Profondamente radicato nella storia ed espressione di reali esigenze del popolo meridionale, sta prendendo sempre più consistenza sulla scena politica il Movimento Meridionale Calabria. Un intervento del suo fondatore.
La difficile situazione della “isole” alloglotte di Guardia Piemontese e dei Grecani della costa jonica.
Francesco Catanzariti
Il Movimento Meridionale Calabriasi affaccia sulla scena politica della Calabria con le elezioni del 12 maggio 1985. Il risultato conseguito (13 mila voti; un seggio al Consiglio Provinciale; per qualche migliaio di voti non conquista il seggio al Consiglio Regionale) è un importante segnale di novità nel panorama politico calabrese.
Bisogna inoltre tenere conto della scarsezza dei mezzi e degli uomini investiti nella campagna elettorale, dei tempi limitati di preparazione, così come non si può prescindere dal boicottaggio della stampa e di altri mass-media e, particolarmente dal fatto che tutti i partiti “nazionali” hanno fatto quadrato per scongiurare il pericolo dell’affermazione di un movimento giovane, ma con antiche radici storiche. Un movimento, cioè, che a viso aperto e con grinta si è affacciato alla lotta contro il degrado economico e morale e i guasti, forse irreparabili, della partitocrazia romana.
La presenza del MMC turba equilibri ed interessi, altera giochi e disegni di Palazzo: non a caso la lotta diventa, da parte dei partiti “nazionali”, dura, sovente in termini di provocazione, denigrazione, ricatto.
Ma il quadro delle difficoltà incontrate diventa completo se si tiene conto della profonda disgregazione, disoccupazione, miseria, che caratterizzano l’ambiente calabrese, dove la pratica corruttrice e clientelare degli uomini del potere e del sottogoverno, delle oligarchie burocratiche dei partiti non conosce limite alcuno.
A cominciare dagli anni ’70 sorgono e si affermano in Calabria, specie sul piano della riflessione e del lavoro culturale, movimenti autonomistici.
A Vibo, attorno ai “Quaderni Calabresi” – Quaderni del Mezzogiorno e delle Isole” un gruppo di autorevoli intellettuali si impegna in una seria riflessione culturale e dà vita a nuove esperienze di lavoro nel sociale. E non è solo Vibo: le riflessioni vengono portate avanti da altri gruppi (“Vento del Sud”, cattolici…) e da singole personalità all’interno delle stesse formazioni politiche.
La comprensione, dentro i partiti “unitari”, è scarsa, anzi spesso viene tentata la demonizzazione, come pure si sprecano le etichettature di qualunquismo, estremismo, separatismo. Le elezioni del 12 maggio hanno rappresentato l’occasione di aggregazione di uomini e gruppi di diversa formazione politica e culturale, la convergenza di energie umane, nel rispetto rigoroso della propria identità, accomunati da ideali di riscatto dal sottosviluppo coloniale.
Il dizionario “calabrese-italiano” più completo è opera dello studioso tedesco G. Rohlfs. Di recente è stato edito un nuovo dizionario di Francesco Latuffa, che, attraverso una lunga serie di indagini e ricerche personali “dal vivo”, tenta di unificare i diversi dialetti calabresi.
Ma le radici storiche vanno al di là degli anni ’70. Sono radici che datano la loro origine dalla formazione dello “Stato unitario”, cioè dalla “conquista piemontese”: fatti che sono oggetto di tanti tormenti e travagli.
Anche il brigantaggio è stato, se si vuole in maniera contraddittoria, confusa ed a volte distorta, una manifestazione di ribellione al modo con cui fu realizzata l’unità d’Italia, all’accentramento statale accompagnato dalla distruzione di specificità culturale e di identità economica, anelito di libertà e di autonomia, di volontà di adeguata armonizzazione di realtà culturali ed economiche, nel rispetto delle diversità. I canti popolari di protesta contro le repressioni, lo sfruttamento, la povertà, come le opere dei poeti dialettali, che altri vorrebbero consegnare ai musei del folklore, parlano il linguaggio amaro del nostro popolo ed esprimono chiaramente gli ideali di giustizia e di solidarietà negati dal potere centrale.
Il MMC non si chiude sul piano della ricerca storica entro i confini della regione, anche perchè l’aspirazione, l’impegno e lo sforzo calabrese puntano alla nascita di una formazione politica, nell’adeguata articolazione territoriale, che investe tutto il Meridione: riprendiamo il sogno, l’intuizione, il desiderio di Guido Dorso.
La nostra analisi, la nostra ricerca e la nostra attenzione fanno riferimento a tutto il Meridione, ai meridionali ed ai meridionalisti di diversa formazione politica e culturale: da Campanella a Gramsci, da Fortuno a Dorso, da Salvemini a Sturzo, da Levi a Di Vittorio, da Sereni a Saraceno, da Amendola a Rossi Doria, da Fiore ad Alvaro … , al di là delle specifiche ed a volte diverse conclusioni, ma tutti animati da ideali di emancipazione, di progresso e di riscatto per il Sud.
Non è il nostro un lavoro utopico o sineretico: se si vuole, è uno sforzo che, nell’interesse della collettività umana, punta, se così si può dire, ad un di segno eclettico.
Altro che nascita improvvisa ed elettoralistica del Movimento, senza passato storico, come spesso tentano di far credere i nostri detrattori!
Veniamo, possiamo dirlo con molta forza, da molto lontano e siamo profondamente convinti di avere radici profonde nell’animo e nella coscienza del nostro popolo meridionale.
Non è solo il movente “etnico”, letteralmente inteso, che ci guida. C’è una etnia calabrese, che ha una sua specificità, con tutto l’enorme e prezioso patrimonio culturale da salvaguardare nella sua diversità di caratteri, valori, interessi, che sono il frutto di molteplici avvenimenti storici, dell’influenza di numerose ed interessanti civiltà. Un patrimonio che non va disperso, distrutto dalla cosiddetta era moderna, e che non va derubato (non siamo stati derubati perfino del nome Italia, che fecero emigrare dalla nostra Terra?), condannando il popolo e la Calabria ad una condizione di subalternità, di perifericità, di semi-colonialismo.
Una unità vera non può avvenire se non nel rispetto pieno dell’autonomia, ribaltando logiche di subalternità e predominio in contrasto con i principi di giustizia sociale e di autentica democrazia, promuovendo i popoli (tutti!) al ruolo di protagonisti del loro sviluppo in una ripattuizione della solidarietà. Pensiamo che il nostro disegno autonomistico possa trovare uno sbocco in uno stato federalista, come preconizzato da Carlo Cattaneo nel 1850, ed a livello europeo in una federazione dei popoli, delle regioni, non degli Stati. D’altronde, in questa direzione spingono oggettivamente le situazioni e gli interessi dei popoli, così come in questa direzione si muovono movimenti e schieramenti molto consistenti: dai Sardi ai Veneti, dai Valdostani ai Friulani…
È una spinta autonomistica che si muove nella giusta visione della difesa della propria identità, senza deprecabili disegni di sopraffazione e di egemonia, ma in un quadro armonico di difesa e valorizzazione di ogni popolo.
E non soltanto in Italia …
Il problema che si pone è quello di non chiudersi nella difesa delle “proprie autonomie”, dei singoli orticelli, ma di puntare ad una azione di coordinamento e direzione generale, sorreggendo, aiutando, senza interferenze, ogni singolo movimento. Non si vince la battaglia se i singoli popoli, se le minoranze portano avanti lotte isolate “territorialmente”, senza dare sostegno e respiro alla lotta generale delle autonomie.
Non è per un fatto, sia pure apprezzabile, di solidarietà: è la situazione politica che lo impone per la crisi profonda del sistema dei partiti, modellati in funzione dello Stato unitario ed accentratore, partiti oggi sconquassati da un malessere profondo per essere scaduti nella partitocrazia, con lo annacquamento delle ideologie, toccando punti alti di degrado ed a volte di imbarbarimento.
Le burocrazie hanno trasformato i partiti presenti sulla scena politica nazionale in organizzazioni, prive di ideali e tese a perpetuarsi attraverso lottizzazione, corruzione, favoritismo, clientelismo. L’organizzazione accentratrice dei partiti significa in pratica deprivazione di rappresentanza, come nel nostro caso, dell’elettore meridionale, del cittadino e del Paese meridionale. Non c’è una onesta, corretta, ed autentica tutela politica dei soggetti sociali meridionali. Da ciò nasce la crisi dei partiti, la spaccatura tra paese reale e paese legale, da qui la scarsa fiducia della gente e l’ormai quasi inesistente credibilità del sistema da essi creato.
Certo sarebbe sbagliato non capire che la crisi dei partiti si colloca nel panorama più ampio della crisi profonda degli istituti statali, fondati sul centralismo e sull’accentramento.
Alla crisi politica in corso, alle laceranti contraddizioni dell’attuale assetto politico italiano, il mondo delle autonomie può rappresentare uno sbocco positivo.
Se altri per cecità politica o meschinità di interessi non riescono a capirlo, i movimenti per le autonomie e il federalismo devono comprendere la rilevanza e l’importanza del loro compito, nell’interesse di tutti i popoli del nostro Paese, ed agire conseguentemente in modo coordinato ed in piena autentica solidarietà per l’avvenire di tutti e per una effettiva democrazia.
(Francesco Catanzariti)
I GRECANI DI CALABRIA
Galliciano, frazione di Condofuori, dove il greco è oggi più vivo.
In provincia di Reggio Calabria, sul versante Jonico meridionale, nei paesi di Bova, Roccaforte, Roghudi, Gallicianò e Bova Marina, sopravvive ancora un dialetto ellenico.
Le origini storiche di questo idioma sono ancora controverse. Essendo un dialetto che viene trasmesso di generazione in generazione oralmente, non si hanno documenti storici se non la arcaicità dimostrata dai glottologi studiando lo stesso dialetto e la toponomastica, che lo fanno risalire alla Magna Grecia. Secondo il glottologo tedesco Gerald Rohlfs, che per più di mezzo secolo lo ha studiato, il bovese conserva una frase che, in talune sue espressioni, può considerarsi “più arcaica della lingua di Aristotele e Platone” (“Scavi Linguistici nella Magna Grecia“, pag. 179).
Pur con i suoi arcaismi e dorismi, il bovese appare oggi vicino al greco moderno e viene ben inteso in Grecia, anche perché la sua pronuncia, pur conservando il suono classico delle doppie consonanti, è fondamentalmente moderna. II bovese si caratterizza però per la caduta delle consonanti finali e per il lessico che ritiene termini latini e neolatini: nella lingua parlata abbondano i termini dialettali romanzi.
Esso è veicolo di una assai interessante cultura popolare, fatta anche di decine e decine di canti, fiabe e novelle di valore poetico notevole (vedi: “Testi neogreci di Calabria“, raccolti dai proff. Rossi e Caracausi dell’Università di Palermo), nota a pochi: il complice silenzio dei cosiddetti “dotti” giova a chi vuole far sparire nel buio i Greci dell’Aspromonte e la loro lingua millenaria. Chiamare “cosmo” il mondo, “thalassa” il mare, “ilio” il sole, “aero” l’aria, “lago” la parola, è ancora oggi motivo di scherno.
Roghudi: oggi è un paese in gran parte evacuato
Gli attuali paesi di lingua greca sono anche i più poveri della regione e stanno per perdere per sempre la propria lingua e la propria cultura a causa della emigrazione, della miseria, dell’emarginazione culturale, della disgregazione economica che hanno subito e continuano a subire. Nel 1975 una commissione dell’Associazione Internazionale Difesa Lingue e Culture Minacciate stilò un rapporto in tre lingue, pubblicato lo stesso anno a Reggio Calabria.
Secondo tale rapporto la maniera in cui la “minoranza greca” è considerata e trattata costituisce sul piano morale “un attentato ai diritti naturali dell’uomo sia come individuo che come essere sociale“, sul piano del diritto poi costituisce una infrazione a diversi Patti e Convenzioni internazionali, agli articoli 3 e 6 della Costituzione italiana, all’art. 56 dello Statuto della Regione Calabria.
I paesi grecanici, eccetto Bova Marina che è una moderna cittadina turistica a 40 km. da Reggio Calabria, sono borghi montani privi di servizi essenziali: Gallicianò di Condofuri non ha acqua nelle case, nè fogne, nè una strada che lo colleghi al resto del mondo, i ragazzi per frequentare la scuola media dell’obbligo devono percorrere quattordici chilometri a piedi. Più grave era l’abbandono in cui si trovava il paese di Roghudi prima che fosse sfollato in seguito all’alluvione del 1971.
La vita culturale di Bova Marina è caratterizzata dalla presenza di numerosi circoli culturali tutti molto attivi nell’elaborazione di convegni, dibattiti e pubblicazioni, cosa che fa ben sperare per un lento ma sicuro recupero della nostra storia e della nostra lingua.
Leo Candela
GUARDIA PIEMONTESE: UNA MINORANZA VALDESE IN PERICOLO
Guardia Piemontese: La torre del Castello.
Non sappiamo con esattezza in quale epoca Guardia Piemontese sia sorta. Il nome deriverebbe dalla torre di guardia che sorge, ancora oggi, sullo sperone roccioso dominante la costa tirrenica a nord di Paola. Feudo di Fuscaldo, la località, citata nelle cronache antiche con nomi diversi (La Guardia, Guardia Lombarda, Guardia Fiscalda), fu abitata, tra il XIII e il XIV secolo, da famiglie valdesi provenienti dal Piemonte. L’epoca della prima immigrazione è controversa, ma le cronache più accreditate, come quella di Pierre Gilles, parlano del 1315 quale anno di fondazione delle comunità calabro-valdesi.
I coloni, giunti in Calabria dopo aver stipulato appositi contratti con i feudatari locali che necessitavano di bravi agricoltori, fondarono o ripopolarono anche altri borghi nel circondario di Cosenza: Montalto, S. Sisto, Vaccarizzo, S. Vincenzo, Argentina, Rose, Castagna. Accettando passivamente le pratiche esterne della religione cattolica e professando il credo valdese solo nel segreto delle mura domestiche, i profughi piemontesi riuscirono per secoli ad evitare le ricorrenti campagne antiereticali dell’Inquisizione cattolica.
Guardia Piemontese. Da sinistra: Il Centro di cultura intitolato a Giovan Luigi Pasca le – La Porta “del Sangue” a memoria della strage del 1561 – La lapide tombale di Mario Spinelli, figlio di Salvatore, marchese di Fuscaldo e Guardia, che nel /56/ partecipò alla repressione antivaldese.
Il momento della frattura si ebbe nel 1532, quando i pastori valdesi (detti “barba“), riuniti nella località alpina di Chanforan in Val d’Angrogna, decisero di aderire alla Riforma calvinista; i Valdesi di Calabria chiesero anch’essi di uscire finalmente allo scoperto, predicando pubblicamente il Vangelo secondo la loro fede.
Calvino inviò in Calabria un predicatore deciso ed inflessibile, Giovan Luigi Pascale da Cuneo, che iniziò immediatamente a risvegliare gli animi sopiti da secoli di compromessi e di paura.
La reazione dell’Inquisizione e del Viceré di Napoli fu immediata e spietata: Pascale fu imprigionato, processato, torturato e infine giustiziato a Roma nel settembre del 1560.
Nei mesi successivi la campagna repressiva si scatenò contro tutte le colonie valdesi della Calabria: alle ragioni di carattere confessionale si aggiungevano gli appetiti dei feudatari locali per il possesso delle fertili terre coltivate dai Valdesi ed una vasta operazione di polizia contro la banda del brigante Marco Berardi, detto “Marcone, re della Sila“, che in quegli anni imperversava nel cosentino massacrando la pattuglie del governatore spagnolo e proteggendo i Valdesi perseguitati.
Dopo una breve ed efficace resistenza armata, i Valdesi di San Sisto e di Montalto si dettero alla fuga, pentendosi di aver provocato spargimento di sangue nelle file dei loro nemici. Molti ripararono in Piemonte e in Svizzera. Quasi tutti gli altri furono catturati: seguirono deportazioni, torture ed esecuzioni sommarie per chi rifiutava di abiurare.
Guardia Piemontese, a causa della sua posizione arroccata, fu espugnata con un vile stratagemma, complice il signore del luogo, il marchese Salvatore Spinelli, costretto dalle circostanze a schierarsi dalla parte dell’Inquisizione.
I roghi, gli scannamenti e gli squartamenti si protrassero per tutto il mese di giugno 1561. I convertiti furono concentrati a Guardia Piemontese, affidati alle cure dei Gesuiti e sottoposti a pesantissime restrizioni delle libertà personali. Il Valdismo non risorse mai più in quelle terre e la storia di Guardia Piemontese ha un vuoto, mai colmato dalla storiografia, da quei giorni tragici alla nostra epoca. Ciò che resta oggi di quelle vicende non è molto: la cultura calabrese, nel corso dei secoli, ha permeato lingua, usi e costumi dei Guardioli. A ciò si aggiunge, in epoca moderna, l’azione disgregatrice dell’emigrazione, dei matrimoni misti, dei mezzi di comunicazione di massa. Se questi elementi sono problemi comuni a tutte le minoranze etnolinguistiche calabresi (Zingari, Grecanici, Albanesi), la perdita d’identità degli Occitani di Guardia è acuita dalla mancanza di una cultura scritta, dalla dispersione quasi totale del patrimonio folklorico, da un progressivo “inquinamento” etnico e soprattutto dall’isolamento e dalla lontananza geografica rispetto alle valli valdesi alpine: un aspetto, quest’ultimo, solo di recente attenuato da una ripresa dei rapporti con Torre Pellice.
Guardia Piomontese: La “Timpa du Diavulu”
Schematicamente, si potrebbe suddividere la situazione attuale in tre punti essenziali: ricerche sulla lingua occitana di Guardia, elementi di dispersione dell’identità etnolinguistica, possibilità di recupero e di tutela della comunità. L’origine dell’idioma in uso a Guardia è controversa: in esso convergono elementi sintattici, morfologici e fonetici di diverse vallate cisalpine, ma anche franco-provenzali e delfinatesi.
Dal secolo scorso ad oggi, gli studi più importanti sul guardiolo sono stati svolti da Vegezzi Ruscalla, da Morosi, da Rohlfs, da Grassi e, ai nostri giorni, da Arturo Geme, dell’Università di Torino. Tuttavia, la lingua valdese di Guardia è in gran parte corrotta dal calabrese e il fenomeno si è accentuato in maniera preoccupante nelle ultime generazioni. Gli emigrati in Nord Europa e nelle Americhe, invece, conservano, come spesso accade, molto più integro il dialetto occitano originario.
La rottura dell’isolamento con la nuova strada, il turismo, l’emigrazione lavorativa e studentesca, i mezzi di comunicazione di massa hanno relegato l’uso dell’occitano ad un àmbito strettamente familiare. A ciò si aggiungano i matrimoni misti con italofoni, che costituiscono una minaccia gravissima per il futuro. I figli delle coppie miste, nella maggior parte dei casi, non possiedono più il “gardiùl” come lingua madre e lo apprendono in seguito come una lingua straniera, in modo frammentario e scorretto. È così che la zona marina del Comune non è più alloglotta: la frattura fra la minoranza che in paese parla l’occitano e la maggior parte degli abitanti, provenienti da comuni vicini, diventa sempre maggiore e allarmante.
A ciò si aggiunga che il problema della salvaguardia della piccola comunità è stato per molto tempo ignorato dagli stessi enti locali: lo Statuto della Regione Calabria cita infatti solo le minoranze grecaniche e albanesi. La mancanza di una coscienza di sé come comunità “diversa” ha consentito gli scempi urbanistici e i deturpamenti architettonici che sono purtroppo sotto gli occhi di tutti.
Solo la recente e cauta ripresa dei contatti con le comunità valdesi del Piemonte rappresenta la speranza di salvezza e di recupero. Solo se la Regione Calabria tutelasse Guardia con opportuni restauri architettonici, l’introduzione del bilinguismo nella toponomastica, nei documenti, nella scuola, la possibilità di pubblicazioni e di trasmissioni radio televisive in lingua occitana, le speranze di salvare quanto resta di questo grande patrimonio storico potrebbero non dirsi perdute.
Diego Verdegiglio
Fonte: da Etnie n° 13, anno VIII, 1987
TESTIMONIANZE SCRITTE DEL GENOCIDIO DEI VALDESI DI CALABRIA
Porta del sangue
I Valdesi arrivarono in Calabria tra il XII e il XIII secolo dal Piemonte, provenienti soprattutto dalla Val d’Angrogna e dalla Val Pragelato. Gli abitanti di Guardia Piemontese vissero senza conflitti per due-tre secoli con le comunità cattoliche circostanti. Dopo la loro adesione alla riforma protestante il cardinale alessandrino Michele Ghislieri (futuro papa Pio V), deliberò che venissero annientati sia i valdesi del Piemonte che quelli della Calabria. Scatenò così contro di loro una crociata e li sterminò.
La persecuzione religiosa si portò, in tempi antichi, fino nella parte antica di Guardia (il cosiddetto “paese”) con scontri e violenze e l’uccisione di gran parte della popolazione, comprese donne e bambini. I pochi superstiti scampati al massacro furono costretti alla conversione. Rimane a tal testimonianza la porta del sangue, chiamata così dal 5 giugno 1561, oltre ai nomi delle strade che ricordano tali fatti storici. Una testimonianza diretta dei fatti cruenti di quel sanguinoso giugno 1561 è contenuta in tre lettere scritte da un abitante di Montalto.
« Ora occorre dir come oggi a buon’ora si è ricominciato a far l’orrenda iustizia di questi Luterani, che solo in pensarvi è spaventevole: e così sono questi tali come una morte di castrati; li quali erano tutti serrati in una casa, e veniva il boia e li pigliava a uno a uno, e gli legava una benda avanti agli occhi, e poi lo menava in un luogo spazioso poco distante da quella casa, e lo faceva inginocchiare, e con un coltello gli tagliava la gola, e lo lasciava così: dipoi pigliava quella benda così insanguinata, e col coltello sanguinato ritornava pigliar l’altro, e faceva il simile. Ha seguito quest’ordine fino al numero di 88; il quale spettacolo quanto sia stato compassionevole lo lascio pensare e considerare a voi.(…) Ora essendo qui in Mont’Alto alla persecuzione di questi eretici della Guardia Fiscalda, e Casal di San Sisto, contro i quali in undici giorni si è fatta esecuzione di 2000 anime; e ne sono prigioni 1600 condannati; et è seguita la giustizia di cento e più ammazzati in campagna, trovati con l’arme circa quaranta, e l’altri tutti in disperazione a quattro e a cinque: brugiate l’una e l’altra terra, e fatte tagliar molte possessioni. »
da (Colonia Piemontese in Calabria (Torino, 1862), di Giovenale Vegezzi-Ruscalla)
Simeone Florillo, ministro evangelico a Chiavenna in un lettera del 21 agosto 1561 descrisse con queste parole, indirizzate a Guglielmo Grattarola medico a Basilea, il massacro avvenuto a Guardia.
« Novità non ho altre, se non che ti mando copia di lettere scritto da Montalto l’11 giugno 1561, stampate a Roma e a Venezia, intorno al macello commesso in Calabria in due villaggi a otto miglia da Cosenza, San Sisto e Guardia, che furono distrutti, e uccisine ottocento abitanti, o circa mille, come scrive da Roma il 21 giugno uno che era servo di Ascanio Caracciolo. Io conobbi quella gente, d’origine valdese, di buona vita e di miglior dottrina. Perocché, prima di partir da Ginevra, a loro istanza vi mandammo due ministri e due maestri di scuola. I ministri furono martirizzati l’anno passato, uno a Roma che chiamavasi Giovanni Luigi Pasquale di Cuneo, l’altro a Messina, Giacomo Bonello, entrambi piemontesi. »
(Da Gli eretici d’Italia, di Cesare Cantù)
Fonte: Wikipedia