Nuovo libro di Stefano Lorenzetto – Dalla genialità e alle staffilate che lo portavano da un giornale all’altro, al dramma della morte della figlia Caterina – La passione per i soprannomi e quella, mai sopita, per l’irriverenza con la quale addestrò un’intera generazione di giornalisti…
Sergio Saviane
Il quarto veneto notevole entrato nella mia vita fu quel cronista di razza e inarrivabile scrutatore di umane debolezze che rispondeva al nome di Sergio Saviane. Non riesco a darmi pace per aver maldestramente cancellato il messaggio di benvenuto della sua segreteria telefonica, che avevo tenuto per anni inciso nella mia; una registrazione effettuata pochi giorni dopo la sua morte, avvenuta nel 2001, quando, telefonando al numero 0423 563676, ti rispondeva ancora lui, come se fosse vivo: «Non sono in casa. Potete lasciare un messaggio dopo il segnale acustico».
E qui – ecco il genio assoluto, l’irriverenza fatta persona – invece del banale bip elettronico ascoltavi Saviane che gorgheggiava soavemente, tale e quale il fringuello che si sentiva in sottofondo nel motivetto L’uccellino della radio cantato da Silvana Fioresi negli anni Quaranta. Nella scelta di imitare il cinguettio che dalle onde medie prima dell’Eiar e poi della Rai tenne compagnia a tre generazioni d’italiani, c’era una totale identificazione con quello che era stato il suo lavoro di critico televisivo, sempre attento anche ai significati apparentemente più trascurabili di ciò che si spandeva nell’etere.
Il canto dell’uccellino interposto fra una trasmissione e l’altra della radio di Stato proveniva da un mantice azionato da meccanismi a orologeria, costruito nel 1936 per segnalare ai tecnici della radiofonia l’esatto istante in cui dovevano effettuare le “manovre d’inversione”, cioè il collegamento con una sorgente radiofonica diversa dalla precedente. L’annunciatore negli studi di Roma, dopo aver informato gli ascoltatori che le trasmissioni proseguivano a diffusione regionale, azionava il marchingegno: era il segnale radio convenuto atteso dalle sedi di Milano o di Venezia per mettere in onda il Gazzettino padano o il Giornale del Veneto.
Sull’ornitologia Saviane s’era soffermato anche nella prima intervista che gli feci, scioccandomi con una sorprendente dichiarazione di debolezza: «Védito, Stefanelo, el me osèl xe come ‘na ciàve Yale», e per rendere plastica la descrizione estrasse di tasca un mazzo di chiavi, mostrandomi quella più lunga, zeppa di forellini, che gli serviva per aprire una porta blindata. Era il suo modo poetico per confidarmi di sentirsi un sopravvissuto al tumore che lo aveva colpito all’organo più caro, e un tempo più utilizzato, dopo il cervello.
Subito aggiunse, serissimo: «Pensa che Alberto Moravia ha passato la vita a discorrere e a far baruffa col suo lui. Poaréto, non sapeva dove mettere le virgole, l’unica cosa che gli riusciva bene era girare per l’Africa con la Dacia Maraini e la Maria Callas a fotografare merde di elefante. Ma della donna non sapeva niente, niente! Noi latini siamo degli usurpatori, crediamo che far l’amore sia una cosa divertente. Invece è drammatica. Un atto sacrale».
C’eravamo conosciuti dieci anni prima, nel 1988, in una serata di luglio insolitamente primaverile. Dopo un trentennio di onorata carriera, L’Espresso lo aveva fatto fuori per affidare la rubrica della critica televisiva a un pubblicitario, Emanuele Pirella, l’inventore dei tormentoni «Nuovo? No! Lavato con Perlana» e «O così o Pomì». Un segno dei tempi.
Con Lanfranco Vaccari, direttore dell’Europeo, e il comune amico Giancarlo Aneri, avevo raggiunto Saviane all’hotel Villa Cipriani di Asolo, e lì, dopo un paio di Bellini e una stretta di mano, l’affare era concluso: il licenziato avrebbe avuto una nuova rubrica tutta sua, Identikit, sul settimanale fondato da Gianni Mazzocchi e Arrigo Benedetti. Con carta bianca, anzi vetrata, per scorticare vivo a ogni puntata il malcapitato di turno, pescato a suo insindacabile giudizio nel mazzo della nomenklatura.
Molti anni dopo, quando restò di nuovo disoccupato, lo accompagnai a Milano da Maurizio Belpietro, direttore del Giornale sul quale già aveva scritto ai tempi di Montanelli. Per prepararsi all’incontro, durante il viaggio sulla A4 bevve due litri di acqua minerale: doveva smaltire i postumi di una mezza sbornia della sera prima. C’eravamo quasi combinati per farlo scrivere in prima pagina. Corsivi brevissimi sui fatti di giornata. Sarebbe stato un grande ritorno. E anche la prova di una reciproca indipendenza, considerato che Saviane si riferiva a Silvio Berlusconi chiamandolo sempre e solo «il nanetto di Arcore».
Ma il primo commento che mi spedì per fax non si rivelò all’altezza delle aspettative di Belpietro, e neppure mie, a dirla tutta. Vi si censurava il malvezzo dei trevigiani di mangiarsi come pietanza i ghiri arrosto, consuetudine che Sergio giudicava barbara oltreché svantaggiosa, dal momento che, secondo lui, molti fabbricanti di cofani funebri recuperavano i gusci vuoti di noci e nocciole rosicchiate da questi simpatici roditori e li utilizzavano al posto del legno, dopo averli pressati, per farne casse da morto. Un successivo ricovero ospedaliero e i guai dell’età impedirono che la collaborazione decollasse con un commento meno stravagante.
Già, l’età. Argomento tabù. Guai ad accennargliene. Dovetti spulciare un vecchio annuario dell’Ordine dei giornalisti per scoprire che era nato a Castelfranco Veneto il 18 aprile 1923 ed era iscritto all’albo dei professionisti dal lontano 1958. Non gli piaceva parlare del tempo che passa, soprattutto dopo la perdita della sua Caterina, che se n’era andata per sempre una sera di marzo del 1991, «un’amica più che una figlia, i figli hanno bisogno del padre, soprattutto le figlie, ma io ero sempre assente».
L’ultimo dei suoi 31 anni Caterina l’aveva finalmente vissuto col papà: «Dormivo vestito, di notte andavo per caserme e me la riportavo a casa, fumava 120 sigarette al giorno, e se non erano sigarette era qualcosa di peggio. Il buco finale a Milano, in casa di un’amica. Sono diventato buffone anche per questo, per difendermi». All’altra figlia che gli era rimasta, Valentina, residente a Roma, non risparmiava il suo sarcasmo. La chiamava “la nazista”: troppo severa, a suo giudizio, nell’educazione dei figli. Avendola conosciuta, posso testimoniare che si sbagliava.
«Stefanelo, vuoi che facciamo le conversazioni del caminetto?», era tornato alla carica un paio di mesi prima di morire. «Ti ricordi Livio Zanetti che intervistava Berlusconi nel 1994 al Giornale radio? Ecco, tu mi chiedi e io ti racconto». Non se ne fece nulla per colpa mia. Gli devo delle scuse tardive: il fuoco di quel caminetto, attizzato da Saviane, ci avrebbe riscaldato il cuore. Allora non mi resi conto che la sua proposta simboleggiava una medaglia guadagnata sul campo, perché Zanetti, il giornalista che fece grande L’Espresso, era in assoluto il direttore più stimato da Sergio: «Da ragazzo pascolava le oche lungo le capezzagne a Bolzano, e guarda te quanti giornalisti di razza è riuscito ad allevare».
Della covata zanettiana Saviane fu senz’altro il fuoriclasse che sovrastò tutti gli altri in eclettismo, con qualche fissazione che avrebbe meritato un’investigazione psicanalitica, tipo l’avversione viscerale per le persone dal cognome coincidente con un nome: Corrado Alvaro, Ruggero Orlando, Sergio Leone, Bruno Martino, Michele Placido, Rino Gaetano, Pino Daniele, Piero Angela, Sergio Romano, Pierluigi Battista, Mario Giordano, Sandro Viola.
Era un giocoliere della parola, un pirotecnico inventore di neologismi e di calchi ricavati dal dialetto, dalla zoologia, dai cognomi, dal gergo militare: «pantegano» (il telefonino), «cascaingrembo» (il pene), «pippibaudi» (i presentatori televisivi in genere), e poi «guttusi», «giberne», «urogalli», «mangiatrippa», «criticabondi», «bagascioni editoriali», «becchini col risvolto umano».
«Mezzobusto», che coniò per i conduttori dei tiggì dopo aver notato quanto Mario Pastore del Tg2 fosse somigliante nella sua fissità alle 229 statue dei padri della patria in quella protomoteca all’aperto che è il Pincio, figura da anni nell’Enciclopedia Treccani e nello Zingarelli. Idem «velinaro», inventato per i colleghi della Tv di Stato specialisti in censura preventiva, gratificati anche di altre esilaranti qualifiche: «capotreni del punto e virgola», «frenatori», «piantoni della forbice».
Sistemati quelli che «sbrodano il nostro mestiere», riservava gli epiteti più abrasivi agli «imbonitori degli spot con i loro ciucciotti a tre marce e bavaglini col servosterzo», «sposine latteintero», «massaie spolverone», «anatomoslip», «sofficini sorridenti», «trapani facciotuttomì», «tonni affogati nell’olio e pace all’anima loro».
Gli piaceva personalizzare. O ricorrendo all’invettiva frontale: «Pippo Baudo appartiene a quella categoria di uomini politici o di spettacolo che si accorgono di avere un cervello soltanto col primo embolo». O affibbiando soprannomi evocativi: Vittorio Sgarbi diventava a seconda delle circostanze Lolito Sgarbi o Madonno Pellegrino a causa della predilezione per le ninfette e dell’incessante girovagare su e giù per l’Italia; l’onorevole Flaminio Piccoli si trasformava in Mezzolitro Piccoli per via dell’aspetto da alpino ciucco di grappa trentina; Gianfranco Funari, che mostrando la sua protesi in Tv s’era vantato d’avere in bocca un appartamento, si qualificava da solo come Dentiera Funari.
O ripiegando su fantasiosi appellativi: il meteorologo Edmondo Bernacca era «il Toscanini del piovasco»; Pietro Longo, segretario del Psdi, «la testa da battere materassi»; Enzo Siciliano, presidente della Rai, «lo scrittore da comodino»; Gino Nebiolo, corrispondente del Tg1 dal Cairo, «lo schiumafrenata»; Adriano De Zan, telecronista ufficiale della Rai al Giro d’Italia, «l’esperto in pedivella»; Luca Di Schiena, vaticanista del telegiornale unico, «il seppellitore di Papi»; Luca Giurato, il conduttore di Unomattina, «il Luca Ridens»; Luciano Benetton, suo caro amico, «Portobello», perché come il pappagallo di Enzo Tortora non parlava mai. «In Italia tutti parlano», si lamentava, «siamo rimasti solo in tre ad ascoltare: Benetton, Eugenio Scalfari e io.
Ascolto soprattutto i contadini. Ieri uno mi ha detto: “Quando more un vècio, xe come se brusasse ‘na biblioteca”».
Nel 1998 aveva commesso l’errore di dedicare a Benetton, compagno di interminabili partite a tressette, un’impertinente biografia edita da Marsilio, Il miliardario, e più ancora di mandargliela in lettura prima di darla alle stampe. L’imprenditore dei maglioni colorati non gli domandò né di correggere né di smussare né di tagliare, ben sapendo che Saviane non l’avrebbe certo accontentato. Non gli chiese nulla di nulla. Semplicemente smise di cercarlo e di parlargli. Sergio, che considerava la libertà di pensiero un fatto fisiologico alla stregua del respiro e del battito cardiaco, non riuscì mai a capacitarsi di questa rottura. Per mantenere intatto il ricordo delle allegre ore conviviali passate con Benetton, si autoconvinse che a incazzarsi non fosse stato lui, bensì Laura Pollini, l’addetta stampa nel frattempo diventata la compagna di Luciano.
Il miliardario si chiudeva riprendendo integralmente un’intervista che avevo fatto nel 1995 all’imprenditore trevigiano su Sette, il magazine del Corriere della Sera, in occasione dell’apertura a Sarajevo di un emporio United Colors of Benetton. L’inaugurazione era stata rinviata di qualche giorno perché, nonostante la guerra in Bosnia fosse ufficialmente finita, i cecchini avevano ammazzato alcuni civili proprio davanti al negozio.
Sergio era rimasto impressionato dal fatto che il suo amico mi avesse dichiarato di non pensare mai alla morte e di sperare che essa lo raggiungesse mentre si trovava alla scrivania in ufficio. La sola citazione in un libro di Saviane già sarebbe stata per me un grande onore. Ma lui volle andare oltre e scrisse una lettera all’editore Cesare De Michelis per segnalarmi quale autore. Se ho pubblicato una dozzina di libri con Marsilio, il merito perciò è tutto e solo suo.
Ci sentivamo spesso per telefono e ogni tanto andavo a trovarlo. Una volta volle conoscere mia moglie. Restò molto impressionato dalle diavolerie elettroniche della Lexus con cui lo prelevammo a casa per portarlo al ristorante. Sosteneva che per noi italiani l’auto è come una casetta. Infatti nel bagagliaio della sua Alfa 164 non mancavano mai un cambio di lenzuola e uno di asciugamani («nel caso dovessi fermarmi a dormire in casa d’altri»), oltre a uova sode, pan biscotto e un bottiglione di vino, come può testimoniare il fotografo Oliviero Toscani, che grazie alla previdenza di Sergio scampò alla disidratazione e all’inedia durante un infernale ingorgo nel quale incapparono sull’autostrada della Cisa.
Andammo a pranzare da Lino, a Solighetto, dov’era stata di casa il soprano Toti Dal Monte. La sua locanda prediletta. E non per la sopa coada, la zuppa di piccione, o per le altre ricette della nonna, o per il soffitto foderato da paioli di rame. No: per il camino. Lì a tavola ci svelò che sceglieva soltanto trattorie dotate di questo impianto a suo giudizio indispensabile e che, fra tutte, preferiva quella di Lino Toffolin in quanto nella sala da pranzo c’era non un caminetto bensì un caminone, utilizzato dallo chef per le costate alla brace e per lo spiedo.
Gli chiesi: ti piacciono le carni arrostite sul fuoco vivo? La risposta fu una fiondata: «Non m’interessano né le bistecche né lo spiedo. Il camino serve per le scoregge». Mia moglie trasalì. Ma lui, per nulla imbarazzato, spiegò: «Non lo sapete che al ristorante tutti spetazzano? Ve ne potete accorgere anche voi: quando un commensale sorride e socchiude l’occhietto, vól dir che xe concentrado su ‘na scoresa, deve stare attento a rilasciarla senza far rumore. E non c’è altro come il camino acceso che attiri questi effluvi, garantendo il ricircolo d’aria negli ambienti chiusi. Insoma, xe question de igiene».
La sua icasticità era di tipo ruzantiano. Per farsi capire non ricorreva mai a circonlocuzioni. Preferiva le espressioni dirette, scabre, pronunciate senz’ombra alcuna di compiacimento anche quando era certo che la loro asprezza avrebbe traumatizzato l’interlocutore. Aveva dedicato un libro dolente, El còce, ai “carrozzati”, i disabili finiti in sedia a rotelle per incidenti stradali, «da queste parti c’è un morto o un invalido da discoteca in ogni famiglia, il sabato sera in auto corrono tutti come matti», e ricordo il pudore naturale con cui mi dettagliava i riti quotidiani che il protagonista del romanzo, il suo amico Wladimiro, tetraplegico, avrebbe preferito non vedere riportati per rispetto della moglie, la quale, oltre a girarlo ogni notte nel letto per impedirgli di morire soffocato, doveva infilargli il catetere per consentirgli di urinare ed era costretta a estrargli con le dita gli escrementi che da soli non sarebbero mai usciti dall’intestino paralizzato.
In mezzo secolo di carriera Saviane aveva rimediato una settantina di querele. L’ultima, la più sanguinosa, fu di Irene Pivetti, l’ex leghista passata dalla croce della Vandea appesa al collo alle guaine in latex che le strizzavano i seni quando con Platinette conduceva Bisturi! Nessuno è perfetto su Italia 1. C’era stato un fraintendimento linguistico. L’aveva definita «gobeta sopressada», che in veneto vuol dire gobbetta stirata ed è un’espressione antica e quasi affettuosa, per indicare chi, pur avendo la schiena dritta, ha la faccia da gobbo, il naso da gobbo, il pallore da gobbo.
«Nota bene che chiamano gobbo pure me», si stupì, «e che nello stesso articolo avevo dato delle gobete sopressade anche a Emma Bonino e a Marina Salamon». L’ex terza autorità dello Stato, transitata con disinvoltura dalla Camera alla telecamera, aveva chiesto una provvisionale di 40 milioni di lire in attesa dell’appello. Ma Saviane non aveva il becco di un quattrino. Poiché l’articolo incriminato era apparso sulla Voce, nel frattempo defunta, egli scrisse una letterina a Montanelli: «Possiamo fare metà ciascuno? Io riesco a mandarti un milione al mese…» Gli aveva prontamente telefonato Vittorio D’Aiello, l’avvocato di fiducia del Grande Vecchio: «Ha già pagato tutto Indro».
Da allora il fondatore del Giornale e della Voce riluce nel mio pantheon personale dei giganti, mentre l’ex vandeana brucia tra le fiamme eterne dell’altrettanto personale inferno dove colloco gli individui meschini. Si congedarono insieme nel 2001, Indro e Sergio, uno il 22 luglio e l’altro il 27, e ditemi voi se può essere solo una coincidenza.
Ben diversamente dalla Pivetti si comportò Carla Voltolina, vedova di Sandro Pertini. Nonostante avesse annunciato che l’avvocato Giovanni La Pera era stato incaricato di querelare sia Saviane sia me, non diede mai seguito a quella minaccia. Eppure ne avrebbe avuto ben donde. Era accaduto che Sergio, nella prima intervista che mi aveva concesso, si fosse sbagliato nel rievocare uno dei suoi frequenti incontri col capo dello Stato: «Io le interviste con Pertini me le inventavo. Il presidente mi mandò persino un biglietto col carabiniere motociclista tutto sudato, in pieno luglio: “Senza di lei sarei un uomo morto”. Era prigioniero al Quirinale, non poteva uscire, se fosse uscito l’avrebbero arrestato. Quando facevo Il Male, mi invitò a cena con i colleghi francesi del Canard Enchaîné. In tavola c’erano i candelieri d’argento. A un certo punto si sente puzza di bruciato. Oddio, va a fuoco la reggia. Invece erano i redattori che si spinellavano. Vincino s’era fatto una canna lunga come un fucile».
Grande scandalo. Il disegnatore satirico, al secolo Vincenzo Gallo, fu costretto a correggere il tiro sull’Espresso: «La storia è vera a metà. Saviane ha confuso il fatto con l’intenzione. Non io al Quirinale, ma il consigliere comunale Angelo Bandinelli aveva fumato uno spinello in Campidoglio. Col presidente e il portavoce Antonio Ghirelli, eravamo Saviane, io, Vincenzo Sparagna, Gerardo Orsini e Giorgio Forattini, che aveva firmato alcuni numeri da direttore responsabile per solidarietà contro le denunce che beccavamo a raffica. Il pranzo era divertente. Pertini era allegrissimo. Noi ci eravamo portati delle canne per fumarcele a fine pranzo. Un’azione eclatante, nello stile della campagna radicale. Ma il presidente, alla frutta, di colpo iniziò una sparata contro gli spacciatori di droga. Leggera, pesante: non voleva sentire distinzioni. Fu durissimo. Noi ci demmo dei calci sotto il tavolo. Perché rovinare la giornata a quell’adorabile vecchio? E ci tenemmo gli spinelli in tasca».
«Strano», commentò Saviane, cui non difettava la pertinacia, «a me Vincino ha telefonato il giorno che è uscita l’intervista per precisare che la sua canna non era lunga come un fucile, ma più corta, senza negare d’averla fumata. Comunque mica ho detto che Pertini si spinellava. Credo che non ci sia un solo italiano che possa equivocare su questo argomento. Non capisco perché dare tanta importanza agli sbiaditi ricordi di due poveri menestrelli della satira. Gente come Vincino e il sottoscritto è sempre stata carne da cannone. Ma come può venire in mente a qualcuno che il Quirinale, con Pertini presidente, fosse diventato una fumeria di oppio? Andiamo! Si sta facendo torto persino all’intelligenza della buonanima».
Piuttosto a Saviane era dispiaciuto un altro malinteso: «Ti avevo detto d’essere figlio di un fornaciaio, ma non nel senso di operaio in una fornace. Mio padre i mattoni li faceva sì, ma perché aveva un’industria, e piuttosto grossa, anche se poi l’ha mandata a ramengo. Questo mi sono dimenticato di precisartelo. Adesso dalle mie parti mi prendono in giro credendo che volessi accreditarmi origini proletarie».
Dopo quell’intervista lo aveva chiamato anche la sua ex moglie, Anna Maria Nembrini Gonzaga, da lui descritta così: «Ci conoscemmo in un sanatorio. Lei viene da un’antica famiglia dell’aristocrazia nera marchigiana. Non ho mai ciucciato la loro ricchezza. Il matrimonio fu celebrato nella Santa Casa di Loreto, dev’essere stato il 1954 o il 1955. Ci siamo lasciati perché ero sempre in giro per il mondo». Anche qui aveva involontariamente equivocato: «In realtà non proviene da una famiglia dell’aristocrazia nera marchigiana, come ti ho raccontato. Mi ha spiegato che la nobiltà nera era di nomina papalina, mentre i suoi sono aristocratici laici. Comunque mi ha giurato che non mi querelerà».
Lasciata Roma dopo essere stato cacciato dall’Espresso, Saviane era tornato nell’unico posto dove poteva vivere e morire: il suo Veneto. Abitava a Castelcucco, tra le pendici del monte Grappa e le colline di Asolo, al limitare di un boschetto, in un palazzo patrizio semidiroccato e senza riscaldamento, dotato persino di un teatrino e unito da un arco alla chiesetta di San Francesco, eretta nel XVII secolo.
Sergio aveva trasformato la cucina nel suo studio. La televisione, «la grande meretrice», troneggiava spenta sopra il frigorifero. Su una sedia impagliata sonnecchiava la Olivetti verdolina, «l’unica vacca che m’è rimasta nella stalla». Il giornalista metteva le stecche delle sigarette sul davanzale affinché conservassero il giusto grado di umidità. Sotto il secchiaio di marmo rosso Verona, dietro una tendina, teneva le bottiglie di Prosecco. Già alle 9 del mattino insisteva per dartene un bicchiere. Per lui era il succedaneo dell’acqua Recoaro: un diuretico. «Il Prosecco», ammaestrava, «si offre ma non si regala».
Proteggeva l’identità del suo fornitore di fiducia come se fosse il terzo segreto di Fatima. Me lo fece conoscere soltanto dopo alcuni anni che ci frequentavamo: era un contadino che si chiamava Giotto, con cantina a Farra di Soligo, mi sembra, ma non potrei giurarci, giacché per portarmici Sergio fece innumerevoli giravolte, quasi volesse impedirmi di ricordare la strada per ritornarci da solo. Nella circostanza autorizzò il predetto Giotto a vendermi qualche cartone del prezioso nettare. Credo che per lui quell’atto rappresentasse la massima espressione di riguardo, il suggello più sublime dell’affiatamento raggiunto fra di noi.
Sulla vetrina della credenza teneva molte foto ormai stinte. In una era ritratto mentre giocava a carte con Benetton e con l’amico Massimo Donadon, detto El Sorzon, il derattizzatore che ha liberato le capitali del mondo dai topi, tutti e tre a torso nudo a Jerez de la Frontera, probabilmente durante un viaggio per seguire sul circuito andaluso una delle tante imprese di Michael Schumacher, il pilota della scuderia Benetton di Formula 1 scoperto da Flavio Briatore.
L’unica immagine a colori era quella della figlia uccisa da un’overdose. «Quella lì non fregarmela, altrimenti poi non la rivedo più. E vabbè, portatela via. Tanto rubare foto è il nostro mestiere», sospirò rassegnato, lasciando che la sfilassi dall’anta del mobile. Uno di questi giorni devo ritrovarla nel mio archivio e restituirgliela sulla tomba. Penso che, da dove si trova, gradirebbe il gesto più della messa di trigesimo che feci celebrare a tradimento in suffragio della sua anima.
La sera, prima di andare per osterie, Sergio caricava di legna la stufa di maiolica della camera, altrimenti al ritorno sarebbe morto congelato nel sonno. La porta d’ingresso dell’antico palazzo era chiusa con una sola mandata, segno di un’illimitata fiducia nell’umanità. Non un portone di legno: una porta a vetri, appannati dallo sporco, ma abbastanza puliti da lasciar intravedere un cosmico disordine nell’androne. Per terra, la prima volta che ci arrivai, fra mille cianfrusaglie risaltava un poster di Veruschka, la top model tedesca nata nel 1939, una sua fiamma, ignoro se in senso platonico o reale. Su una sedia era appoggiato un caschetto giallo di quelli usati come protezione nei cantieri.
Mi venne spontaneo, dato anche il caos circostante, chiedergli se stesse per caso ristrutturando l’abitazione. «Stefanelo, macché restauri! Quélo xe l’elméto che me meto par ‘ndar in Posta col motorin». Non sapeva nulla dei caschi omologati per motociclisti. Secondo lui un copricapo da muratore bastava e avanzava per considerarsi in regola col codice della strada. Nessun vigile urbano osò mai multarlo.
A Castelcucco lo chiamavano «el santo Saviane», non solo in quanto santo bevitore ma anche perché nella sua generosa anarchia era amico di tutti e cercava sempre di dare una mano al prossimo. «I m’ha vendemià, tuti me gh’ha sempre vendemià», brontolava. Come il vino buono, che lasciato in cantina dà il meglio di sé, ora Sergio riposa. Stappatelo fra vent’anni e sarà ancora un Saviane d’annata. Un controsenso, dal punto di vista enologico, perché lui prediligeva i vini giovani. Non è più uva da spremere, il santo Saviane.
Ce n’erano di giornalisti, e io fra questi, che andavano a torchiarlo con la scusa d’intervistarlo, sicuri di poter distillare ogni volta aneddoti scintillanti, identikit lombrosiani e pareri “staffilosi”, come li chiamava lui. «Almeno io rubo in casa mia, copio da me stesso», fingeva di arrabbiarsi. Però a un collega famoso, veneto come noi due, che andava a vendemmiarlo senza poi mettere l’etichetta sulla bottiglia, aveva chiuso per sempre le porte di casa.
Era adirato con Giampaolo Pansa, suo ex collega nel settimanale di via Po: «Dopo avermi sempre vendemmiato dalla testa ai piedi, scrive sull’Espresso che Walter Veltroni è il Madonno Pellegrino. Eh no, ostia! È Lolito Sgarbi il Madonno Pellegrino. Se la usi, usala bene, almeno». Era furibondo con Roberto D’Agostino, quando ancora non esisteva Dagospia: «L’ho ribattezzato Dagoberto, come il re dei Merovingi. Ma è un soprannome immeritato, perché mi frega pezzi interi, tagliati col coltello».
Leo Longanesi diceva che l’intervista è un articolo rubato. Aveva ragione. L’ultimo lo rubai a Sergio due mesi e mezzo prima che morisse, il 14 maggio 2001, a urne appena chiuse: il giorno prima s’erano svolte le elezioni politiche. Forza Italia stava al 29 per cento, i Democratici di sinistra al 16, la Margherita al 14, Alleanza nazionale al 12, Rifondazione comunista al 5, la Lega e l’Italia dei valori al 4 scarso, il Ccd-Cdu al 3, ma il clima che si respirava in casa Saviane era quello del primo atto di Rigoletto: «Questa o quella per me pari sono». «Destra… sinistra… Ma dai, Stefanelo! Còssa vuto che ghe ne importa a quei lì de ti, de Savianelo, de noialtri? Qua no’ cambia niente».
Si sentiva prigioniero «nell’Italia governata dalle cosche». Io non capivo: intendi le cosche mafiose? «Ma quale mafia d’Egitto! I partiti, quelli sono le cosche». L’aveva scritto già trent’anni prima sull’Espresso: «Mariavergine, s’aprirono le cateratte del Nilo. Questo xe mato! Ma còssa dìselo? La barba di Scalfari vibrava di sdegno democratico. Cosche? Come si fa a chiamare cosche i partiti nati dalla Resistenza? Be’, guardali stasera, vincitori e vinti. Dimmi tu se non sono una cosca». Guardateli adesso, passata un’altra decina d’anni.
Era inebetito, «ma più dal cortisone che da quei quattro mona che vedo agitarsi in televisione: mi fanno schifo». Però aveva votato lo stesso: «Toccava. Ho fatto mucchio su Francesco Rutelli, che altro dovevo fare? Piuttosto di peggio, è meglio piuttosto. Lo sai bene che il nanetto di Arcore mi sta sulle palle. Solo che Montanelli per votare Rutelli s’è turato solo il naso, mentre io mi sono dovuto turare anche qualcos’altro». Che cosa? «Va’ là che hai capito, can da l’ostia! Potevano metterci chiunque come candidato premier, ma non Rutelli. Siamo seri. Io lo conosco bene, è mio amico. Eravamo entrambi radicali. Me lo ricordo bambino. Ora dimmi tu che affidamento si può fare su un tóso che ieri si batteva per il divorzio, l’aborto, lo spinello libero e oggi va a genuflettersi in piazza San Pietro, corre ogni domenica dal Papa a prendere la comunione con la lingua di fuori».
Lo indignava che l’ex enfant prodige di Marco Pannella fosse andato persino in pellegrinaggio sulla tomba di padre Pio a San Giovanni Rotondo per cercare di raggranellare voti fra i cattolici. «Figùrati, sparavo sul frate di Pietrelcina quand’era ancora in vita. Feci un’inchiesta di cinque puntate sui suoi presunti miracoli. Infatti neanche a Rutelli ha fatto la grazia».
Saviane aveva un’interessante teoria sul motivo per cui la sinistra perdeva le elezioni: «Non hanno mai lavorato in vita loro. Rutelli per primo. In Veneto diciamo che sono nati con la canéta de vero, la spina dorsale di vetro. Se curvano la schiena, gli si spezza. Ha fatto bene il Berlusca a dirgli che li manda tutti a lavorare. Via, in miniera! Così imparano a stare al mondo. Giocavano a fare i ministri. Si sentivano arrivati, inamovibili. Sono mascheroni. Il cittadino è stato espropriato, non ha più potere. Qualsiasi cosa diciamo, loro se ne impipano, restano impassibili come maschere».
Fosse dipeso da lui, per rassegnazione avrebbe puntato su Romano Prodi: «Subito l’avevo snobbato. Ma poi ho capito che non è per niente mona. Altro che Mortadella! Le mosse giuste le aveva azzeccate: l’olivella, il pullman, l’euro… Mona sono coloro che l’hanno cacciato per mettere al posto suo Massimo D’Alema, quella testa di…» Al vertice dei congiurati collocava Francesco Cossiga: «Non lo voglio neppure nominare. Traditore e spia. Dovrebbero copàrlo col flit dietro la ferrovia. Sai cos’è il flit, vero? Il Ddt». Ma perché dietro la ferrovia? «E me lo chiedi? Così non se ne accorge nessuno. Sul retro della stazione manco troverebbero la salma. Tanto, è una vecchia traversina».
A Rutelli riconosceva il titolo di campione assoluto della disfatta elettorale. «Ma hai visto che cos’ha fatto prima del voto? È andato a trovare quel grifagno di Norberto Bobbio e si sono messi a trillare che parevano due wandeosiris. “Maestro, chi vincerà le elezioni?” Bobbio: “Chi non le perderà”. “Come vede il futuro?” Bobbio: “In arrivo dopo il presente”. “Le piace Brahms?” Bobbio: “Non è Beethoven”. Ma santa madòna! E gliele hanno anche pubblicate sul giornale dell’Avvocato, queste puttanate». Si riferiva alla Stampa. «Mi pare impossibile che la Barbara non abbia chiesto a suo marito: Francesco, sacramento, ma che trogliate sei andato a dire a casa di Bobbio?»
Anche di Barbara Palombelli, la consorte di Cicciobello, era stato molto amico. «Veniva sempre da me al cesso, quand’ero all’Espresso. Cesso, cameretta, ufficio, chiamalo come vuoi. Però era proprio un cesso. Con tanto di oblò nell’angolo di destra». Oblò? «Eh, ma allora sei proprio tardo. Oblò, orinatoio. Mi avevano confinato in una stanzetta con la scrivania accanto al vespasiano. Ogni tanto entrava Arrigo Benedetti, il direttore, oppure Manlio Cancogni, o Scalfari, già con la mano sulla patta dei calzoni. Ridevo, che cos’altro potevo fare? Loro pisciavano e io ridevo. Per non piangere. Ho sopportato questa tortura per anni. D’altronde era l’unico cesso al pianterreno di via Po. Un giorno arriva la Barbara, una pariolina molto carina. Si siede davanti a me e comincia a guardarmi con l’occhietto sifolino, hai presente la tendina che le cala sull’occhio? Voleva fare la giornalista. Stava lì a osservarmi per ore».
Ti faceva la corte? «Ma no, e nemmeno io la facevo a lei, però credo che subisse il fascino del giornalista pazzo. Rimaneva lì adorante, senza parlare. È andata avanti così per mesi. Un bel giorno mi consegna un foglio a quadretti scritto a mano. Eh no, ostia, non si fa così! Si avvisa prima. Per non demoralizzarla, mi metto a leggere. Un testo ignobile, spaventoso. Più rivista. Poi scrisse sulla Repubblica che io non volli assumerla all’Espresso. Ma benedèta fióla! Ti pare che era mio L’Espresso?».
Intervistando Saviane, la bella figura era garantita. Articoli rubati, appunto. Ancor oggi sento che l’attenuante d’aver sempre indicato la fonte non basta ad assolvermi nel foro della mia coscienza, se non altro perché da Sergio ho avuto molto più di quanto potessi dargli. Né posso far valere come risarcimento postumo la circostanza d’aver partecipato al suo funerale con pochi altri colleghi, fra i quali ricordo Giorgio Lago, che poi ci avrebbe lasciato prematuramente, e Alberto Statera, ma nessuno di quelli che lo avevano vendemmiato; o d’aver accettato di tenere l’orazione pubblica nel terzo anniversario della sua scomparsa, quando il Comune di Castelfranco Veneto gli intitolò una piazzetta.
Ho cercato senza successo di far ripubblicare i suoi libri, un’opera omnia savianea che partendo dall’ultimo, Il miliardario, attraverso L’Espresso desnudo, Moravia desnudo e il suo primo romanzo Festa di laurea, risalisse fino all’inchiesta sui delitti di Alleghe, la località dolomitica da lui ribattezzata «la Montelepre del Nord»; una faida con otto morti ammazzati, fatta di amori segreti, figli illegittimi e contese ereditarie, da cui mossero le indagini che squarciarono vent’anni di omertà e spedirono all’ergastolo due degli assassini. Mi è stato spiegato che si tratta di scritti troppo datati, che oggi non interessano più a nessuno. A Scalfari i Meridiani, a Saviane l’oblio. C’è da stupirsene?
Ogni tanto torno davanti a casa sua, più vuota e più abbandonata che mai. Mi soffermo nell’attigua chiesetta, sempre aperta, che ha solo quattro banchi. E mi pare di udire una domanda portata dal vento: «Stefanelo, ma còssa feto qua?»
Dal libro “Hic sunt leones” di Stefano Lorenzetto (Marsilio Editori, 332 pagine, 18 euro)
Fonte: dagospia 22 aprile 2013