagli Armeni è ancora argomento attuale di discussione e polemiche. È possibile quantificare il numero delle vittime? Quali metodi ha usato lo stato turco per operare questo sterminio?

 

Ovviamente chi organizza scientificamente un genocidio tenta di cancellare non solo le tracce ma anche gli indizi.

Nel caso della Amministrazione Ottomana gli “indizi” sono rimasti indirettamente, attraverso la documentazione degli archivi ottomani, la documentazione del Patriarcato Armeno di Istanbul e soprattutto come fonte imparziale, le relazioni dei Consoli Generali e degli Ambasciatori dei paesi occidentali (in modo particolare di quelli degli Stati Uniti, Russia, Germania, Italia, Francia , Inghilterra) e la documentazione delle missioni religiose operanti sul territorio Ottomano abitata dagli armeni. Secondo questi dati, almeno un milione e cinquecentomila armeni sono periti e circa altrettanti sono stati sradicati dal proprio territorio, sparpagliati nei diversi paesi del mondo formando la nuova Diaspora Armena, che oggi è più numerosa degli abitanti della Repubblica dell’Armenia. Per quanto riguarda le polemiche, io penso che siano diventate in mano al governo della Turchia un metodo per rinviare una seria discussione e la nascita di un pacchetto di soluzioni accettabili da tutte e due le parti. Capisco le difficoltà dei dirigenti turchi; purtroppo per decenni hanno mentito al proprio popolo, raccontando menzogne non soltanto riguardo alla questione armena ma per tutte le questioni storicamente importanti della nazione turca degli ultimi due secoli. Fanno parte di questa sfilza di bugie piccole e grandi la questione cipriota, quella curda, quella dei diritti umani, la situazione sociale ecc., ecc. Adesso però si sentono costretti ad aggiustare la mira ma ovviamente con molte difficoltà; il popolo turco è più informato e inizia a distinguere il vero dal falso. Non si può, per es., risolvere la questione curda dicendo che i genitori del Presidente Abdullah Ocalan erano di origine armena…i primi a non accettare più questa tragicommedia sono proprio i turchi.

 

 

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Cosa rappresenta l’attuale stato dell’Armenia? È stato in grado di salvaguardare la cultura, la lingua, l’identità del popolo armeno?

L’Armenia, nata nel 1918 e dal 1920 facente parte dell’ex Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, è diventata un paese indipendente nel 1991. È situata su un decimo del suo territorio storico, è la periferia di se stessa. Prima ancora di guarire dalle ferite del Genocidio, ha dovuto sopportare anche quelle della Seconda Guerra Mondiale in cui 250 mila armeni sono caduti con l’esercito dell’Unione Sovietica combattendo contro il nazismo .

La salvaguardia della cultura e della lingua è sempre stata una irrinunciabile priorità per gli armeni, assieme alla propria complessa identità. La nazione armena, preparata ed aperta all’integrazione, non ha però mai perso la propria cultura di appartenenza, anche quando ha dovuto lasciare la propria casa ed allontanarsi dalla terra dei propri padri. Lo stato dell’Armenia e le organizzazioni culturali della Diaspora sono stati complementari in questa opera colossale di salvaguardia della propria identità nazionale.

 

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Qual è la situazione della diaspora armena (sia nel mondo che nel Veneto, a Venezia in particolare…)?

La Diaspora Armena è molto vasta, in quanto frutto del Primo Genocidio del XX secolo e della conseguente deportazione dei sopravvissuti. Per parlare dei grossi numeri posso dire che in Francia vivono circa mezzo milione di Armeni, negli USA più di un milione, in Russia due milioni e a Istanbul in Turchia sessantamila persone. In Italia siamo circa 3.000 e nel Veneto non superiamo le 300 anime, a Venezia meno di 100.

Comunque vorrei ricordare che indipendentemente dalla quantità, Veneto e Venezia sono stati sempre dei centri importantissimi per l’armenità intera. I primi Armeni vennero già nel XII secolo a Venezia, come già nel 1299 i Veneziani avevano un Bailo nel Regno Armeno di Cilicia. Il primo Libro armeno a stampa è stato pubblicato nel 1512 a Venezia, la più grande Congregazione Armena della storia Culturale degli armeni ha tuttora sede sull’Isola di San Lazzaro nella maestosa Laguna di Venezia. Dal 1836 al 1996 è esistito il Collegio Armeno Moorat-Raphael di Venezia che ha forgiato tutti i migliori intellettuali armeni per più di un secolo e mezzo, sia per l’Occidente che per l’Oriente. 
Oggi gli armeni della Diaspora hanno decine di organizzazioni Culturali e politiche, sono impegnati individualmente nell’arte, nella cultura , nella politica , nelle professioni dei rispettivi paesi d’adozione. Nel Veneto per esempio sono molto famigliari i cognomi: Babighian, Arslan, Gianikian, Zekiyan, Pazargiklian, Mildonian, e tanti altri, stimati medici, intellettuali, architetti, studiosi, economisti, ecc.

 

Armeni impiccati ad Aleppo nel 1915

Armeni impiccati ad Aleppo

 

Il Parlamento curdo in esilio aveva pubblicamente riconosciuto le responsabilità dei curdi nel genocidio degli armeni. Quali furono le circostanze di questa complicità con lo stato turco e qual è l’importanza di questa dichiarazione?

L’Impero Ottomano si è sempre servito di gruppi sotto il suo controllo, per aizzare questi contro un’altra minoranza, sia nazionale che religiosa.

L’organizzazione feudale dei curdi ha fatto sì che l’imput del governo centrale Ottomano trovasse presto presa su una parte della popolazione che doveva obbedienza cieca al capo villaggio. Inoltre le proposte allettanti fatte ai curdi che avrebbero potuto impossessarsi dei beni degli armeni, comprese le donne (nella loro mentalità anch’esse facenti parte dei beni) ha fatto il resto. Non è un caso che quasi tutti i miei amici curdi abbiano almeno una nonna di origine armena e che continuino a chiamarmi “dayi”, parola turca che indica lo zio da parte della mamma.

In seguito i curdi hanno avuto nell’Armenia un grosso alleato. A Yerevan, capitale della Repubblica Armena, esiste tuttora un istituto rinomatissimo di studi curdi, un teatro in curdo e una radio in lingua curda. Tutto questo quando in Turchia, dove almeno un quarto della popolazione è di origine curda, solo la pronuncia del nome “curdo” o della parola “Kurdistan” significava essere sbattuti in galera senza un processo ed essere tacciati di separatismo o peggio ancora di terrorismo. A me personalmente fa molto piacere il pronunciamento del Parlamento curdo in Esilio, il rammarico sincero per il Genocidio degli Armeni, ma tanti altri armeni si aspettano una posizione più chiara da parte dei curdi. Una esplicita autodenuncia della loro complicità diretta; solo così la verità verrebbe in superficie e la giustizia potrebbe trionfare. Altrimenti questa dichiarazione rischia di diventare uno dei tanti proclami fatti da numerosi parlamenti dell’Europa e del Mondo che presentano dopo 90 anni il loro “dispiacere” per un fatto “increscioso”, certe volte senza nemmeno indicare chiaramente il responsabile e condannare apertamente la Turchia. Il cambio di regime o gli interessi concreti di oggi non possono indurci a digerire l’indigesto. Che senso avrebbe oggi condannare l’Olocausto, esternare il nostro dispiacere senza citare che c’è stato un regime nazista e uno stato scellerato che ha scientificamente organizzato l’annientamento del popolo ebraico?

 

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Probabilmente il genocidio degli armeni è stato il primo caso (per il XX secolo) in cui uno stato fece massacrare milioni di suoi cittadini…

I Giovani Turchi, nazionalisti, che avevano preso il potere nello stato Ottomano, scossi all’inizio del XX secolo dalle grosse perdite di territori e conseguente potere, hanno creduto che salvando la parte essenzialmente “turca” dell’Impero Ottomano, potevano sopravvivere al proprio sogno di panturchismo e di panturanismo e conservare quello che rimaneva dal vasto impero plurinazionale e multietnico. Si tratta di una questione, oltre che morale ed etica, soprattutto tecnicamente giuridica: l’assassinio di una intera nazione. Ed è proprio per questo motivo che i giudici turchi della corte marziale che portò in giudizio i dirigenti politici del Comitato Unione e Progresso (Giovani Turchi) e i capi militari del periodo di guerra, li accusarono il 26 aprile 1919, di “deportazioni… e sterminio di tutto un popolo che costituiva una comunità distinta”. Dopo tre mesi, il 19 luglio 1919, il verdetto della corte marziale condannò a morte in contumacia i principali dirigenti dell’epoca (tra loro i triumviri Taalat Pascià, Enver Pascià e Ahmed Gemal) e a 15 anni personaggi ritenuti di secondo piano. Oggi, con il senno di poi, possiamo affermare che non c’è stata una sufficiente memoria storica nel condannare questo Genocidio, altrimenti fatti tragici del genere non si sarebbero ripetuti durante gli anni bui del secolo appena passato anche nei confronti del popolo ebraico…

 

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Aveva detto che la questione non è solo quella degli armeni, dei curdi, di Cipro… ma della stessa Turchia, in crisi economica e sociale. Potrebbe ampliare questo concetto?

Come tutte le nazioni in crescita rapida anche la Turchia sta vivendo i guasti del capitalismo sfrenato. Io non sono un economista, posso solo constatare quello che vedo passeggiando nelle vie della città dove sono nato, Istanbul. Esistono due economie quella interna in lira turca e quella esterna in dollari o in euro. La gente arranca per arrivare alla fine della giornata in una situazione confusa ed economicamente molto precaria. I giovani non hanno prospettive; non aggiungerei la situazione dell’Anatolia che per errori di valutazione economica è stata completamente svuotata dei suoi abitanti e della propria produzione agricola, essenziale per il paese. Fino a un ventennio fa la Turchia era un paese assolutamente autosufficiente per il suo approvvigionamento alimentare; oggi è normale acquistare in negozio un pollo ungherese, burro tedesco e frutta che arriva da altri paesi mediterranei. Malgrado l’esportazione si faccia ormai con parametri e prezzi internazionali (e di conseguenza anche l’importazione), l’operaio continua ad essere retribuito con parametri “locali” assolutamente insufficienti per far fronte alla propria vita quotidiana. Questa situazione potrebbe creare a medio termine guasti significativi e preoccupanti nella sfera sociale del paese.

 

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In un nostro precedente incontro (aprile 2007), dopo le grandi manifestazioni in favore della “laicità e della democrazia” organizzate dal partito di opposizione CHP (Cumhuriyet Halk Partisi – Partito popolare Repubblicano, fondato da Ataturk), lei sembrava dubbioso sulla reale spontaneità di queste iniziative della società civile. Non escludeva che potessero essere state “manovrate” dai militari (anche se i manifestanti dichiaravano di essere scesi in strada “contro il golpe” minacciato dall’esercito). Cosa si nasconde in realtà dietro la contrapposizione tra “laici” e “religiosi”? Come giudica l’esplicito richiamo ad Ataturk esibito in tanti striscioni e bandiere anche nelle manifestazioni dell’anno scorso?

Mustafa Kemal Ataturk (“Padre dei turchi”) è il simbolo della Turchia moderna. Non sempre però rappresenta la laicità; più volte i numerosi regimi che hanno tenuto sotto il tallone il popolo turco, si sono serviti della figura di questo soldato-politico. Quando si trattava di consolidare il proprio potere, in ogni periodo più o meno nefasto della storia della Turchia, molti si sono serviti della figura del fondatore della Turchia “moderna”. I primi governanti della Repubblica Turca erano i membri riciclati del partito Unione e Progresso (Ittihat ve Terakki) che tennero saldamente in mano il potere nell’Impero ottomano a cavallo fra il 1800 e il 1900. Portarono alla disfatta il paese durante la Prima Guerra mondiale, si macchiarono del Primo Genocidio del XX secolo, quello armeno, fondarono il loro potere economico sulle ricchezze sottratte agli armeni e ai greci massacrati. Potrei fare un lungo elenco di personaggi che da lugubri assassini divennero ministri della nuova Repubblica. L’Occidente nella sua voluta distrazione, confonde i nazionalisti turchi con i laicisti che si trovano in tutte le strutture del paese turco, non solo nelle file delle forze armate. Tanto per parlare chiaro, gli assassini di padre Santoro, del giornalista armeno Hrant Dink e i torturatori di Malatya (18 aprile 2007, assalto alla casa editrice cristiana Zirva e uccisione di tre persone, nda) appartengono alla stessa radice.

 

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Sia i militari che la Tusiad (l’associazione degli industriali turchi) si erano mostrati ostili nei confronti di Abdullah Gul, il candidato del partito AKP (Adalet ve Kalkinma Partisi – Partito per la giustizia e lo sviluppo, nda) di Erdogan, ritenuto un “fondamentalista” per quanto moderato. Contrari anche alcuni partiti, sia di destra che di sinistra (al punto che Gul stava quasi per ritirare la propria candidatura). Può darci qualche chiarimento?

Quello che si svolge in Turchia non è una lotta tra laici e religiosi. Finalmente, dopo quasi 90 anni dalla fondazione della Repubblica Turca, si è assistito a una nuova spartizione del potere. I militari si sono visti sottrarre una parte delle loro prerogative di concessione “divina” a favore della società civile e delle minoranze. Ricordo che anche i curdi vengono considerati una minoranza, ma erroneamente.

Infatti su un quarto del territorio sono la massiccia maggioranza e ogni tre cittadini turchi uno è curdo. Attualmente attorno alle grosse città come Istanbul, Ankara e Izmir ci sono delle vere e proprie città “curde”. In questa nuova realtà, di spartizione, si è inserito anche il mondo islamico moderato della Turchia. L’Islam fa parte integrante della Civiltà Turca e non ha le sembianze dell’Islam integralista. La religione turca è stata sempre mite e tollerante nei confronti del diverso, dell’ebreo, del cristiano.

I Giovani Turchi erano tutti atei, non hanno organizzato il genocidio degli armeni per motivi religiosi, ma vedevano questo popolo come una minaccia all’integrità della Turchia. Negli anni successivi i loro eredi nazionalisti hanno fatto la stessa cosa con i curdi (e continuano ancora a farlo) che non sono cristiani ma islamici come i turchi. La religione in mano ai nazionalisti (che si presentano come paladini del laicismo) è stata un pretesto per l’oppressione. Anche gli industriali turchi oggi temono le spinte della massa operaia e della società civile come una minaccia ai loro interessi concreti. Hanno paura che domani, senza il pugno di ferro dei militari, potrebbero essere non più facilmente controllabili.

 

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Come viene ricordato in Turchia l’anniversario del genocidio armeno, il 24 aprile?

In Turchia non si ricorda il 24 aprile, Giorno della memoria del Genocidio degli Armeni. E’ vietato per legge. Malgrado i numerosi appelli di tanti intellettuali e membri della società civile turca, lo stato non ha avuto ancora il coraggio di riconoscere questa immane tragedia. Il governo di Erdogan ci è andato vicino, ma forse anche per questo motivo sta pagando una pesante fattura. Del resto non invidio i turchi onesti di oggi che devono fare una serie di conti con il passato per crearsi un presente dignitoso. La questione armena non è la sola. Esistono anche la questione curda, i diritti umani, la situazione sociale, la questione cipriota, le relazioni con i vicini (Grecia, Siria, Iran, ecc.). Numerosi intellettuali turchi, da anni, sono costretti a vivere fuori dalla Turchia e tantissimi sono stati giudicati in contumacia per reati di opinione. Il più grande sociologo turco vivente, Taner Akcam, è esule negli Stati Uniti. Il Premio Nobel per la letteratura Orhan Pamuk, il giorno dopo l’assassinio di Hrant Dink, ha preso il primo aereo per la stessa destinazione. A Parigi ci sono più intellettuali turchi che a Izmir.

 

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Una domanda per quanto riguarda il quadro internazionale. Negli ultimi tempi si ha l’impressione che gli Usa stesse “scaricando” la Turchia, forse a favore del Kurdistan “iracheno” e di alcuni stati dell’Asia centrale che darebbero maggiori garanzie, anche in materia di basi militari. La sua opinione?

Il mondo globale è diventato sorprendentemente pratico. Se un aeroporto in Turkmenistan costa centomila dollari all’amministrazione statunitense, perché gli Usa dovrebbero spendere milioni di dollari per avere la stessa pista di decollo in Turchia? Sembra che gli Stati Uniti, avendo puntato su un Kurdistan iracheno, l’unico pezzo dell’Iraq dove riescono a controllare “due case e tre strade”, abbiano deciso (ma non ancora confessato per il momento) per una sua autonomia. Così facendo, hanno scelto di andare in rotta di collisione contro i militari turchi che non potranno mai ingoiare un rospo di tali proporzioni. Vedono questa nuova realtà, come un primo pezzo di un futuro Kurdistan indipendente che inesorabilmente chiederà fra qualche anno i suoi territori a Nord, oggi sotto l’amministrazione turca.

 

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Quando si parla degli armeni viene privilegiato il discorso sul genocidio perpetrato dalla Turchia. Si rischia di dimenticare che esiste una Repubblica di Armenia che ha permesso a questo popolo di conservare la propria cultura e identità nonostante le tragiche vicissitudini. Che cosa rappresenta la Repubblica di Armenia?

La repubblica dell’Armenia attuale rappresenta per gli armeni di oggi, soprattutto un decimo del territorio dei propri avi. L’Armenia è il baluardo della cultura e delle tradizioni armene, per tutti gli armeni sparsi per il mondo che sono ormai quasi una decina di milioni: 3,3 milioni in terra armena, due milioni in Russia, più un milione nell’America del Nord, mezzo milione in Francia, altrettanti in Medio oriente e il resto sparso per il mondo intero. La parte della popolazione armena più controversa numericamente si trova in Turchia: ufficialmente ci sono 60mila armeni cittadini turchi e 30mila armeni cittadini dell’Armenia, e circa 10mila armeni di varie cittadinanze, cioè in totale circa 100mila. Per altre fonti invece pare che in Turchia ci siano almeno due milioni di armeni o armeni turchizzati. E’ sicuramente una questione molto delicata. Ogni tanto si mormora dell’armenità di qualche pezzo grosso turco oppure salta fuori l’armenità di alcuni turchi molto importanti del passato. Un esempio lampante, causa di grande scandalo, risale a circa un anno fa. La figlia adottiva di Mustafa Kemal Ataturk, la prima Ufficiale dell’aeronautica turca della storia, risultava figlia di una famiglia armena di massacrati. Gli armeni della diaspora guardano all’Armenia come una grande speranza della rinascita. La realtà dell’Armenia ha le sue radici in una storia plurimillenaria. E’ noto che anche gli storici dell’antica Grecia parlavano degli armeni e dell’Armenia. Malgrado l’unità nazionale e lo stato nazionale armeno abbiano cessato di esistere per molti secoli (precisamente dal 1375 al 1918) sul territorio geograficamente chiamato Armenia, non ha mai cessato di esistere il popolo armeno, anche sotto numerose dominazioni (araba, persiana, ottomana e russa). I due anni della Repubblica Armena Indipendente nata dopo il genocidio del 1915 sono stati il preludio difficilissimo della Repubblica Sovietica Socialista dell’Armenia che faceva parte dell’URSS. Per settant’anni, fino al 1991, è stato un angolo di rinascita per il popolo armeno. Cosa mai vista nella storia dell’unione Sovietica, dal 1948 numerose famiglie armene decisero di trasferirsi nell’Armenia Sovietica acquisendone la cittadinanza. Se pensiamo alla quantità di cittadini sovietici desiderosi di andare in occidente, possiamo capire l’originalità del fenomeno.

 

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Che ruolo hanno avuto gli armeni nella seconda Guerra Mondiale?

Malgrado fossero usciti da una immane tragedia come quella del Genocidio, gli abitanti dell’Armenia Sovietica hanno partecipato molto attivamente alla Seconda Guerra Mondiale.

Il popolo armeno in quel periodo contava circa un milione e trecentomila individui abitanti nella piccola Repubblica e perse nella guerra contro i nazisti 250mila dei suoi migliori figli. Va detto che gli armeni sono stati la popolazione sovietica che in proporzione ha dato più ufficiali e più eroi all’Unione Sovietica durante la Seconda Guerra Mondiale. Va precisato che anche la Diaspora armena ha partecipato attivamente e concretamente alla guerra antinazista finanziando un intero corpo d’armata di mezzi corazzati, chiamato “Sasuntzi David” dal nome dell’eroe mitologico degli armeni. Fra i primi gruppi di soldati sovietici che entrarono a Berlino, c’erano numerosi giovani del corpo di spedizione formato esclusivamente da armeni. Il popolo armeno sparso per il mondo, anche quando le divisioni politiche erano aspre, ha considerato l’Armenia la propria terra a prescindere dal proprio orientamento politico e tuttora numerosi esponenti della diaspora hanno una casa in Armenia e anche attività commerciali o economiche.

 

militari turchi posano accanto alle loro vittime

Militari turchi posano accanto alle loro vittime

 

Uno dei problemi legati alla Repubblica di Armenia è quello del Nagorno Gharabagh. Può tracciarne una breve storia?

Il “malessere” dell’Armenia nel sistema sovietico, nasce a cavallo fra gli anni ’80 e ’90 del secolo appena trascorso. Bisogna comunque dire che quel sistema aveva portato un vero benessere ai figli dei sopravvissuti al primo Genocidio del XX secolo. Il terribile terremoto del 1989 si è presentato come un detonatore del malessere degli armeni caucasici già assillati dal silenzio del potere centrale moscovita nei confronti del Nagorno Gharabagh. Questa popolazione aveva continuato civilmente a chiedere, nell’ambito della legislazione vigente sovietica, una maggiore autonomia e la liberazione dal sopruso delle autorità azerbaigiane cui era stata consegnata una intera regione a maggioranza marcatamente armena, circa il 97% della popolazione residente. Quale risposta alle richieste armene, le autorità locali azerbaigiane, approfittando anche della situazione molto confusa delle autorità sovietiche ormai arrivate alla fine della propria storia, prepararono con cura un eccidio nella località di Sumgait. Sumgait è un importante sobborgo di Baku, capitale dell’Azerbaigian, dove abitavano migliaia di famiglie armene di ingegneri e operai specializzati nel settore dell’estrazione del petrolio. L’intento era di dare indirettamente un segnale forte agli armeni, facendo capire che, se avessero continuato a richiedere più libertà e autonomia, la pazienza degli azeri poteva essere colma. In una notte furono trucidati centinaia di armeni, donne violentate, bambini soffocati nelle loro culle. Atrocità gratuite di ogni genere che sconvolsero l’intera armenità. Il popolo armeno, in Armenia e nella Diaspora, vide di nuovo il pesante incubo del genocidio e dell’annientamento fisico. Le proteste presso le autorità sovietiche servirono solo a far raccogliere i cadaveri e far scappare i sopravvissuti con le navi, verso il Turkmenistan, attraverso il Mar Caspio. Ancora una volta come altre, troppo volte nella sua tragica storia, la piccola e pacifica nazione armena è stata costretta a prendere le armi. Fino al 1993 gli armeni combatterono contro le forze armate azerbaigiane, tre volte più numerose, armate fino ai denti e aiutate da mercenari venuti da altre repubbliche dell’URSS. Contro gli armeni intervennero anche migliaia di nazionalisti turchi capeggiati dai “Lupi Grigi” arrivati direttamente dalla Turchia, in qualche caso portandosi dietro le armi con la matricola della Nato, sottratte o semplicemente prese dagli arsenali dell’esercito turco. Certe guerre però vengono vinte dai disperati e questo fu il caso del Nagorno Gharabagh. Gli armeni, perdendo più di 5mila volontari, presero il controllo del loro territorio, spinsero le forze armate azerbaigiane verso l’interno del loro paese, riuscendo ad occupare un territorio sufficiente per la migliore difesa strategica della  loro terra. Attualmente Nagorno Gharabagh è una repubblica autonoma non riconosciuta da nessuno, ma finalmente libera dall’oppressore turco. Da allora i rapporti di dialogo, se pur attraverso terzi, fra l’Armenia e l’Azerbaigian non si sono mai interrotti. Ovviamente, come si usa in Oriente, ogni colloquio precede o succede a delle scaramucce che purtroppo ogni tanto lasciano qualche morto nelle rispettive trincee. Intanto, nel 1991, è nata la Repubblica dell’Armenia, un paese di circa 30mila km. quadrati, con circa tre milioni e duecentomila abitanti. Il blocco attuato dalla Turchia alle sue frontiere, non aiuta lo sviluppo del paese, ma gli armeni sono ben allenati a vivere in condizioni difficili, prosperano lo stesso con un certo aiuto dai loro fratelli della diaspora.

 

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Una donna  ed un bimbo nel deserto di Der-el-Zor

 

Mi sembra di capire che nel complesso l’Armenia ha avuto un “rapporto privilegiato” con l’URSS. E oggi lo mantiene con la Russia. Da cosa deriva questa vicinanza?

E’ vero che gli armeni hanno un rapporto privilegiato con la Russia, per il semplice motivo che negli ultimi secoli gli interessi dei due paesi sono stati convergenti. Nel Caucaso l’unico paese che è corretto nei confronti della Russia è l’Armenia. I georgiani e gli azerbaigiani stanno cercando la loro prosperità e la loro potenza presso altre realtà mondiali. Ritengo sia una scelta strategica che a lungo andare darà i suoi risultati. Dopo tante sofferenze ed esperienze negative anche il popolo armeno ha imparato a destreggiarsi nella politica internazionale. Noi come sempre siamo ottimisti.

 

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Ma in passato ci furono problemi anche con i sovietici?

Tutte le repubbliche che facevano parte dell’Unione Sovietica avevano avuto problemi con il governo centrale. Io non credo che l’armeno di Yerevan avesse più difficoltà del russo di Mosca o del kazako o dell’uzbeko dell’Asia centrale. Vivere bene o vivere male è una questione di cultura e il mio popolo ne possiede una, radicata da cinquemila anni. Abbiamo vissuto molte esperienze, anche dolorose, ma siamo ancora qui per sorridere e “per passare questa nostra vita di due giorni”, come dice il poeta armeno Hovhannes Tumanian.

 

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Nella storia del popolo armeno c’è stato un movimento di liberazione nazionale analogo a quello curdo?

Non vorrei esagerare, ma tutta la storia armena è una lotta di liberazione nazionale.

Gli armeni hanno dovuto fare i conti giorno per giorno con i loro vicini, con tante realtà politico-militari che hanno occupato la terra armena durante lunghi secoli. Solo per dare un piccolo esempio posso precisare che l’Armenia, dalla caduta del regno di Cilicia nel 1375 alla nascita della prima Repubblica Armena nel 1918, per più di cinque secoli, non ha avuto uno stato centrale ed è stata governata nelle autonomie locali con la presenza delle forze straniere. Già nel 1009 i Selgiuchidi avevano iniziato a occupare la parte orientale dell’Armenia. In seguito ci fu la presenza degli arabi e poi, di volta in volta, la spartizione della terra armena fra i grandi imperi. Prima quello persiano, poi l’Ottomano e per ultimo la Russia zarista nella parte caucasica dell’Armenia. Le lotte più tremende però le abbiamo vissute nei confronti del nazionalismo turco. Iniziarono nella seconda metà dell’ottocento, culminando nel Primo Genocidio del XX secolo, organizzato a tavolino dai Giovani Turchi. Loro credevano che salvando la parte soltanto turca del decadente impero ottomano si poteva salvare la continuità. Tutto ciò che non era turco era da eliminare. C’erano tre principali minoranze e loro sono stati molto abili nell’annientare una alla volta queste componenti del tessuto civile dell’impero ottomano. Prima hanno diviso per religione, iniziando l’annientamento di quelle cristiane. Hanno usato molto abilmente la terza minoranza, quella curda, contro le prime due: armeni e greci. Dopo essersi sbarazzati dei cristiani, usando appunto i curdi come manodopera, si sono rivolti contro i curdi, il cui annientamento continua fino ai nostri giorni. L’Occidente, Italia compresa, sa benissimo quello che sta succedendo anche oggi nell’Anatolia Orientale, ma tace per potere continuare i suoi affari con la Turchia.

 

 

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Venezia: Isola di san Lazzaro degli Armeni.

 

Qual è il suo ruolo attuale, in quanto esponente della comunità armena in Italia, nei confronti della Repubblica di Armenia?

Ogni armeno, nel rispetto della sua appartenenza come cittadino di un qualsiasi paese, non dimentica mai la sua terra natale. Noi siamo degli individui molto integrati nel paese dove abbiamo deciso di vivere. L’Italia è stata una terra molto ospitale per noi armeni, anche prima del Genocidio. Potrei dire che salvato la nostra cultura, nella sua integrità, dando spazio e libertà d’azione a un grosso centro che è stato ed è tuttora l’Isola di san Lazzaro degli Armeni.

 

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Palazzo Zenobio degli Armeni. Collegio Armeno.  Dorsoduro ai Carmini, 2596 – Venezia

 

A Venezia fino al 1996 è esistito un Collegio che ha preparato gran parte degli intellettuali armeni iniziando dal 1836. Il lavoro più significativo che io personalmente riesco a fare per le mie due terre, per l’Armenia e per l’Italia, è quello di andare in tante scuole italiane di ogni ordine e grado, portare la mia testimonianza e raccontare la storia del mio popolo di appartenenza. Ho anche scritto molto su questi argomenti e per la Regione Veneto ho pubblicato due volumi che appunto parlano degli armeni del Veneto e della loro integrazione nell’ospitale terra veneta. Per desiderare la Pace bisogna anche portare degli esempi concreti. La Pace non è una cosa astratta. La convivenza, il reciproco riconoscimento e la concordia fra diverse culture e diversi popoli e religioni sono anche cose terribilmente pratiche: bisogna viverle con serenità, costruire assieme giorno per giorno.

 

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Un  delle tante colonne di deportati in pieno deserto

 

Ancora una domanda. La questione armena è entrata a far parte dei “Criteri di Copenaghen” per l’accesso della Turchia nella Unione europea?

Nei “criteri di Copenaghen” ci sono generiche richieste di “buon vicinato” con i confinanti della Turchia, Armenia compresa. Però ai primi di settembre 2006 la Commissione Esteri del Parlamento Europeo, fra centinaia di emendamenti acquisiti per sottolineare il rallentamento della Turchia nel processo di integrazione, ha inserito in modo assoluto il riconoscimento dl genocidio. E questo naturalmente ha fatto arrabbiare la Turchia perché accettandolo, dovrebbero rivedere i fondamenti della loro storia, mettere in discussione anche l’onestà dei padri fondatori. Ammettere, come ha fatto lo scrittore Akcam (processato, condannato a quindici anni e fuggito negli Stati Uniti) che “la nostra economia è fondata sul denaro, le case e le terre rubate agli armeni”.

 

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Questa mappa si trova in Jean Mecerian s.j., Le genocide du peuple armenien, le sort de la population armenienne de l’Empire ottoman, De la Constitution ottomane au Traite de Lausanne (1908-1923), Editions de l’Imprimerie catholique, Beyrouth, 1965. by denisdonikian.blog.lemonde.fr

 

E per concludere: dovendo fare una richiesta al popolo turco…?

I turchi sono un popolo mite e buono; questa loro eccessiva bontà ha fatto sì che numerosi capi, anche nella storia recente, abbiano potuto manipolare i sentimenti nazionali e soprattutto religiosi della popolazione, creando situazioni inaccettabili per il futuro. Personalmente chiederei di essere più coraggiosi nel fare ordine nei loro armadi storici, tirando fuori tutti gli scheletri scomodi. Sono una grande nazione, non devono temere le conseguenze, che saranno sicuramente più edificanti della attuale situazione, di questo continuo nascondersi dietro un dito. I principali popoli con i quali hanno avuto epiloghi tragici sono tutti loro vicini, sono popoli con cui hanno vissuto lunghi periodi di pace e di prosperità. E pensare che loro stessi chiamavano gli armeni, Millet-i Sadika (popolo fedele). Si deve ricominciare da quel punto.

 

 

 

Fonte: srs di Gianni Sartori, da L’Indipendenza del 15 aprile 2014

Link: http://www.lindipendenza.com/armenia-24-aprile-anniversario-di-un-genocidio-dimenticato/

 

 

 

 

 

L’OLOCAUSTO ARMENO

 

 

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Civili armeni in marcia forzata verso il campo di prigionia di Mezireh, sorvegliati da soldati turchi armati. Kharpert, Impero Ottomano, aprile 1915.

 

 

Con l’espressione “genocidio armeno” (in lingua armena Medz Yeghern, Grande Male) (1) ci si riferisce a due eventi distinti ma legati fra loro: il primo, quello relativo alla campagna contro gli armeni condotta negli anni 1894-1896 dal sultano Abdul Hamid II; il secondo, quello collegato alla deportazione ed eliminazione degli armeni compiute nel corso del Primo Conflitto Mondiale dal nuovo governo della Sublime Porta controllato dai Giovani Turchi.

In questa sede ci limiteremo a ricostruire i fatti salienti di quest’ultima persecuzione, soprattutto in virtù delle sue peculiari finalità e metodologie e per il fatto che essa viene ancora negata o contestata – nonostante l’enorme mole di documenti e testimonianze – dall’attuale governo turco. Il sostanziale rifiuto da parte dell’attuale governo di Ankara di riconoscere le responsabilità storiche della Sublime Porta rappresenta non soltanto un chiaro esempio di ‘negazionismo’, ma anche un ingombrante ostacolo all’ingresso nel consesso europeo di questo Paese retto sì da un regime laico ma ancora fortemente permeato di religiosità e di esasperato e malinteso spirito nazionalista.

 

Verso la fine del XIX secolo, la crisi politica, economica e sociale dell’impero ottomano si fece sempre più grave, sfociando in sedizioni e sommosse. A Salonicco un gruppo di ufficiali dell’esercito, affiancato da alcuni esiliati politici turchi confluiti nella Ittihad ve Terakki (il partito Unione e Progresso), iniziò a tramare contro l’incapace e retrogrado governo centrale di Costantinopoli, con l’obiettivo di intraprendere, anche con la forza, un necessario quanto urgente processo di modernizzazione dell’impero ormai sull’orlo del collasso.

 

Il 24 luglio del 1908, il Comitato Centrale di Unione e Progresso detronizzò il sultano Abdul Hamid II sostituendolo con il più malleabile fratello Muhammad. Seguì un breve periodo di euforia da parte delle minoranze etniche e religiose della Sublime Porta, tra cui quella armena, che confidavano nell’inizio di una nuova era caratterizzata da maggiori libertà.

Si trattò però di una semplice speranza destinata a svanire di fronte ai reali e non dichiarati intenti che in segreto animavano i cuori degli appartenenti ad un nuovo partito ‘progressista’, il Movimento dei Giovani Turchi, intenzionati sì a modernizzare economicamente e socialmente il loro agonizzante impero, ma anche ad unificarlo etnicamente e religiosamente, espandendone nuovamente i confini non ad occidente, come avevano quasi sempre fatto i sultani del passato, bensì ad oriente, in direzione della Persia, del Caucaso e delle immense regioni asiatiche centrali, abitate da popoli (tartari, azerbaigiani, ceceni, kazachi, uzbechi, kirghisi e tagiki) linguisticamente ed etnicamente affini al popolo anatolico.

La teoria geopolitica intorno alla quale ruotava questo piano si basava sull’ideologia panturanica. Secondo il padre di quest’ultima – l’orientalista, linguista ed esploratore ungherese Arminius Vambery (1832-1913) – l’impero ottomano avrebbe infatti potuto e dovuto allargare i suoi confini all’intera area caucasica e asiatico-centrale in virtù della già citata uniformità etnico-religiosa che caratterizzava l’intero “popolo” turco.

Fu per questa ragione che, il 26 gennaio 1913, un triumvirato di Giovani Turchi firmato da Enver Pascià, Taalat Pascià e Ahmed Jemal – nonostante i precedenti proclami inneggianti l’eguaglianza di tutti i sudditi della Sublime Porta – iniziarono ad organizzare un piano di persecuzione nei confronti di tutte le minoranze, prima fra tutte quella armena, mettendo in piedi un’efficiente struttura paramilitare, l’Organizzazione Speciale (O.S.), coordinata da due medici, Nazim e Shaker, e dipendente dal Ministero della Guerra e da quello degli Interni e della Giustizia.

Nel 1914, con l’entrata in guerra della Turchia a fianco degli Imperi Centrali, i Giovani Turchi poterono finalmente rendere più che palesi le loro intime convinzioni e dare il via ad una sistematica e scientifica persecuzione destinata a protrarsi per quasi tutta la durata del Primo Conflitto Mondiale.

Tra l’aprile e il maggio 1915, i turchi concentrarono i loro sforzi nell’eliminazione dell’élite economico-culturale e dei militari armeni.

Il 24 aprile 1915 (che verrà in seguito ricordata come la data commemorativa del ‘genocidio’), a Costantinopoli, circa 500 armeni furono incarcerati e poi eliminati. Tra le vittime vi era anche il deputato Krikor Zohrab che pensava di godere dell’amicizia personale di Talaat Pascià, molti intellettuali, come il poeta Daniel Varujan, giornalisti e sacerdoti.

Tra gli uomini di chiesa, Soghomon Gevorki Soghomonyan (più noto come il monaco Komitas), padre della etnomusicologia armena. Komitas fu deportato assieme ad altri 180 intellettuali armeni a Çankırı in Anatolia centro settentrionale. Egli sopravvisse alla prigionia e alla guerra grazie all’intervento del poeta nazionalista turco Emin Yurdakul, della scrittrice turca Halide Edip Adıvar e dell’ambasciatore americano Henry Morgenthau. Trasferitosi nel 1919 a Parigi, Komitas, sulla scorta degli orrori patiti, impazzì finendo i suoi giorni in un manicomio, nel 1935.

 

Tra il maggio e il luglio del 1915, gli ottomani, spalleggiati da bande curde (2) e da reparti formati da ex detenuti, setacciarono le comunità delle province di Erzerum, Bitlis, Van, Diyarbakir, Trebisonda, Sivas e Kharput, dove soprattutto i reparti curdi depredarono e massacrarono migliaia tra donne, vecchi e bambini e decine di sacerdoti a molti dei quali, prima dell’esecuzione, furono strappati gli occhi, le unghie e i denti.

Gevdet Bey, vali (governatore) della città di Van e cognato del ministro della Difesa Enver Pascià, era solito fare inchiodare ai piedi dei prelati ferri di cavallo arroventati.

Stando ad un rapporto del console statunitense ad Ankara, nel luglio 1915, diverse migliaia di soldati armeni inquadrati nell’esercito ottomano e reduci dalla disastrosa campagna del Caucaso (scatenata nel dicembre del 1914 da Enver Pascià contro le forze zariste al comando del generale Nikolai Yudenich ) furono improvvisamente disarmati dai turchi e spediti nelle zone di Kharput e  Diyarbakir con il pretesto di utilizzarli nella costruzione di una strada. Ma una volta giunti sul posto essi vennero tutti fucilati.

Solitamente, i turchi organizzavano le deportazioni di massa trasferendo i loro prigionieri in località piuttosto remote. Una delle destinazioni prescelte fu la desolata regione siriana di Deir al-Zor, dove centinaia di intere famiglie armene furono ammassate e lasciate morire di stenti in primordiali lager privi di baracche e servizi igienici..

In terra siriana vennero anche spediti migliaia di giovani ragazze e ragazzi armeni che riuscirono però a scampare alla morte in parte perché venduti a gestori arabi di bordelli per etero e omosessuali, e in parte perché rinchiusi negli speciali orfanotrofi per cristiani gestiti da Halidé Edib Adivart, una sadica virago incaricata da Costantinopoli di ‘rieducare’ I piccoli armeni.

 

Le deportazioni – annotò in questo periodo il diplomatico tedesco Max Erwin von Scheubner-Richter –furono giustificate dal governo turco con la scusa di un necessario spostamento delle comunità armene dalle zone interessate dalle operazioni militari (Anatolia orientale e nord orientale, n.d.a) (…) Non escludo che gran parte dei deportati furono massacrati durante la loro marcia. (…)

Una volta abbandonati i loro villaggi, le bande curde e i gendarmi turchi si impadronivano di tutte le abitazioni e i beni degli armeni, grazie anche ad una legge del 10.6.1915 ed altre a seguire che stabiliva che tutte le proprietà appartenenti agli armeni deportati fossero dichiarate “beni abbandonati” (emvali metruke) e quindi soggetti alla confisca da parte dello Stato turco”.

E a testimonianza dei risvolti economici della strage, basti pensare che “i profitti derivati all’oligarchia dei Giovani Turchi e ai suoi lacchè dai beni rapinati agli armeni arrivarono a toccare la cifra astronomica di un miliardo di marchi”.

Nell’inverno del ‘15, il conte Wolff-Metternich decise di riferire al ministero degli Esteri tedesco il protrarsi “di questi inutili e crudeli eccidi”, chiedendo un intervento ufficiale presso la Sacra Porta Venuti al corrente della protesta, Enver Pascià e Taalat Pascià chiesero a Berlino la sostituzione di Wolff-Metternich che nel 1916 dovette infatti rientrare in Germania.

 

Va comunque detto che non tutti i governatori turchi accettarono di eseguire per filo e per segno gli ordini di Costantinopoli.

Nel luglio 1915, ad esempio, il vali di Ankara si oppose allo sterminio indiscriminato di giovani e vecchi, venendo rimosso e sostituito da un funzionario più zelante, tale Gevdet, che nell’estate del ‘15 a Siirt fece massacrare oltre 10.000 tra armeni ortodossi, cristiani nestoriani, giacobini e greci del Ponto.

Resoconti sui molteplici eccidi sono registrati anche nelle memorie di altri addetti diplomatici francesi, bulgari, svedesi e italiani (come il console di Trebisonda, Giovanni Gorrini) presenti all’epoca in Turchia.

Nonostante tutto, il governo turco non si reputava ancora soddisfatto di come stava procedendo la risoluzione del “problema armeno”. “In base alle relazioni da noi raccolte – annotò il 10 e il 20 gennaio del 1916, il notabile Abdullahad Nouri Bey – mi risulta che soltanto il 10 per cento degli armeni soggetti a deportazione generale abbia raggiunto i luoghi ad essi destinati; il resto è morto di cause naturali, come fame e malattie. Vi informiamo che stiamo lavorando per avere lo stesso risultato riguardo quelli ancora vivi, indicando e utilizzando misure ancora più severe (…) Il numero settimanale dei morti non è ancora da considerarsi soddisfacente”.

Nel 1916, Enver Pascià, Taalat Pascià e Ahmed Jemal diedero quindi un ulteriore giro di vite, intimando ai loro governatori e ai capi di polizia di “eliminare con le armi, ma se possibile con mezzi più economici, tutti i sopravvissuti dei campi siriani e anatolici”.

In questa fase del massacro ebbe modo di distinguersi per efficienza il governatore del già citato distretto di Deir al-Azor, Zeki Bey, che – secondo quanto riportano James Bryce e Arnold Toynbee in The Treatment of Armenians in the Ottoman Empire, 1915–1916 – “rinchiuse 500 armeni all’interno di una stretta palizzata, costruita su una piana desertica, e li fece morire di fame e di sete”.

Durante l’estate del 1916, gli uomini di Zeki eliminarono complessivamente oltre 20.000 armeni.

A dimostrazione della criminale sfacciataggine dei leader turchi, basti pensare che Taalat Pascià arrivò a vantarsi dell’efficienza del suo governatore con l’ambasciatore americano Morgenthau, al quale egli ebbe anche il coraggio di chiedere “l’elenco delle polizze assicurazioni sulla vita che gli armeni più ricchi (deceduti nei campi di sterminio) avevano precedentemente stipulato con compagnie americane, in modo da consentire al governo di incassare gli utili delle polizze”.

Altrettanto crudele ed anche beffardo risultò il destino delle comunità armene dell’Anatolia orientale che, grazie anche all’intervento dell’armata zarista, erano riuscite a trovare momentaneo rifugio nelle valli del Caucaso. In seguito alla rivoluzione bolscevica del 1917, l’esercito russo si era infatti ritirato dall’Anatolia orientale e dalla Ciscaucasia, abbandonando gli armeni al loro destino. Rioccupata l’importante città-fortezza di Kars, le forze ottomane iniziarono una vera e propria caccia all’uomo, eliminando circa 19.000 cristiani. Identica sorte toccò a quei profughi armeni che, rifugiatisi in Azerbaigian, furono massacrati dalle locali minoranze mussulmane tartare e cecene che, nel 1918, nella sola area di Baku, ne eliminarono 30.000.

 

Ma la guerra stava ormai volgendo al termine e nell’imminenza del crollo della Sublime Porta, i responsabili delle stragi iniziarono a dileguarsi. Quando, nell’ottobre 1918, la Turchia si arrese alle forze dell’Intesa, i principali dirigenti del partito dei Giovani Turchi vennero arrestati dai britannici ed internati a Malta per un breve periodo.

A carico dei fautori e degli esecutori dei massacri fu intentato un processo svoltosi nel 1919 a Costantinopoli sotto la supervisione del nuovo primo ministro Damad Ferid Pascià che alla Conferenza di pace di Parigi, il 17 luglio 1919 aveva ammesso i crimini perpetrati ai danni degli armeni.

Lo scopo del processo di Costantinopoli non era in realtà quello di rendere giustizia al popolo armeno e di chiarire le colpe pregresse dell’amministrazione ottomana (cioè quelle di prima della Grande Guerra), bensì quello di scaricare tutte le colpe sui leader dei Giovani Turchi, sicuramente responsabili, ma che avevano potuto portare a compimento il loro piano di sterminio, grazie alla connivenza di larghi strati della  burocrazia civile e militare.

Il processo si risolse quindi in una farsa, senza considerare che nei confronti dei molti imputati condannati in contumacia (nell’autunno del 1918 quasi tutti erano riusciti ad abbandonare al Turchia), non furono mai presentate richieste di estradizione. Non solo. In una fase successiva anche i verdetti della corte vennero in gran parte annullati ed archiviati.

Nell’ottobre del 1919, a Yerevan, i vertici del partito armeno Dashnak, più che mai decisi a farsi giustizia, misero a punto un piano (l’Operazione Nemesis) per eliminare di circa 200 tra uomini politici, funzionari turchi e ‘collaborazionisti’ armeni ritenuti direttamente o indirettamente responsabili del genocidio.

Il 15 marzo del 1921, a Berlino, l’ex ministro degli Interni Talaat Pascià, il principale artefice dell’olocausto armeno, venne ucciso da Solomon Tehlirian che, tuttavia, dopo essere stato arrestato e processato, nel mese di giugno dello stesso anno sarà graziato da un tribunale tedesco.

Il 18 luglio 1921, fu la volta di Pipit Jivanshir Khan, coordinatore del massacro di Baku, assassinato a Constantinopoli, da Misak Torlakian. Il killer fu arrestato, ma rilasciato dalla polizia inglese.

Il 5 dicembre, a Berlino, l’agente Arshavir Shiragian eliminò l’ex primo ministro turco Said Halim Pascià. Shiragian scampò all’arresto, rientrando poi a Constantinopoli.

Il 17 aprile 1922, sempre a Berlino, Aram Yerganian, spalleggiato probabilmente da un altro sicario (il misterioso “agente T”) da lui ingaggiato, freddò Behaeddin Shakir Bey, coordinatore dello speciale Comitato ittihadista e Jemal Azmi, il ‘mostro’ di Trebisonda, responsabile della morte di 15.000 armeni, e già condannato, nel 1919, alla pena capitale da un tribunale militare turco che tuttavia non aveva ritenuto opportuno rendere esecutiva la sentenza.

Il 25 luglio 1922, fu la volta dell’ex ministro della Difesa Jemal Pascià che a Tbilisi cadde sotto i colpi di Stepan Dzaghigian e Bedros D. Boghosian.

Curiosa, ma decisamente consona al personaggio fu invece la fine di Enver Pascià, probabilmente il più ambizioso e idealista dei triumviri turchi, il “piccolo Napoleone” dell’impero e il più tenace propugnatore del movimento “internazionalista” turco. Rifugiatosi tra le tribù dell’Asia Centrale, dove pensava di realizzare il suo antico sogno panturanico, cioè la creazione di una Grande Nazione Turca, agli inizi degli anni Venti Enver scatenò una rivolta mussulmana contro il potere sovietico. Ma il 4 agosto 1922, nei pressi di Baldzhuan, località del Turkestan meridionale (oggi inclusa del territorio del Tagikistan) egli venne sconfitto e ucciso con pochi suoi seguaci da preponderanti forze bolsceviche.

 

Alberto Rosselli

 

 

NOTE:

 

1)Il termine “genocidio” fu coniato negli anni Quaranta dal giurista americano di origine ebraico-polacca Raphael Lemkin proprio in riferimento alla repressione armena.

2) A proposito della collaborazione fornita dai curdi al governo centrale, va ricordata l’istituzione da parte del sultano dei reggimenti Hamidye, reparti paramilitari dipendenti dall’esercito e dalla gendarmeria turchi, che vennero largamente utilizzate per depredare o incendiare le comunità armene “ribelli”).

 

BIBLIOGRAFIA:

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D. Fromkin, Una pace senza pace, Rizzoli Libri, Milano 1992.

M. Gilbert, La grande storia della Prima Guerra Mondiale, Arnoldo Mondatori Editore, Milano 1998.

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H.Kaiser, Imperialism, Racism and Development Theories: The Construction of a Dominant Paradigm on Ottoman Armenians, Gomidas Institute Books, Princeton, 1998.

H.Kaiser, The Baghdad Railway and the Armenian Genocide, 1915-1916: A Case Study in German Resistance and Complicity, in Remembrance and Denial: the Case of the Armenian Genocide, Wayne State University Press, 1999.

R. Kevorkian, L’extermination des deportés arméniens ottomans dans les camps de concentration de Syrie-Mésopotamie (1915-1916), Revue d’Histoire Arménienne Contemporaine, Tome II, Paris, 1998.

Y. Ternon, Gli armeni. 1915-1916: il genocidio dimenticato, Rizzoli, Milano, 2003.

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D.Varujan, Mari di grano e altre poesie armene, Paoline, Milano, 1995, a cura di Antonia Arslan.

C. Mutafian, Metz Yeghérn Breve storia del genocidio degli armeni, Angelo Guerrini & Associati, Milano 1998.

A. Rosselli, Sulla Turchia e l’Europa, Solfanelli Editore, Chieti, 2006.

A. Rosselli, L’olocausto armeno, Sito web Nuovi Orizzonti, http://www.storico.org.


H. M. Sukru, “The Political Ideas of the Young Turks”, in idem, The Young Turks in Opposition, Oxford University Press, 1995

 

 

Fonte: visto su STORIA VERITA’ DEL 4 febbraio 2011

Link: http://www.storiaverita.org/?p=74

 

 

 

 

L’ARMENIA E IL SUO GENOCIDIO. LE AMMISSIONI DI COLPEVOLEZZA

 

 

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A differenza dell’olocausto ebraico, riconosciuto e condannato da parte tedesca, quello armeno non è stato né riconosciuto né tanto meno condannato da parte della Turchia attuale, che anzi, in ogni occasione, sia pubblicamente che riservatamente, continua a negare il fatto che sia mai avvenuto un genocidio degli armeni.

 

Negli ultimi tempi, poi, sono stati messi in circolazione da parte della Turchia dei falsi documenti storici per depistare le ricerche degli studiosi del genocidio armeno.

 

Come se ciò non bastasse ad Istanbul e ad Ankara sono state intitolate vie e piazze ai nomi dei principali responsabili dello sterminio degli armeni. In onore di uno di essi, poi, è stato eretto un vero e proprio mausoleo ad Istanbul.

 

Inoltre la Turchia odierna non ha rinunciato alle sue mire espansionistiche, tant’è vero che il presidente Demirel ha ripetutamente affermato che la zona d’influenza turca si estende dall’Adriatico alla Cina. Il suo predecessore Ozal, ricordando il contenzioso con l’Armenia, ha affermato che forse la “lezione” data agli Armeni all’inizio del secolo non era stata sufficiente ed occorreva darne loro un’altra.

 

Anche negli anni successivi al genocidio non è mutato l’atteggiamento ostile della Turchia nei confronti degli Armeni là residenti, che, ridotti ad alcune decine di migliaia di persone quasi tutte concentrate a Istanbul, sono sottoposti tuttora ad un regime di discriminazioni e di vessazioni striscianti. Nel 1996 con il massimo degli onori e alla presenza del capo dello stato turco, furono traslate dall’Asia Centrale, e tumulate in Turchia, le spoglie di Enver pascià, un altro dei maggiori responsabili dello sterminio degli armeni.

 

Il semplice fatto poi che il 24 aprile – data in cui vengono commemorate le vittime del genocidio armeno – uomini politici stranieri, in varie parti del mondo, rendano omaggio alla memoria di queste ultime, suscita rabbiose e scandalizzate reazioni in Turchia.

 

E’ evidente che una Turchia che ha un simile atteggiamento costituisce un serio pericolo non solo per gli armeni, ma anche per la democrazia, la libertà e la pacifica coesistenza fra i vari popoli. Sarebbe come se in Germania attualmente non solo non venissero condannate le azioni di Hitler, ma venisse eretto un mausoleo in suo onore e in varie città tedesche vi fossero vie o piazze intitolate a Himmler, Goebbels, Goering ed inoltre le più alte cariche dello stato negassero l’esistenza stessa dell’Olocausto.

 

Ancora oggi gli stessi storici turchi non ammettono la verità del genocidio, in quanto sostengono non esistano documenti ufficiali che la comprovino, ovvero l’intenzione di distruggere un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso. Il fatto è che la Turchia ha sempre respinto il termine di “genocidio” nei confronti degli armeni, limitandosi a riconoscere che c’è stata solo “persecuzione” (solo 300.000 furono uccisi, secondo gli storici turchi). [Si vedano tuttavia queste importanti eccezioni]

 

Ma nonostante la negazione della Turchia e le sue reticenze, lo sterminio armeno è un dato di fatto incontestabile, ampiamente documentato oltre che dalle narrazioni dei superstiti, anche da parte di testimoni stranieri ed imparziali, quali l’ambasciatore americano Morgenthau ed altri diplomatici statunitensi, il pastore evangelico tedesco Lepsius, gli inglesi Lord Bryce e A. Toynbee, lo scrittore e filantropo tedesco Armin Wegner, il francese Henri Barby, per citare solo alcuni dei più noti.

 

Negli archivi americani, inglesi, francesi, tedeschi ed austriaci c’è poi una ricca documentazione al riguardo.

 

Infine vi sono i documenti di diretta provenienza turca, prodotti dalla corte marziale convocata per giudicare i responsabili del genocidio.

 

Il termine stesso “genocidio” è stato creato all’inizio degli anni ’40 del Novecento dal giurista americano di origine ebreo-polacca Raphael Lemkin, che ha coniato questa parola proprio in seguito all’impressione subita nell’apprendere le modalità dello sterminio degli armeni.

 

Negli anni immediatamente successivi al genocidio armeno, sebbene non fosse stato ancora coniato il termine “genocidio”, questo crimine fu condannato dai governi alleati già nel 1915 e inoltre dal Senato degli Stati Uniti, nel 1916 e 1920, dal Tribunale Militare turco nel 1919, nel 1921 dalla Corte Criminale di Berlino che assolse un giustiziere armeno che aveva ucciso Talaat pascià, principale responsabile dello sterminio armeno.

 

In seguito però venne steso un velo di silenzio sullo sterminio degli Armeni che fu sempre più dimenticato. In epoca più recente, e nonostante le pressioni esercitate da parte della Turchia, varie istituzioni nazionali ed internazionali hanno riconosciuto e condannato il genocidio armeno.

 

Nel 1984 è stato il Tribunale Permanente dei Popoli che nel corso della sessione dedicata a questo argomento, dal 13 al 16 aprile 1984, ha riconosciuto fra l’altro che “lo sterminio delle popolazioni armene con la deportazione ed il massacro costituisce un crimine imprescrittibile di genocidio ai sensi della convenzione del 9/12/1948 per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio”.

 

L’anno successivo è stata la “Sottocommissione per la lotta contro le misure discriminatorie e per la protezione delle minoranze” della Commissione dei Diritti dell’Uomo dell’ O.N.U. che nella seduta del 29/8/1985 ha riconosciuto, fra gli altri, anche il genocidio armeno.

 

Infine il Parlamento Europeo, nella seduta del 18/6/1987, riconoscendo il genocidio armeno e condannando l’atteggiamento della Turchia, ha invitato gli stati membri della Comunità Europea a dedicare un giorno alla memoria dei genocidi armeno ed ebreo. Oltre a ciò, proprio in considerazione dell’attuale atteggiamento turco nei confronti del genocidio armeno, il Parlamento Europeo ha posto quale precondizione all’unione della Turchia alla Comunità Europea il riconoscimento da parte turca dello sterminio degli armeni.

 

In epoca più recente, il 14 aprile 1995, la Duma (il parlamento) della Russia ha riconosciuto all’unanimità il genocidio armeno. Lo stesso anno il genocidio armeno fu riconosciuto dai parlamenti di Bulgaria e Cipro. Così pure il vice-ministro degli esteri israeliano, Iosi Beilli, nel corso della seduta del parlamento d’Israele del 27 aprile 1994, affermò che lo sterminio degli armeni era stato un vero e proprio genocidio. Nel 1996 esso venne riconosciuto da parte del parlamento della Grecia e l’anno successivo da quello del Libano. Nel 1998 furono i senati del Belgio e dell’Argentina a riconoscerlo. Infine il 29 maggio 1998 fu riconosciuto all’unanimità da parte dell’Assemblea Nazionale francese, nonostante la forte opposizione e le minacce ricattatorie della Turchia; mentre il 29 marzo 2000 il genocidio armeno è stato formalmente riconosciuto dal parlamento svedese.

 

Parallelamente a ciò, nell’ultimo decennio, anche vari parlamenti locali, come quelli dell’Ontario e del Quebec in Canada, del Nuovo Galles del Sud in Australia, quello dell’Uruguay e quelli di undici Stati degli Usa hanno condannato lo sterminio degli armeni (Massachusetts, California, New Jersey, New York, Wisconsin, Pennsylvania, Rhode Island, Virginia ed Illinois in ordine di tempo a partire dal 1978 al 1995).

 

Affermazioni simili, con sfumature diverse, sono state fatte da eminenti uomini di stato, come per esempio il presidente francese Mitterand, quello statunitense Clinton o da personalità politiche, da parlamentari e diplomatici europei ed americani.

 

In Italia, negli anni 1997-98, il genocidio armeno è stato riconosciuto da 21 Consigli Comunali di varie città: Roma, Milano, Genova, Firenze, Venezia, Padova, Parma, Ravenna, Bagnacavallo (RA), Camponogara (VE), Castelsilano (KR), Conselice (RA), Cotignola (RA), Faenza (RA), Feltre (BL), Fusignano (RA), Lugo (RA), Imola (BO), Russi (RA), Sant’Agata sul Santerno (RA), Solarolo (RA), Thiene (VI) e così pure dal Consiglio Regionale della Lombardia. Nel settembre 1998 una proposta di riconoscimento del genocidio armeno è stata presentata dall’onorevole G. Pagliarini (Lega Nord) alla Camera dei Deputati e sottoscritta da parte di più di 170 parlamentari, appartenenti a tutti i gruppi politici presenti in Parlamento. Il 31/3/2000 è stata posta all’ordine del giorno una mozione che mira al riconoscimento, da parte del governo italiano, del genocidio armeno.

 

A tutt’oggi il riconoscimento del genocidio da parte della comunità internazionale sembra ancora ben lontano dall’essere una realtà e i timidi tentativi, quali quello dell’Assemblea Nazionale Francese, di dare dignità storica ai fatti avvenuti in quegli anni sono stati tutti immediatamente insabbiati dalle inconsulte reazioni turche e dal vergognoso silenzio-assenso delle grandi potenze, primi fra tutti gli Usa, che hanno sempre dato maggiore importanza ai legami politico-militari con la Turchia.

 

La Francia è stato il primo paese europeo ad aver riconosciuto pubblicamente “il genocidio degli armeni”. L’Assemblea Nazionale francese, approvando all’unanimità una dichiarazione solenne, ha dato atto agli armeni (1,2-1,5 milioni di persone) di essere stati massacrati dai Turchi tra il 1915 e il 1918.

 

Si tratta di ”un gesto di riparazione morale nei riguardi di quel popolo”, ha sottolineato il Presidente della Commissione Esteri francese, Jack Lang. ”Non abbiamo niente contro l’attuale governo turco né contro il popolo turco”, ha specificato. Ma la reazione della Turchia all’approvazione del testo è stata durissima: “Questo gesto avrà conseguenze nefaste sui rapporti bilaterali”, hanno fatto sapere importanti esponenti del governo. Ankara ha già fatto sapere che intende boicottare le società francesi con una ritorsione economica.

 

L’Istituto di Studi Armeni di Monaco di Baviera ha recentemente dato inizio alla compilazione dell’elenco nominativo delle vittime del genocidio armeno. Si tratta di elencare i nomi di quegli armeni che nel corso degli anni 1915-1922 sono stati vittime del genocidio perpetrato ad opera dei turchi, sia ottomani che kemalisti e cioè tutti quegli armeni che negli anni 1915-22 sono morti o sono stati uccisi, rapiti o scomparsi a causa del genocidio, o della tragedia di Smirne del 1922, o dell’espulsione degli armeni dalla Cilicia nel 1920-21, oppure delle offensive turche contro l’Armenia orientale negli anni 1918-20.

 

Institut für Armenische Fragen e. V.
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80538 München (Germania)

 

 

 

Fonte: da L’Armenia e il suo genocidio

Link: http://www.homolaicus.com/storia/contemporanea/armenia/colpe.htm

 

 

8 Risposte a “ARMENIA, 24 APRILE: ANNIVERSARIO DI UN GENOCIDIO DIMENTICATO”

  1. gianni sartori scrive:

    ALPAGO RESISTENTE
    (Gianni Sartori)

    Dalla chiesa di Montanès (provincia di Belluno), dedicata a San Martino, si domina il Lago di Santa Croce. Lo sguardo si spinge dal Cansiglio al Col Visentin e alle dolomitiche pareti della Schiara.
    In lontananza si distinguono il Grappa e l’Altopiano di Asiago dove “Piccoli maestri” partigiani scrissero altre pagine significative.
    Tra il ’43 e il ’45 molte furono le vicende di questa conca verde circondata dalle cime suggestive di Col Nudo, Teverone, Crep Nudo, Antander, Messer…
    Su alcuni episodi della Resistenza in Alpago ero stato informato dal compianto Luigi De Min di Lamosano, comandante di un battaglione della Brigata Fratelli Bandiera, nome di battaglia “Squalo” per il servizio militare svolto in Marina, nei sommergibili.
    Altre notizie le avevo poi avute da Nino De Marchi (il comandante “Rolando”), autore del libro “Memorie 1943-1945”.
    Per saperne di più avevo poi incontrato Carlo Barattin, classe 1925, di Montanès.
    “Nel 1943 –mi spiegava- anche noi dell’Alpago siamo stati annessi alla “Grande Germania” del Reich, come l’intera provincia di Belluno insieme a quelle di Bolzano, di Trento e al Friuli Venezia Giulia. Era il territorio dell’Alpenvorland, governato direttamente dai tedeschi”.
    Proprio riferendosi a questo evento Nino de Marchi affermava che “la nostra lotta fu, senza dubbio, guerra di liberazione ed anche di indipendenza”.
    Racconta Carlo Barattin: “Personalmente ero già stato alla visita di leva italiana, ma nel novembre ’43 venni richiamato dai tedeschi. A Montanès eravamo in 8 del ’25 e in un primo momento non ci presentammo. Poi, minacciati dal Podestà (sosteneva che in tutto l’Alpago solo noi non ci eravamo presentati), andammo a Puos per la visita. Ripensandoci è stato un errore. Da quel momento avevano nomi e cognomi precisi di ogni renitente e se ti prendevano eri spacciato”.
    La cartolina arrivò dopo quindici giorni e “noi abbiamo preso la corriera verso Ponte nelle Alpi. D’accordo con l’autista siamo scesi in una zona disabitata e per due mesi siamo rimasti nascosti nei boschi”.
    A questo punto il gruppo di renitenti decise di integrarsi nella Resistenza, alcuni in Cansiglio, altri in Alpago. Qui operava la Brigata Fratelli Bandiera comandata da Nino De Marchi, ex ufficiale di Artiglieria Alpina. In seguito De Marchi doveva diventare il comandante della Brigata Nino Bixio. Nella piana del Cansiglio si era insediato il Comando di Divisione Nino Nanetti (dedicata ad un esponente delle Brigate Internazionali caduto, con il grado di generale, sul fronte basco al comando di una divisione dell’Esercito popolare) che comprendeva le brigate del Gruppo Vittorio Veneto: Cairoli, Fratelli Bandiera, Bixio (con i battaglioni Manara, Nievo e Manin) oltre alle brigate Mazzini, Tollot e Piave.
    “Ad un certo punto –continua Carlo Barattin- ci siano spostati a Pian Cajada, sopra Longarone e Fortogna, dietro il monte Serva. Poi siamo andati alle casere Stabali, sotto al Monte Dolada e al Col Mat, verso Venal di Montanes. Con noi c’era anche il comando del CLN. Ricordo che con Giorgio Betiol e Attilio Tissi dovevamo fare la guardia ad un gruppo di tedeschi. Grazie al parroco di Padola, don Weiss, organizzammo uno scambio di prigionieri alle “paludi”, vicino al canale sotto Tignes. Noi abbiamo consegnato otto tedeschi e contemporaneamente, in base all’accordo, a Bolzano venivano liberati alcuni prigionieri dal campo di concentramento”.
    Naturalmente nel gruppo dei giovani partigiani “c’era un po’ di paura. Noi eravamo in quattro (più il parroco) con otto prigionieri. Di fronte, in mezzo alla strada, c’era un maresciallo tedesco con quattro soldati”. Carlo ricorda che in quel periodo vennero attaccati il presidio di Puos, quello di Bastia e di Santa Croce. Una volta un attacco è fallito perché “dovevamo attraversare un ghiaione e il rumore dei sassi che cadevano ha messo in allarme i nemici che hanno cominciato a sparare”.

    Un evento particolare nella storia dell’Alpago è rappresentato dall’arrivo del maggiore Harold William Tilman. Del mitico comandante della missione alleata Beriwind, conosciuta come Simia, mi avevano parlato sia Luigi De Min che Nino De Marchi.
    Nato nel 1898, Tilman,noto alpinista-esploratore con esperienze himalaiane, viene ricordato per la prima ascensione del Nanda Devi nel 1936, all’epoca la più alta vetta mai raggiunta. Al suo attivo scalate sui monti Kenya, Ruwenzori. Kilimanjaro e in Patagonia, oltre a tre tentativi sull’Everest.
    In Alpago e Cansiglio Tilman manteneva i collegamenti con le truppe sbarcate nel sud d’Italia e garantiva la possibilità di ricevere rifornimenti paracadutati dagli aerei.
    Carlo fece parte del gruppo incaricato di incontrare Tilman (arrivato a piedi dall’Altopiano di Asiago dove era stato paracadutato pochi giorni prima) e di portarlo in Alpago.
    “Siamo andati a prenderlo sul Piave, nella zona tra Castion e Sagrogna, nel maggio del 1944, di notte. Durante il ritorno, eravamo appena arrivati a Puos e ci eravamo fermati per riposare, è iniziato l’attacco di un altro gruppo di partigiani al presidio. Naturalmente siamo ripartiti immediatamente”.
    Tilman rimase a lungo con il gruppo di Carlo esplorando le vette circostanti. In particolare “cercava un passaggio da utilizzare per sfuggire ai rastrellamenti raggiungendo Cimolais e la valle del torrente Cellina (in Friuli) attraverso i monti”. Spesso queste esplorazioni si concludevano in piena notte. Del maggiore ricorda anche che “in pieno inverno scendeva dal Col Nudo (quota 2471) e per lavarsi si tuffava nell’acqua gelida”.
    Tilman “riceveva e trasmetteva in codice, senza che neppure il marconista, un toscano, potesse comprendere. L’interprete era un tenente di artiglieria di Trento”.
    Ai partigiani era affidato il compito di recuperare i piloti inglesi e americani colpiti dai tedeschi. Racconta che “ne avevamo sempre una dozzina nascosti. Una volta in Cansiglio cadde una fortezza volante; tre piloti morirono, ma altri tre sopravvissero. Tra questi c’era un capitano di nome Tom”. A Montanès si ricordano anche di un certo “Tech”. Rimasero tutti nascosti per mesi nelle casere sopra il paese.
    “Un altro pilota –prosegue Carlo- lo abbiamo recuperato in Fadalto, vicino al Lago di Santa Croce. La vita non era facile. C’era poco da mangiare e non era semplice procurarsi del cibo”.
    Inizialmente i paracadute venivano bruciati “poi li usammo per fare delle camicie”.
    Ogni tanto “i piloti sparivano. Tilman trovava il modo di mandarli verso Venezia, verso Trieste, verso il mare…dove venivano recuperati”. E’ significativo che dopo la guerra alcune famiglie di Montanès abbiano avuto un riconoscimento benemerito dalla RAF.
    Bisognava inoltre recuperare il materiale paracadutato dagli aerei. I “lanci” avvenivano soprattutto in Cansiglio e Pian Cavallo, dove era facile nascondere le armi e i viveri nelle numerose cavità naturali.
    Luigi De Min mi aveva raccontato di quando con Tilman aveva risalito il Venal di Montanès fino al Passo di Valbona, tra il Col Nudo e la Cima della Pala del Castello per poi inoltrarsi lungo il sentiero impervio delle Landres Negres, già nel Friuli. Al ritorno il maggiore si levò il giubbotto e con quello scese per il ripido pendio ricoperto di neve “come se fosse sopra ad uno slittino”.
    Ma anche i tedeschi erano alla ricerca del passaggio.“Una volta –racconta il nostro interlocutore-prelevarono alcune persone a Montanès tentando di raggiungere il Passo di Valbona con i muli”. Sembra che siano riusciti ad “arrivare fino a Claut, forse a Barcis. Uno dei sequestrati è riuscito a scappare: gli altri due poi sono stati rilasciati…era solo un giro di esplorazione”.
    Ben più grave quella che accadde durante un rastrellamento quando “i tedeschi arrivarono da Farra, mentre il nostro gruppo si trovava a Col Indes (sopra Tambre). Il primo morto lo hanno fatto a Sant’Anna dove allora c’era soltanto la malga”. Era l’epoca dei grandi rastrellamenti che colpirono anche sulle montagne vicentine: dalla valle di Posina (in agosto, Malga Zonta), all’Altopiano (ne parla Meneghello in “Piccoli maestri”), al Grappa. Poi, in settembre, toccò al Cansiglio e all’Alpago. Durante il rastrellamento del settembre 1944 i tedeschi “hanno ucciso anche alcuni malgari in Val Salatis, la valle che risale verso il Monte Cavallo. A Spert i partigiani catturati e uccisi sono stati appesi ai ganci, esposti come in una macelleria”.
    Carlo ricorda con commozione anche un’altra vittima dei nazifascismi, il “Comandante Zero”, originario da Soccher, del battaglione Piave. Era stato fatto prigioniero e avrebbe dovuto portare i soldati in Venal di Montanès, alle casere Stabali dove erano nascosti i partigiani e il comando del CLN. Finse di sbagliar strada portandoli in Venal di Funès, sull’altro versante del Teverone. Naturalmente “quando si resero conto di essere stati ingannati i tedeschi lo ammazzarono. Il corpo del comandante Zero venne ritrovato nei boschi da Tilman, vicino alla Crosetta. Noi pensavamo che dopo la cattura fosse stato deportato. Con il suo sacrificio –sottolinea – ha salvato una cinquantina di persone, tutte quelle che in quel momento si trovavano a Stabali”.
    E prosegue ricordando che “nel gennaio del 1945 da Tambre vennero deportate una cinquantina di persone, in maggioranza renitenti. Alcuni finirono a Mathausen e solo tre o quattro ritornarono a casa. Uno in particolare ritornò distrutto psicologicamente. Nel campo di concentramento era stato costretto a bruciare i cadaveri dei suoi compagni”.
    Il 20 febbraio alla casera di Montanès venne ucciso Vittorio Barattin (nome di battaglia Faè) un partigiano amico e coetaneo di Carlo. L’episodio è stato raccontato anche da Nino De Marchi. In quel momento il comandante partigiano si trovava proprio a Montanes dove era stato mandato per riorganizzare la sua vecchia brigata, la “Fratelli Bandiera”.
    “Quel giorno a Montanès i tedeschi avevano rinchiuso nelle stalle una trentina di civili che sicuramente sarebbero stati uccisi per rappresaglia se ci fosse stato uno scontro a fuoco, se Nino avesse tentato di sganciarsi combattendo”. Invece il “comandante Rolando”, rischiando di essere catturato, riuscì a restare nascosto durante il rastrellamento e le perquisizioni. Alla fine i tedeschi se ne andarono senza distruggere il paese.
    Lorenzo Barattin, anche lui del ’25, ricorda che “la sera prima avevo dormito nella casera di Montanès con mio fratello e con Vittorio , ma per ben tre volte avevo fatto un sogno angoscioso. Entrava nella casera un cacciatore e si metteva a dormire vicino a noi. Sempre lo stesso sogno per tre volte. Ne parlai con mio fratello e decidemmo di traslocare”. Invece Vittorio aveva incontrato in paese alcuni partigiani e rimase con loro nella casera. “Morì –racconta-per una pallottola che entrò dalla spalla e forò il polmone”.
    Finita la guerra, nonostante avessero partecipato alla Resistenza (“pagando il prezzo del biglietto di ritorno alla democrazia”) Carlo, Lorenzo e altri partigiani dell’Alpago furono obbligati a fare anche il militare. Poi se ne andarono a lavorare in Svizzera, in Francia o in Belgio.
    Quanto a Tilman, l’ultima immagine che Carlo conserva è quella del maggiore mentre sale su una jeep americana a “la Secca”, sulla strada che collega Vittorio Veneto a Ponte nelle Alpi. La sua vita avventurosa si concluse nel 1977 quando, navigando verso le isole Falkland, scomparve misteriosamente nell’Oceano Atlantico.
    Gianni Sartori

  2. anila scrive:

    e orribile. ..

  3. Massimo Vaj scrive:

    La storia armena la conosco bene, e sono stato pure in Armenia, ad Artwin, girandone molte parti. Sono gli eredi di Attila, lo stesso che dando ascolto a Papa Leone se ne andò dall’Italia.

  4. Simone scrive:

    Purtroppo tra le tante immagini avete messo in apertura proprio quella che sembra essere un falso storico, vedere http://www.mauriziogalluzzo.it/la-storia-non-e-un-film. Forse è il caso di rettificare.

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