Le motivazioni della sentenza di morte, contenuta nel Giornale di Udine del 22 novembre 1866, ad un mese esatto dal plebiscito, e che prevedeva l’eliminazione forzata di «questi slavi» erano improntate ad una viscerale insofferenza nei confronti dello «straniero» e ad un palese senso di superiorità nei confronti di altre culture. Il tutto mascherato da un viscido paternalismo che mascherava il profondo razzismo radicato in certe correnti del Risorgimento che avevano prevalso sulle idee federaliste, la solidarietà e la fratellanza tra i popoli oppressi.
Verso gli slavi del Friuli, scriveva benignamente il Giornale di Udine, diretto dal giornalista e uomo politico friulano Pacifico Valussi, che pure, assieme a Nicolò Tommaseo, guardava con interesse al mondo slavo e comprendeva la necessità di mettersi in relazione con esso, «non faremo però nessuna violenza; ma adopereremo la lingua e la coltura di una civiltà prevalente quale è l’italiana per italianizzare gli Slavi in Italia, useremo speciali premure per migliorare le loro sorti economiche e sociali, per educarli, per attirarli a questa civiltà italiana, che deve brillare ai confini, tra quelli stessi che sono piuttosto ospiti nostri. Bisogna insomma che coll’agricoltura, coll’istruzione delle scuole e de’ libri, con ogni mezzo più adatto trasformiamo quelle poche popolazioni».
Si trattava di un programma vasto, piuttosto vago, ma preciso nelle sue finalità: italianizzare queste popolazioni con interventi in campo scolastico, economico e sociale.
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