La distruzione dell’Impero romano, di Thomas Cole. Dipinto allegorico (ispirato molto probabilmente al sacco di Roma dei Vandali del 455), quarto della serie “Il corso dell’Impero” del 1836, oggi a New York, presso l’Historical Society.
di Massimo Introvigne
Si può parlare male della Francia finché si vuole, ma bisogna riconoscere ai francesi la capacità di promuovere dibattiti culturali che vanno al di là delle banalità quotidiane. Ne è un buon esempio la vasta discussione che continua sul libro dello storico e giornalista Michel De Jaeghere «Gli ultimi giorni. La fine dell’Impero romano d’Occidente» (Les Belles Lettres, Parigi 2014). Nel febbraio 2015 il mensile cattolico «La Nef» ha dedicato a questo tomo di oltre seicento pagine un numero speciale con diversi articoli pertinenti, ma del libro si continua a parlare negli ambienti più diversi, talora con toni molto accesi.
Perché appassionarsi nel 2015 alla caduta dell’Impero romano? Si tratta certo di uno degli eventi più importanti della storia universale. Ma in realtà il dibattito francese è divenuto rapidamente politico, perché le vicende finali dell’Impero romano ricordano da vicino – lo aveva del resto già notato Benedetto XVI – quelle di un’altra civiltà che sta morendo, la nostra.
De Jaeghere ripete anzitutto quello che è ovvio per gli storici accademici, anche se talora è negato da propagandisti dell’ateismo e nostalgici del paganesimo – forse più presenti e molesti in Francia che altrove -: l’Impero romano non cadde per colpa del cristianesimo. La tesi secondo cui i cristiani, con il loro messaggio di amore e di pace, avrebbero reso l’Impero imbelle di fronte ai barbari – per non risalire a polemisti pagani dei primi secoli come Celso – è stata diffusa dall’Illuminismo, con Voltaire e con lo storico inglese Edward Gibbon. Ma, come ricorda De Jaeghere, è totalmente falsa. Agli inizi del quinto secolo i cristiani nell’Impero romano d’Occidente sono solo il dieci per cento. Sono maggioranza nell’Impero d’Oriente, ma questo resisterà alle invasioni e sopravvivrà per mille anni. Ed è il dieci per cento cristiano che cerca di mantenere in vita Roma e la sua cultura, con vescovi e intellettuali come Ambrogio e Agostino ma anche con generali che si battono fino allo spasimo per difendere l’Impero, come Stilicone ed Ezio, e con tanti soldati cristiani protagonisti di fatti d’arme eroici.
Accantonate le sciocchezze sul cristianesimo, resta la domanda su come l’immenso Impero romano sia potuto cadere. Oggi gli storici sono molto cauti nell’usare la parola «decadenza». È vero che, nell’attuale Italia, negli ultimi secoli dell’Impero duecentomila capifamiglia avevano diritto a somministrazioni gratuite di cibo, che lavorassero o meno, e che i cittadini romani che lavoravano, militari esclusi, avevano centottanta giorni di vacanza all’anno, allietati da spettacoli spesso di dubbio gusto o crudeli. Ma di questa decadenza gli scrittori e i filosofi avevano cominciato a lamentarsi all’epoca di Gesù Cristo, quattrocento anni prima che l’Impero cadesse, in un’epoca in cui Roma le sue battaglie le vinceva ancora.
Alla categoria di «decadenza», suggerisce De Jaeghere, non si può rinunciare a cuor leggero. Ed è giusta l’osservazione di molti storici secondo cui le spiegazioni che attribuiscono la caduta dell’Impero a un’unica causa sono ideologiche. Ma questo non significa che ci si debba arrendere e dichiarare l’evento inspiegabile. Al contrario, De Jaeghere parla di un «processo», che lega le diverse spiegazioni proposte tra loro.
Ancora come Benedetto XVI – senza citarlo – lo storico francese identifica come causa principale che sta all’origine del processo la denatalità. Il controllo delle nascite presso i romani non ha i mezzi tecnici di oggi, ma dilagano l’aborto e l’infanticidio, e aumenta il numero di maschi adulti che dichiarano di volere avere esclusivamente relazioni omosessuali. Il risultato è demograficamente disastroso: Roma passa dal milione di abitanti dei secoli d’oro dell’Impero ai ventimila della fine del quinto secolo, con una caduta del 98%. Le statistiche sulle campagne sono meno sicure, ma dal trenta al cinquanta per cento degli insediamenti agricoli sono abbandonati negli ultimi due secoli dell’Impero, non perché non siano più redditizi ma perché non c’è più nessuno per coltivare la terra.
Quali sono le conseguenze della denatalità? Sono molte, e tutte negative. Dal punto di vista economico, meno popolazione significa meno produttori e meno soggetti che pagano le tasse. L’Impero romano cede alla tentazione di tanti Stati che si sono trovati in condizioni simili. Aumenta le tasse, fino ad ammazzare l’economia: e anche fino a incassare meno tasse, anche se non ci sono economisti per spiegare in termini matematici la curva per cui, se le imposte aumentano troppo, lo Stato finisce per incassare di meno, perché molti vanno in rovina e non pagano più nulla. La caduta dell’Impero è annunciata nel suo ultimo secolo da una rovinosa caduta del novanta per cento degli introiti fiscali. Nelle campagne molti piccoli proprietari che non possono più pagare le tasse vanno a ingrossare le fila, fiorenti, della criminalità e del banditismo.
Roma è alla testa di un sistema che prevede la schiavitù, e la soluzione alla denatalità dei liberi è cercata anzitutto nell’accrescere la natalità degli schiavi, cui è fatto divieto di praticare l’aborto e che sono incitati con le buone e con le cattive a fare più figli. Nell’ultimo secolo dell’Impero nell’attuale Italia il 35% della popolazione è costituito da schiavi. Gli schiavi, però, non pagano tasse, lavorano in modo poco zelante e non hanno alcun interesse a difendere in armi i loro padroni attaccati. L’economia schiavista degli ultimi secoli dell’Impero diventa anche statalista. Sempre di più è lo Stato a gestire grande imprese agricole dove lavorano esclusivamente schiavi.
Sia pure con caratteristiche diverse, il loro contributo scarsamente entusiasta all’economia ricorda quello dei lavoratori e dei contadini sovietici.
Se scarseggiano i cittadini a causa della denatalità, e gli schiavi non risolvono i problemi, l’altra misura cui gli Stati e gli imperi ricorrono di solito per ripopolare i loro territori è la massiccia immigrazione. Si parla molto delle invasioni barbariche. Ma si dimentica, suggerisce De Jaeghere, che la più grande invasione non è avvenuta per conquista ma per immigrazione. L’invasione di Alarico, per esempio, porta all’interno dell’Impero ventimila visigoti. Ma le misure prese per invitare popolazioni germaniche a immigrare, non solo legalmente ma con facilitazioni, per fare fronte al problema della denatalità, portano nel territorio imperiale in trentacinque anni, dal 376 al 411, un milione di immigrati. Certamente i «barbari» emigrano nell’Impero, o lo invadono, perché a casa loro non si sta bene a causa della pressione degli Unni venuti dall’Asia Centrale, una delle cause della caduta di Roma che non possono essere imputate alle classi dirigenti romane. Ma il non governo dell’immigrazione è colpa loro.
Così come la decisione fatale di reclutare gli immigrati per l’esercito – se qualcuno protesta perché non sono cittadini romani, si concede loro rapidamente la cittadinanza – che snatura le legioni. All’inizio del quinto secolo l’esercito romano non è piccolo. È grande più del doppio rispetto ai tempi di Augusto: da 240.000 uomini si è passati a oltre mezzo milione. Il problema è che più della metà sono immigrati di origine germanica: e dichiararli frettolosamente cittadini romani non cambia la loro condizione. È vero, sono «barbari» in maggioranza i legionari, ma sono romani i comandanti e romani gli imperatori da cui prendono ordini. Senonché a un certo punto i «barbari» si rendono conto appunto di essere la maggioranza dei soldati, la maggioranza di coloro che faticano e muoiono. Perché dovrebbero farsi comandare dai romani? Così, alla fine, uccidono i generali romani e li sostituiscono con uomini loro, si uniscono agli invasori etnicamente affini anziché respingerli e, nell’atto conclusivo, marciano su Roma e pongono fine all’Impero.
Del resto, secondo De Jaeghere, da secoli Roma verso le popolazioni germaniche aveva rinunciato ad avere una «politica estera» che non fosse l’invito all’immigrazione. Le foreste del Nord sembravano ai romani un mondo caotico, dove bande e capi diversi e imprevedibili si uccidevano tra loro, e un mondo con poche ricchezze da portare a Roma. Di qui la decisione – gravemente sbagliata – di disinteressarsi di una vasta area nord-europea, lasciando che lì si formassero lentamente le forze che avrebbero aggredito e distrutto l’Impero, anche perché la globalizzazione dei commerci – pur senza televisione e senza Internet – informava questi «barbari» delle favolose ricchezze di Roma, e scatenava i loro appetiti.
Si comprende come questa sequenza che vede le cause della caduta di Roma in un processo che va dalla denatalità alla persecuzione fiscale dei cittadini, allo statalismo dell’economia e all’immigrazione non governata non piaccia a qualcuno. A De Jaeghere è stato opposto che l’immigrazione è una risorsa, che gli imperatori avrebbero dovuto valorizzare, e che il vero problema fu la loro incapacità di pensare l’Impero in termini nuovi e multiculturali, non l’aumento degli immigrati. È evidente che queste obiezioni «politicamente corrette» nascono dal timore del paragone con l’Europa di oggi, paragone cui lo stesso De Jaeghere non si sottrae, pur invitando alla cautela.
Nello stesso tempo, il suo libro offre una risposta alle obiezioni che allarga il quadro. A Roma venne meno un tasso di natalità capace di sostenere un Impero, con conseguenze a cascata sull’economia e la difesa. Ma perché questo avvenne? Perché a un certo punto i romani scelsero la strada di quello che, con riferimento all’Europa dei giorni nostri, San Giovanni Paolo II avrebbe chiamato «suicidio demografico»? Il libro sostiene che vennero lentamente meno i due pilastri della cultura romana, la «pietas» e la «fides», la lealtà alle tradizioni morali e religiose trasmesse dai padri e la fedeltà alla parola data e agli impegni assunti come cittadino romano nei confronti della patria.
Le cause di questa «decadenza» – in questo senso la parola non va abbandonata – sono molteplici. Intorno all’epoca di Gesù Cristo l’aristocrazia romana si trasforma da élite guerriera e militare a élite terriera e latifondista, che riceve a Roma i proventi di possedimenti che spesso non ha neppure mai visitato. Questa nuova élite è più interessata ai piaceri che alla difesa dell’Impero, che considera comunque eterno e invincibile. E comincia a non fare figli: tutte le famiglie tradizionalmente aristocratiche dell’epoca di Gesù Cristo si estinguono prima del 300 d.C. tranne una, la gens Acilia, che si converte al cristianesimo. L’esempio delle classi dirigenti, come sempre accade, fa proseliti. La moda del figlio unico, o di nessun figlio, arriva fino alla plebe.
L’obiezione degli storici, soprattutto inglesi e americani, che negano la tesi della decadenza, è che tutto questo riguarda soprattutto Roma o comunque le grandi città, mentre ancora nell’ultimo secolo dell’Impero l’85% della sua popolazione vive nelle campagne. Ma anche qui, nota De Jaeghere, vengono meno la «pietas» e la «fides». Perché l’Impero, troppo multiculturalista e cosmopolita e non troppo poco, è percepito come una lontana burocrazia che prende decisioni incomprensibili e si fa viva soprattutto per aumentare le tasse. Il piccolo proprietario di campagna nel migliore dei casi è disposto a battersi per difendere il suo villaggio, non i remoti confini di un Impero che percepisce come lontano e verso il quale non sente più nessun «patriottismo», nel peggiore accoglie i «barbari» come liberatori dal fisco romano che lo sta mandando in rovina.
Certamente De Jaeghere potrebbe dedicare più attenzione alle ragioni strettamente religiose del declino, studiate in chiave sociologica da Rodney Stark. Il declino della religione pagana, non più persuasiva per nessuno, è alle origini del declino della «pietas». Avrebbe potuto sostituirla il cristianesimo – di fatto lo farà, ma più tardi – che, come dimostra anche solo una rapida lettura di Sant’Agostino, sapeva trovare in sé le ragioni per difendere l’Impero e la cosa pubblica, di cui non si disinteressava affatto. Ma nell’Impero Romano d’Occidente, anche quando lo professavano gli imperatori, il cristianesimo era minoritario.
Le lezioni per il nostro mondo sono ovvie. Con tutte le cautele che richiede ogni paragone fra epoche diversissime, la caduta di Roma mostra come grandi civiltà possano finire, e che il modo della loro fine normalmente è demografico. Gli imperi cadono quando non fanno più figli, e la denatalità innesca una spirale diabolica di tasse insostenibili, statalismo dell’economia, immigrazione non governata ed eserciti imbelli. Per capire la pertinenza della parabola romana rispetto ai giorni nostri non servono troppi libri, basta aprire le finestre e guardarsi intorno.
Su un punto, peraltro, i critici di De Jaeghere hanno qualche ragione. Gli immigrati e gli invasori di Roma avevano un vantaggio rispetto a immigrati e «invasori» di oggi. In gran parte germanici, non erano portatori di una cultura forte. Riconoscevano la superiorità della cultura romana: cercarono di appropriarsene e finirono anche per convertirsi al cristianesimo. Attraverso secoli di sangue, sudore e fatica la caduta dell’Impero romano d’Occidente prepara così la cristianità del Medioevo.
Oggi gli immigrati e gli «invasori» – invasori tramite l’economia, o aspiranti invasori in armi come il Califfo – sono portatori di un pensiero fortissimo, sia quello islamico o quello cinese: non pensano di dovere assimilare la nostra cultura ma vogliono convincerci della superiorità della loro. La crisi che potrebbe seguirne potrebbe essere ancora più letale di quanto fu per l’Europa la caduta di Roma. Per questo, discutere sulle ragioni della caduta dell’Impero romano d’Occidente non è un puro esercizio intellettuale.
Fonte: da LA BUSSOLA del 23 febbraio 2015