Gilberto Oneto, Unità o Libertà
Del migliaio di italiani che combatterono nelle file del Nord durante la guerra civile americana, quattro erano generali, nove colonnelli, tredici ufficiali di marina e ventotto maggiori e capitani. Ma erano tutti già residenti negli Usa. Malgrado gli appelli e i roboanti proclami antischiavisti che percorrevano in quegli anni la Penisola, nonché le tirate altrettanto altisonanti di Garibaldi, quasi nessuno si imbarcò per la gloriosa impresa. Garibaldi stesso rinunciò perché Lincoln gli aveva offerto solo un comando nelle truppe unioniste, mentre l’Eroe voleva quello supremo.
Nel 1861 quattro deputati americani vennero a Torino per arruolare una legione di volontari contro gli schiavisti. Il giornale La Nazione di Firenze pubblicò un appello in proposito agli ex garibaldini. Pochissimi si presentarono e quasi nessuno venne accettato quando si scoprì che i «volontari» cercavano più che altro un passaggio gratuito per emigrare in America. Per giunta, tutti volevano posti di comando. Nell’ottobre, i volontari si erano ridotti a due. E anche questi rinunciarono quando seppero che avrebbero dovuto pagarsi il viaggio.
Nel 1862 l’Unione era già a mal partito per i disastri militari inflitti dai confederati. Venne offerto un premio di otto acri di terra a guerra finita. «Sono poco più di tre ettari: non un grande gesto per un paese immenso», scrive Gilberto Oneto nel suo Unità o libertà. Italiani e padani nella guerra di secessione americana (Il Cerchio, pagg. 278, euro 28). Infatti, nessuno accetta la lauta offerta. Lincoln, disperato, si rivolge a Garibaldi, il quale incarica il colonnello garibaldino Gianni Battista Cattabeni di
reclutare duemila uomini che il Generale stesso comanderà. Cattabeni ne racimola solo cinquecento, segno «che l’ardore per la causa dell’Unione è ulteriormente scemato». In ogni caso, non se ne fa nulla quando Lincoln, con l’acqua finanziaria alla gola, scopre che deve loro pagare il viaggio. Morale: le Garibaldi Guards che combattono per l’Unione sono italiani colà già residenti o mazziniani europei.
Alla battaglia di Harper’s Ferry si arrendono ai confederati «assicurandosi il poco onorevole primato del maggior numero di soldati dello stesso reparto arresi in un colpo solo in tutta la guerra». Di 525 uomini, 400 finiscono prigionieri e gli altri disertano. Una corte marziale nordista li bolla di «vigliaccheria». Il reggimento, ricostituito, si comporta benino a Gettysburg.
Ma a riscattare l’onore militare degli italiani nella Guerra di Secessione sono in realtà quelli che combattono per il Sud. Questi sì, quasi tutti provenienti dalla Penisola. Sono quei soldati borbonici fatti prigionieri dopo il Volturno e che si rifiutano di giurare fedeltà al vincitore.
Sono tanti e Cavour non sa cosa farne. Lasciarli andare non può, perché andrebbero a ingrossare le file del «brigantaggio», arricchendo di veterani addestrati la resistenza che già si profila nel Meridione.
Deportarli in campi di concentramento esteri (sono presi in considerazione addirittura la Patagonia, l’Indonesia e l’Australia, già luogo di deportazione britannico) non si può perché i rispettivi governi non ne vogliono sapere.
A quel punto, l’ufficiale garibaldino Chatham R. Wheat offre la soluzione. È della Louisiana e deve tornare in patria a servire la Confederazione. La quale è a corto di uomini e, a differenza del Nord, paga viaggio, stipendio ed equipaggiamento. Garibaldi, pur filo-nordista, è d’accordo. Vittorio Emanuele II pure e Cavour tira un sospiro di sollievo. Chi gestisce l’operazione è il solito don Liborio Romano.
Così, qualche migliaio di ex borbonici viene imbarcato a più riprese per New Orleans, fino a quando un imbufalito Lincoln, dopo aver svaccato con Cavour, decreta il blocco navale della Confederazione. E i rimanenti borbonici finiscono nel lager piemontese di Fenestrelle. Gli italiani «confederati» vengono inquadrati nei Bourbon Dragoons e si coprono di gloria nelle maggiori battaglie della guerra.
Tra loro c’è anche Carlo Patti, fratello della celeberrima soprano Adelina. E uno dei fratelli di Nino Bixio, Giuseppe, gesuita e già difensore degli indiani contro le Giacche Blu.
Tratto da http://www.ilgiornale.it – di Rino Cammilleri
Fonte: visto su L’Indipendenza del 30 dicembre 2013