Poiché la Messa è l’apice del culto che si deve a Dio, sarà bene andare più a fondo della materia e mettere in luce il contrasto tra la Messa Cattolica T
Poiché la Messa è l’apice del culto che si deve a Dio, sarà bene andare più a fondo della materia e mettere in luce il contrasto tra la Messa Cattolica Tridentina e l’ambiguità dell’attuale Messa uscita dal Concilio Vaticano II. Vediamo:
OFFERTORIO
- Suscipe sancte Pater, Deus qui humanae substantie, Offerimus tibi Domine, In Spiritu umilitatis, Veni sanctificator omnipotens.
Queste cinque preghiere pregne di significato teologico, specie il Suscipe e l’Offerimus, che sottolineano il valore propiziatorio del Sacrificio dell’altare, nel messale di Paolo VI vengono ridotte soltanto a due:
la presentazione (non l’offerta!) del pane e del vino (Benedetto sei tu…).
Dopo la preghiera del lavabo in cui il salmo XXV è stato sostituito con una breve invocazione (“Umili e pentiti…”), la nuova Messa passa subito all’Orate fratres saltando a piè pari l’antica invocazione alla Santissima Trinità (“Suscipe Sancta Trinitas”).
Da notare che la stessa Trinità non trova posto nella nuova Messa se non nel prefazio a Lei espressamente dedicato, oltre naturalmente nel segno di croce iniziale e nella benedizione finale.
Per comprendere meglio la diversità sostanziale tra l’antico e il nuovo rito, citerò alcune osservazioni di don Davide Pagliarani:
“Il significato e le implicazioni dell’offertorio tradizionale sono chiarissime. Offrendo a Dio l’ostia e il vino, il sacerdote non intende offrire dei semplici elementi; in essi già vede la vittima che di lì a poco sarà presente sull’altare. Ed infatti egli non offre ‘il pane, frutto della terra e del lavoro dell’uomo’, bensì ‘Questa ostia (vittima) immacolata’; e parimenti non offre ‘il vino, frutto della vite e del lavoro dell’uomo’, ma ‘il calice di salvezza. L’offertorio dunque, ‘anticipa in certo modo la Consacrazione, nel senso che esprime chiaramente che quelle ‘oblate’ non hanno altro fine che l’essere transustanziate nel Corpo e nel Sangue di Nostro Signore, divenendo così l’unica vera offerta sacrificale gradita a Dio Padre. Ed è per tale motivo che il pane ed il vino, una volta offerti a Dio, non possono essere più in alcun modo ricondotti all’uso profano, tant’è vero che se il sacerdote, per un improvviso malore, non potesse più continuare la Santa Messa, occorrerebbe chiamarne un’altro, per portare a termine quell’azione sacra che è irrevocabilmente iniziata con l’Offertorio. L’Offertorio è per il Canone; l’Offertorio non sta da solo; l’Offertorio è per il Sacrificio.
La nuova Messa ha invece sostituito all’Offertorio “una vaga “presentazione dei doni, nella quale sparisce qualunque riferimento sacrificale”. (Roma Felix – nov. 2007).
Nelle preghiere del nuovo ‘offertorio’ inoltre, è assente lo scopo dell’offerta dei doni, cioè “per gli innumerevoli peccati, offese e negligenze mie e di tutti…”.
‘Cibo di vita eterna’ e ‘bevanda di salvezza’ sono concetti indefiniti e non riferiti specificatamente alla imminente presenza reale di Cristo.
“Grazie alle formule consacratorie, profferite da Gesù nel Cenacolo, e trasmesse attraverso il tempo e lo spazio del ministero sacerdotale, vengono transustanziate le specie del pane e del vino di ogni Messa, designate a tale scopo dall’Offertorio con carattere manifestamente pre-consacratorio; poiché in esso non si offre un qualche prodotto dell’agricoltura, ma del pane e del vino simboleggianti quel corpo e quel sangue del Signore, che diventeranno poi, realmente, in forza della consacrazione transustanziante. Il carattere però, principalissimo della Messa Cattolica è quello di essere sacrificio: non è solo un memoriale del sacrificio della Croce, ma è quello stesso essentialiter unum et idem sacrificium ”.
(Don Giuseppe Pace – in Chiesa viva n°254)
CONSACRAZIONE
ENIM (prendete e mangiatene tutti POICHE’ = ENIM-…).
– Le formule consacratorie del Canone non dipendono dalla Sacra Scrittura, cioè dai Sinottici: questi, infatti, arrivarono alle comunità cristiane allorquando in esse la Messa era già celebrata da tempo. Tuttavia, quei due ENIM (= IN VERITA’) delle formule consacratorie, sdegnavano Lutero, che rimproverava la Chiesa Cattolica di aver aggiunto arbitrariamente tale avverbio, alterando la Sacra Scrittura, dalla quale sono assenti.
Anche il QUI EFFUNDETUR (= CHE VERRA’ EFFUSO) offende i protestanti; poiché i Sinottici dicono “ENCUNNOMENON”, verbo che per loro significa esclusivamente “FU EFFUSO”.
Veramente, pronunciando detto verbo al futuro, il sacerdote celebrante cattolico si colloca nel Cenacolo, e rappresenta Gesù stesso consacrante nell’imminenza della consumazione cruenta del suo sacrificio, e PRIMA della medesima. Nelle traduzioni, in genere, per riguardo ai protestanti, tale futuro, QUI EFFUNDETUR, è stato tradotto con il participio passato, EFFUSO, omettendo il verbo servile VERRA’.
In tal modo, il celebrante che lo pronuncia, può collocarsi FUORI del Cenacolo, e dopo la passione cruenta del Signore; così che la sua celebrazione, da sacrificio in svolgimento, che la morte fisserà per l’eternità, può svanire in un semplice memoriale protestantico del medesimo, come un fatto che fu e che non è più. Proprio secondo la teologia di Lutero!
MULTIS – Nell’introduzione alla formula consacratoria del calice, e poi in questa stessa formula, si dice: “Bibite ex eo OMNES…qui pro MULTIS effundetur…” (= Bevetene TUTTI…che per MOLTI verrà effuso).
Vi troviamo il binomio “OMNES-MULTIS”, in italiano “TUTTI-MOLTI”, in greco “PANTES-POLLOI”, in aramaico “KOL BISRAH-SAGGHI’AN”, e in ebraico “KOLBASAR-RABBIM”. Gesù conosceva sia l’ebraico che l’aramaico. Studiatamente, contrappose i TUTTI a i MOLTI.
Nelle traduzioni del Canone, il MOLTI è stato tradotto con il TUTTI, e si è preteso legittimare tale traduzione, adducendo la ragione che in ebraico ed in aramaico non esistono termini che permettano di distinguere un TUTTI da un MOLTI. Tale erronea identificazione permette ai male intenzionati di insegnare ai fedeli che Gesù con tale espressione, ha predetto che TUTTI, di fatto, si salveranno. Gesù nel consacrare il calice usò sia la parola TUTTI che la parola MOLTI, contrapponendo l’una all’altra.. E’ vero che sia in ebraico che in aramaico, MOLTI può talora significare TUTTI; ma qui, nella frase pronunciata da Gesù, l’uso ravvicinato di TUTTI e di MOLTI, ha tutto il carattere di una contrapposizione; così è impossibile concludere con certezza all’identità di significato della voce TUTTI e della voce MOLTI in tal caso. Senza dire che la sostituzione di TUTTI a MOLTI insinua l’errore di una salvezza eterna de facto universale, e la conseguente negazione del dogma dell’inferno.
MYSTERIUM FIDEI: questa frase è stata pronunciata veramente dal Signore e conservata dagli Apostoli. Non si tratta di un’esclamazione ammirativa, interpolata nel Canone non si sa da chi; in ogni modo abusivamente, e da espungere dal Canone stesso. Si tratta di un’espressione di grande importanza, sia che con essa Gesù ci ricorda che la realtà nascosta sotto le specie eucaristiche sfugge alla nostra esperienza naturale; sia, ed a maggior ragione, se con essa Gesù intese dichiarare l’Eucaristia sacramento (= mysterium) della fedeltà (= fidei) di Dio alla nuova ed eterna alleanza.
HUNC – (= Questo – è sostituito con IL), nella frase “Et accipiens HUNC praeclarum calicem”. Detta sostituzione connota nel modo più lampante che NON si sta celebrando il Sacrificio Eucaristico inchohatum nel Cenacolo e consummatum sulla Croce; ma che si sta semplicemente raccontando tale fatto, come trapassato. Il calice sul quale il sacerdote profferisce la formula consacratoria, NON E’ UN CALICE QUALSIASI, diverso da quello dell’ultima cena, ma è misticamente una et eadem con quella di Gesù consacrante, l’azione consacratoria del sacerdote. Si dice giustamente che agisce in Persona Christi, proprio perché il sacerdote consacrante, in quel momento, è misticamente Gesù in persona, che parla in nome proprio, e dice “QUESTO E’ VERAMENTE IL MIO CORPO…QUESTO E’ VERAMENTE IL MIO SANGUE”: espressioni che non sono un doppiaggio di quelle profferite da Gesù nel Cenacolo; ma misticamente, superato tempo e spazio, quelle stesse!
ANNUNZIAMO LA TUA MORTE, SIGNORE, ecc.- Questa acclamazione è stata aggiunta (con altre due variazioni) e non fa parte del Canone Romano Tradizionale.
NELL’ATTESA DELLA TUA VENUTA ( così terminano due delle tre acclamazioni dopo la consacrazione): I protestanti negano la presenza reale di Cristo proclamando che “sono in attesa della Sua venuta!).
SUPPLICES TE ROGAMUS (…affinché quanti partecipando a questo altare RICEVEREMO IL SACROSANTO CORPO E SANGUE del Figlio Tuo, veniamo ricolmi d’ogni celeste benedizione del cielo”. Insospettisce quel comunicando (preghiera Eucaristica I, o Canone Romano – ndr.) che sostituisce il RICEVEREMO.
Nella lettera ai vescovi che accompagna il Motu Proprio, vi è un passaggio assai significativo che rivela la sensibilità del Papa verso coloro che hanno scelto di restare fedeli alla Messa tradizionale. Se da una parte, come si lamentano i progressisti, il Papa ha ufficialmente avallato la posizione dei tradizionalisti, dall’altro ha compiuto un gesto esimio nei confronti della Fraternità di San Pio X fondata dal vescovo Mons. Marcel Lefebvre, in vista di una definitiva riconciliazione:
“Sono giunto così, a quella ragione positiva che mi ha motivato ad aggiornare mediante questo Motu Proprio quello del 1988. Si tratta di giungere ad una riconciliazione interna nel seno della Chiesa. Guardando al passato, alle divisioni che nel corso dei secoli hanno lacerato il Corpo di Cristo, si ha continuamente l’impressione che, in momenti critici in cui la divisione stava nascendo, non è stato fatto il sufficiente da parte dei responsabili della Chiesa per conservare o conquistare la riconciliazione o l’unità; si ha l’impressione che le omissioni nella Chiesa abbiano avuto una loro parte di colpa nel fatto che queste divisioni si siano potute consolidare. Questo sguardo al passato oggi ci impone un obbligo: fare tutti gli sforzi, affinché a tutti quelli che hanno veramente il desiderio dell’unità, sia reso possibile di restare in quell’unità o di ritrovarla nuovamente”
(Dalla lettera del Santo Padre Benedetto XVI ai vescovi di tutto il mondo per presentare il “Motu proprio” sull’uso della liturgia romana anteriore alla riforma del 1970).
L’iniziativa del Papa di ripristinare la liceità di celebrare la Messa Tridentina ovunque e da tutti i sacerdoti, è un’operazione di recupero di grande portata, anche se vi saranno difficoltà ad applicarla visto l’accoglienza negativa riservata da vescovi e sacerdoti non disposti a fare un passo indietro e a tradire lo “Spirito del Concilio” come essi ritengono, e pertanto decisi a boicottare ed eludere le nuove disposizioni. D’altro canto invece, tanti, pensosi e preoccupati per la Chiesa, saranno felici di questo ritorno alle fonti. Forse stiamo assistendo al primo movimento di una nuova sinfonia: “Andante con Motu (Proprio)”; mi auguro di assistere presto ad un “Crescendo con forza” fino ad un “Finale maestoso” che suggelli una doverosa restaurazione.
Con questa iniziativa Benedetto XVI ha riportato a galla, imperiosamente, quella che lui stesso chiama la dinamica delle due ermeneutiche nei riguardi della interpretazione del Concilio Vaticano II. Questione dibattuta, sulla quale il Papa non si tira indietro, pur consapevole delle difficoltà da superare e del pericolo serio di fratture in seno alla Chiesa. Le posizioni contrapposte si sono ormai radicate, e più si aspetta tanto più sarà difficile riportare la concordia.
- E) – ROTTURA CON LA TRADIZIONE
Sicuramente non era nelle intenzioni di Papa Giovanni XXIII, né di Paolo VI provocare una rottura in seno alla Chiesa Cattolica, né tanto meno nella stragrande maggioranza dei Padri conciliari che non potevano immaginare ciò che sarebbe successo dopo il Concilio.
Non c’è traccia che nella Chiesa vi fossero problemi gravi di derive o di allentamento della tensione, anzi, come s’è visto, si potrebbe dire che era al massimo della sua coesione, della incisività ed autorevolezza, pertanto si poteva pensare che, male andasse, il Concilio avrebbe confermato questo stato di cose. Questo era l’atteggiamento di massima della cattolicità. Il filone modernista, tenuto in vita da alcuni teologi del nord Europa, era marcato strettamente, almeno fino a che visse Pio XII, e c’è da chiedersi se Giovanni XXIII e gli entusiastici sostenitori dell’annunciato Concilio, fossero consapevoli del pericolo che incombeva sulla Chiesa dando spazio a personaggi già bene individuati e penalizzati da Pio XII.
Nel discorso di apertura del Concilio Vaticano II, Giovanni XXIII espresse alcuni concetti che lì per lì sembravano ovvii ma che invece hanno avuto una risonanza enorme nei dibattiti e nell’affrontare le nuove linee di condotta della Chiesa. Egli dichiarò che il Concilio doveva avere un carattere pastorale, perciò non si doveva più decretare condanne ma usare la medicina della misericordia, e, nei riguardi dei non cattolici e dei non credenti considerare ciò che ci unisce piuttosto di ciò che ci divide. Forse il Papa ‘buono’ credeva di aver posto la base per un surplus di amore, di carità, di slancio apostolico nella Chiesa e, indicando questa strada, ingenuamente, si teneva certo che ci saremmo abbracciati con gli uomini di tutto il mondo, di ogni razza e di ogni religione.
Nessuno, forse nemmeno lui immaginava il tranello satanico che si nascondeva sotto quelle parole. C’era nell’ombra una forza (o più forze) che remavano contro la Chiesa, per frenare la sua marcia e deviarne la corrente e il destino; una forza che nel vedere un Papa benché vecchio, intenzionato a togliere la polvere dalla Chiesa, emerse improvvisamente e prese subito le redini del Concilio.
La Chiesa che per cent’anni aveva combattuto e tenuto a freno il modernismo, ora d’un colpo avrebbe ricusato ogni immunizzazione.
“Pio XII lo sapeva, diceva lui stesso di essere l’ultimo Papa, l’ultimo anello di una lunga catena” (Così si espresse Jean Guitton).
La gravità della situazione è stata subito avvertita, se perfino Jacques Maritain ebbe a dire che “Il modernismo del tempo di Pio X, ha preso in ostaggio la Chiesa alterandone le caratteristiche e i segni distintivi, allontanandosi dalla tradizione”.
Se è così, allora l’attuale Papa Benedetto XVI provveda a riportare sulla linea della tradizione tutte le deviazioni che vi sono state, per dare credito alle sue ripetute dichiarazioni secondo cui vi sarebbero due interpretazioni del Concilio:
una “della discontinuità e della rottura”, l’altra che sarebbe “dell’ermeneutica della riforma, del rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa che il Signore ci ha donato”.
“L’ermeneutica della discontinuità rischia di finire in una rottura tra Chiesa preconciliare e Chiesa postconciliare. Essa asserisce che i testi del Concilio come tali non sarebbero ancora la vera espressione dello spirito del Concilio. Sarebbero il risultato di compromessi nei quali, per raggiungere l’unanimità, si è dovuto ancora trascinarsi dietro e riconfermare molte cose vecchie ormai inutili. Non in questi compromessi, però, si rivelerebbe il vero spirito del Concilio, ma invece negli slanci verso il nuovo che sono sottesi ai testi: solo essi rappresenterebbero il vero spirito del Concilio, e partendo da essi e in conformità con essi bisognerebbe andare avanti. Proprio perché i testi rispecchierebbero solo in modo imperfetto il vero spirito del Concilio e la sua novità, sarebbe necessario andare coraggiosamente al di là dei testi, facendo spazio alla novità nella quale si esprimerebbe l’intenzione più profonda, sebbene ancora indistinta del Concilio. In una parola: occorrerebbe seguire non i testi del Concilio ma il suo spirito. In tal modo, ovviamente, rimane un vasto margine per la domanda su come allora si definisce questo spirito e, di conseguenza, si concede spazio ad ogni estrosità”
(Benedetto XVI: “Il Concilio Vaticano II – 40 anni dopo” Natale 2006).
Qui mi par si voglia parlare di un Concilio esoterico, dove ogni pronunciamento sottende altro, che per intenderlo è necessario possederne la chiave. Ma “Gesù non era esoterico” scrive Giovanni Papini nella sua famosa “Storia di Cristo” (cap.HANAN), che aggiunge: “anche se ha detto talvolta, ai discepoli, parole che non ha ripetuto sulle piazze; li ha però esortati a gridar sui tetti quel che ha detto loro nelle case”. Coloro che sostengono l’ermeneutica della rottura presuppongono un Concilio nutrito di esoterismo, pertanto, onde recepirlo in pieno sarebbe necessario rimuoverne i veli sotto i quali si scoprirebbe la vera intenzione del Concilio, cioè quella di un nuovo corso che la Chiesa avrebbe dovuto intraprendere.
In sostanza la fazione modernista vorrebbe far dire al Concilio quello che non ha detto, per fare ancora più danno a questa povera Chiesa. E’ un’accusa al Concilio, tra l’altro, di non essere stato chiaro e di aver dissimulato le sue vere intenzioni per una atavica paura, intenzioni che sarebbero state quelle di aprire maggiormente alle novità (demolendo la tradizione, ovviamente).
Ma se veramente è così, il Concilio, invece di chiarezza non ha fatto che creare confusione. Sembra che dopo 50 anni il Concilio non solo è di là di essere capito, e quindi applicato, ma che abbia creato due fazioni che lotterebbero fra loro per avere il sopravvento.
Si dà il caso che, sia i tradizionalisti che i progressisti (modo aggiornato di identificare i modernisti) non concordano con l’analisi del Papa sul Concilio e ciò che ne consegue, come continuità della tradizione; sia gli uni che gli altri, per motivi opposti vedono il Concilio Vaticano II come lo spartiacque. Tra l’una e l’altra fazione, ne esisterebbe dunque una terza, la più numerosa, costituita dai fedeli identificantisi nell’ermeneutica della riforma, cioè coloro che rifiutano il progressismo modernista, ma considerano gli autentici tradizionalisti come degli integralisti fanatici e nostalgici; sarebbero poco disposti ad accettare altre novità, ma a respingere altresì ogni proposta di restaurazione. (chiamiamoli convenzionalmente conservatori).
“All’ermeneutica della discontinuità si oppone l’ermeneutica della riforma”. Papa Giovanni XXIII ancora nel discorso di apertura, dice che “Il Concilio vuole trasmettere pura e integra la dottrina, senza attenuazioni o travisamenti. – e continua – è necessario che questa dottrina certa ed immutabile, che deve essere fedelmente rispettata, sia approfondita e presentata in modo che corrisponda alle esigenze del nostro tempo. Una cosa è infatti il deposito della fede, cioè la verità contenuta nella nostra veneranda dottrina, e altra cosa è il modo col quale esse sono enunciate, conservando ad esse tuttavia lo stesso senso e la stessa portata”.
Il documento di Benedetto XVI conclude: “Ma ovunque questa interpretazione è stata l’orientamento che ha guidato la recezione del Concilio, è cresciuta una nuova vita e sono maturati frutti nuovi. Quarant’anni dopo il Concilio, possiamo rilevare che il positivo è più grande e più vivo di quanto non potesse apparire nell’agitazione degli anni intorno al 1968. Oggi vediamo che il seme buono pur sviluppandosi lentamente, tuttavia cresce, e cresce così anche la nostra profonda gratitudine per l’opera svolta dal Concilio” (c.s.14-15).
Questa dunque la situazione denunciata dal Papa nel documento-discorso ai Cardinali e ai Prelati di Curia per la presentazione degli auguri natalizi 2005. E’ avvenuto ciò che pur era previsto, ma non è stato messo in conto: il Concilio è sfociato in due contrastanti visioni della Chiesa che si richiamano una alla necessità di spingere la Chiesa verso nuovi spazi, verso incognite rischiose, l’altra che accetta le riforme del Concilio, mentre i tradizionalisti duri e puri che vedono sia in certi pronunciamenti del Concilio che soprattutto nell’applicazione di esso un grave allontanamento dalla millenaria tradizione della Chiesa Cattolica, mirano ad una possibile restaurazione, cioè reclamano un passo indietro, e per questo sono definiti preconciliari.
Qualche considerazione:
1) E’ vero che l’orientamento del Concilio è stato dettato dalle suddette parole del Papa Giovanni XXIII, ma è tutto da vedere se questo indirizzo è stato seguito dai protagonisti del Concilio. L’irruzione modernista non era prevista? Ingenuità o consapevolezza e arrendevolezza?
2) Una cosa è la dottrina e altra è il modo col quale essa viene enunciata. Così Papa Giovanni XXIII. Scontato dunque che la dottrina non deve essere scalfita; rimane da vedere come concretamente questa viene enunciata. Ma il Concilio non è stato convocato per questo? Perché mai allora, dopo una valanga di parole e una montagna di documenti siamo ancora sulla linea di partenza, intenti a discutere non solo sul metodo per attuare l’annuncio, ma addirittura su cosa abbia voluto dire il Concilio a riguardo?
3) “Oggi vediamo che il seme buono pur sviluppandosi lentamente, tuttavia cresce”. La Santa Chiesa non può venire abbandonata da Dio: la promessa di Gesù è che Egli sarà con lei fino alla fine dei secoli. Se qualcosa (poco o tanto) di ‘positivo’ si verifica ancora, è il segno tangibile che Dio non ci ha abbandonato, ma ci segue e non lascia che si spenga nemmeno il lucignolo fumigante.
In quanto al ‘positivo’ che vede il Papa dopo i vacillamenti del 1968, è da stabilire se il raffronto va fatto a partire da questa data oppure dal 1962, anno dell’apertura del Concilio. Il motivo è chiaro: fino alle soglie del Concilio la Chiesa Cattolica era forte e florida, come abbiamo visto, poi, dopo la grande assise ha registrato un crollo pauroso collocato dal Papa nel 1968, da cui, secondo lui la Chiesa avrebbe ripreso a risalire la china. Ovviamente se il raffronto va fatto dal 1962 non solo non abbiamo guadagnato niente ma abbiamo perso quasi tutto. – “Ma ovunque questa interpretazione (ermeneutica della riforma) è stata l’orientamento che ha guidato la recezione del Concilio”. Qui siamo all’interpretazione dell’interpretazione. Il Papa cioè interpreta il cammino della Chiesa in questi ultimi 40 anni, con tutti i fatti catastrofici che sono avvenuti, come l’interpretazione del Concilio alla luce dell’ermeneutica della riforma. Ciò evidenzia come non possono sussistere due interpretazioni di un unico Concilio.
Messa così la questione non è affatto chiara perché la Chiesa dovrebbe avere una linea di condotta ufficiale risalente al Concilio: dall’altra parte vi possono essere gli oppositori. Consacrare due ermeneutiche significa ammettere la rottura! Qui il Papa nell’intento di fare giustizia ha creato confusione.
Di strada ce ne sarà ancora molta da fare, ma confidiamo nel Signore e nella volontà non tanto di attuare il Concilio (quasi fosse un nuovo dogma) ma la legge e la volontà di Nostro Signore Gesù Cristo.
A questo punto non si capisce ancora se col Concilio Vaticano II vi è stata o no una rottura.
Tutti sono d’accordo nel dire che la Chiesa è in crisi, ma ciò non comporta automaticamente che vi sia stata una rottura. Infatti il Papa ammette la crisi ma rifiuta la tesi della rottura che sarebbe come dire che oggi esiste una Chiesa diversa di quella del passato. La Chiesa non può fare uno strappo e tramutarsi in un’altra entità, un’altra Chiesa: non sarebbe più la Chiesa di Cristo.
Se dal Concilio in poi è avvenuto un tale sconvolgimento, è urgente verificare dove la Chiesa è rimasta fedele alla tradizione e dove si è scostata (con il pretesto dell’aggiornamento). In quest’ultimo caso è indifferibile un intervento per sconfessare le deviazioni (certe volte si tratta di vere eresie ) e riportare le discipline ecclesiastiche nel solco della normalità. C’è di mezzo la fedeltà al Concilio: qui si gioca sulla sua interpretazione: bisogna dimostrare appunto che ciò che intendeva dire non si discosta dalla tradizione. E’ ciò che si è accinto a fare il Papa Benedetto XVI; ma è un’impresa ardua!
Rottura dunque, o continuità?
Non è una questione di lana caprina; non si tratta semplicemente di punti di vista: ci va di mezzo la salute delle anime, la vita della Chiesa. Intendiamoci allora: continuità ove tratta di questioni dogmatiche e rottura sul piano pratico pastorale? Ma il problema è più sottile; un esempio: la Messa tradizionale è considerata da sempre la rinnovazione del sacrificio di Cristo sulla Croce, e come tale anche dal Concilio Vaticano II. In pratica poi questo aspetto che dovrebbe essere preminente è stato obliato e sostituito dal concetto di cena comunitaria, non solo, ma lo stesso Concilio contraddicendosi, prescrive delle norme che indicano chiaramente la preferenza verso quest’ultimo. La celebrazione versus populo è rottura o continuità?
Un aspetto non secondario è l’altro tipo di rottura, quello cioè di chi abbracciando opinioni contrarie alla dottrina cattolica, vi persevera con accanimento, sordo agli inviti di Santa Madre Chiesa al ravvedimento e al ritorno nell’ovile. Purtroppo la storia della Chiesa è piena di questi fatti dolorosi. Oggi questi casi sono semmai più fitti, e costoro vivono nell’illusione di essere cattolici proprio mentre consumano il tradimento, poiché la Chiesa non condanna, lasciando campo libero a dubbi e confusione nei fedeli.
Lo stesso discorso vale per il Concilio Vaticano II. Il Papa, fin da quando era Cardinale si oppose alla tesi di certi teologi che motivati dal cosiddetto spirito del Concilio (che per lui in realtà fu un vero antispirito), considerano il Concilio uno spartiacque, una spaccatura col passato.
Nell’intervista rilasciata a Vittorio Messori, nel libro “Rapporto sulla fede” egli afferma che “Bisogna decisamente opporsi a questo schematismo di un prima e di un dopo nella storia della Chiesa, del tutto ingiustificato dagli stessi documenti del Vaticano II che non fanno che riaffermare la continuità del cattolicesimo” (c.s.cap.II,p.33).
Senza dubbio nella Chiesa c’è sempre stata continuità nell’affermare le verità di fede. La Chiesa come tale non può contraddirsi. Ma da un Concilio che ha escluso in partenza il carattere ‘De Fide’ è possibile che elementi spuri si siano insinuati tra le pieghe considerando due aspetti qualificanti: l’ecumenismo e la apertura al mondo.
Non è comunque serio prendere un’enunciazione teorica come un dato di fatto. Non è in forza della storia e del passato che il Concilio Vaticano II riceve credibilità; La Chiesa è credibile in virtù del suo Capo e Fondatore Gesù Cristo e un Concilio è attendibile in quanto coerente con esso. Il prima e il dopo è sotto gli occhi di tutti perché viene dedotto dai fatti; nessuno lo può negare.
Il postconcilio è stata una rivolta contro la tradizione, e tale rivolta ha una sua origine, una sua incubazione: il Concilio Vaticano II.
Tutti hanno percepito chiaramente che nulla è rimasto come prima. Purtroppo questa è la realtà, con buona pace di Papa Ratzinger che dice ciò che dovrebbe essere ma non è. Egli infatti si affanna a dire che lo schema di un pre e di un post nella storia della Chiesa sarebbe del tutto ingiustificato dagli stessi documenti del Vaticano II che non fanno che riaffermare la continuità del cattolicesimo. Ma non è così, come molti, e da ultimo anch’io cercano di dimostrare.
L’ermeneutica della discontinuità, come lui la chiama, noi anziani che abbiamo conosciuto il prima, e oggi stiamo soffrendo il dopo, la subiamo come una disgrazia, e siamo costernati, avviliti, preoccupati e delusi di questi avventurieri del progressismo, ma in generale di questa nuova Chiesa gaia e debosciata. La Chiesa, ovviamente, nella sua essenza, non può cambiare, anche se gli uomini che la guidano, spesso ci presentano una Chiesa rinnovata, spolverata e lucidata, quando in realtà è una Chiesa nuova, inedita, con nuovi riti, nuovi atteggiamenti e invenzioni di ogni genere.
Ma il tragico è che Benedetto XVI oppone l’innominato progressismo (che sarebbe causa della discontinuità) all’attuale corso della Chiesa, come se anch’esso non fosse intaccato dagli stessi germi.
Purtroppo solo qualche frangia è rimasta fedele alla tradizione che ancora oggi, con grandi sacrifici e umiliazioni, remando controcorrente tengono alto il vessillo della vera ‘continuità’: dalla Fraternità sacerdotale di s.Pio X alla Comunità di sacerdoti di Campos dos Goytacazes a Rio de Janeiro in Brasile, alla Fraternità di s.Pietro di Cristo Re, dall’Istituto Buon Pastore, ai Francescani dell’Immacolata, e altri ancora, senza trascurare i sempre più numerosi fedeli che si avvicinano al rito antico, dove questo è praticato, nauseati da una liturgia stravolta e talora dissacrante, e dalle posizioni eterodosse di parte della gerarchia e del clero.
Giovanni Franzoni, ex prete ed ex abate benedettino, alfiere della ‘discontinuità, in un discorso tenuto a Madrid il 18 settembre 2011, così si esprimeva:
“Volendo ora sintetizzare, descriverei così il nodo del contrasto che grava sulla Chiesa Cattolica da decenni: per Woityla e Ratzinger il Vaticano II va visto alla luce del concilio di Trento e del Vaticano I; per noi, invece, quei due concili vanno letti e realizzati, alla luce del Vaticano II. Dunque data questa divergente valutazione, i contrasti sono ineliminabili” (cit. da “Radici cristiane” n°69 p.3)
La Chiesa Cattolica si è incastrata in un vicolo cieco, e Dio non voglia che si manifestino tempeste incontrovertibili.
Fonte: da RADIO SPADA
ridentina e l’ambiguità dell’attuale Messa uscita dal Concilio Vaticano II. Vediamo:
OFFERTORIO
- Suscipe sancte Pater, Deus qui humanae substantie, Offerimus tibi Domine, In Spiritu umilitatis, Veni sanctificator omnipotens.
Queste cinque preghiere pregne di significato teologico, specie il Suscipe e l’Offerimus, che sottolineano il valore propiziatorio del Sacrificio dell’altare, nel messale di Paolo VI vengono ridotte soltanto a due:
la presentazione (non l’offerta!) del pane e del vino (Benedetto sei tu…).
Dopo la preghiera del lavabo in cui il salmo XXV è stato sostituito con una breve invocazione (“Umili e pentiti…”), la nuova Messa passa subito all’Orate fratres saltando a piè pari l’antica invocazione alla Santissima Trinità (“Suscipe Sancta Trinitas”).
Da notare che la stessa Trinità non trova posto nella nuova Messa se non nel prefazio a Lei espressamente dedicato, oltre naturalmente nel segno di croce iniziale e nella benedizione finale.
Per comprendere meglio la diversità sostanziale tra l’antico e il nuovo rito, citerò alcune osservazioni di don Davide Pagliarani:
“Il significato e le implicazioni dell’offertorio tradizionale sono chiarissime. Offrendo a Dio l’ostia e il vino, il sacerdote non intende offrire dei semplici elementi; in essi già vede la vittima che di lì a poco sarà presente sull’altare. Ed infatti egli non offre ‘il pane, frutto della terra e del lavoro dell’uomo’, bensì ‘Questa ostia (vittima) immacolata’; e parimenti non offre ‘il vino, frutto della vite e del lavoro dell’uomo’, ma ‘il calice di salvezza. L’offertorio dunque, ‘anticipa in certo modo la Consacrazione, nel senso che esprime chiaramente che quelle ‘oblate’ non hanno altro fine che l’essere transustanziate nel Corpo e nel Sangue di Nostro Signore, divenendo così l’unica vera offerta sacrificale gradita a Dio Padre. Ed è per tale motivo che il pane ed il vino, una volta offerti a Dio, non possono essere più in alcun modo ricondotti all’uso profano, tant’è vero che se il sacerdote, per un improvviso malore, non potesse più continuare la Santa Messa, occorrerebbe chiamarne un’altro, per portare a termine quell’azione sacra che è irrevocabilmente iniziata con l’Offertorio. L’Offertorio è per il Canone; l’Offertorio non sta da solo; l’Offertorio è per il Sacrificio.
La nuova Messa ha invece sostituito all’Offertorio “una vaga “presentazione dei doni, nella quale sparisce qualunque riferimento sacrificale”. (Roma Felix – nov. 2007).
Nelle preghiere del nuovo ‘offertorio’ inoltre, è assente lo scopo dell’offerta dei doni, cioè “per gli innumerevoli peccati, offese e negligenze mie e di tutti…”.
‘Cibo di vita eterna’ e ‘bevanda di salvezza’ sono concetti indefiniti e non riferiti specificatamente alla imminente presenza reale di Cristo.
“Grazie alle formule consacratorie, profferite da Gesù nel Cenacolo, e trasmesse attraverso il tempo e lo spazio del ministero sacerdotale, vengono transustanziate le specie del pane e del vino di ogni Messa, designate a tale scopo dall’Offertorio con carattere manifestamente pre-consacratorio; poiché in esso non si offre un qualche prodotto dell’agricoltura, ma del pane e del vino simboleggianti quel corpo e quel sangue del Signore, che diventeranno poi, realmente, in forza della consacrazione transustanziante. Il carattere però, principalissimo della Messa Cattolica è quello di essere sacrificio: non è solo un memoriale del sacrificio della Croce, ma è quello stesso essentialiter unum et idem sacrificium ”.
(Don Giuseppe Pace – in Chiesa viva n°254)
CONSACRAZIONE
ENIM (prendete e mangiatene tutti POICHE’ = ENIM-…).
– Le formule consacratorie del Canone non dipendono dalla Sacra Scrittura, cioè dai Sinottici: questi, infatti, arrivarono alle comunità cristiane allorquando in esse la Messa era già celebrata da tempo. Tuttavia, quei due ENIM (= IN VERITA’) delle formule consacratorie, sdegnavano Lutero, che rimproverava la Chiesa Cattolica di aver aggiunto arbitrariamente tale avverbio, alterando la Sacra Scrittura, dalla quale sono assenti.
Anche il QUI EFFUNDETUR (= CHE VERRA’ EFFUSO) offende i protestanti; poiché i Sinottici dicono “ENCUNNOMENON”, verbo che per loro significa esclusivamente “FU EFFUSO”.
Veramente, pronunciando detto verbo al futuro, il sacerdote celebrante cattolico si colloca nel Cenacolo, e rappresenta Gesù stesso consacrante nell’imminenza della consumazione cruenta del suo sacrificio, e PRIMA della medesima. Nelle traduzioni, in genere, per riguardo ai protestanti, tale futuro, QUI EFFUNDETUR, è stato tradotto con il participio passato, EFFUSO, omettendo il verbo servile VERRA’.
In tal modo, il celebrante che lo pronuncia, può collocarsi FUORI del Cenacolo, e dopo la passione cruenta del Signore; così che la sua celebrazione, da sacrificio in svolgimento, che la morte fisserà per l’eternità, può svanire in un semplice memoriale protestantico del medesimo, come un fatto che fu e che non è più. Proprio secondo la teologia di Lutero!
MULTIS – Nell’introduzione alla formula consacratoria del calice, e poi in questa stessa formula, si dice: “Bibite ex eo OMNES…qui pro MULTIS effundetur…” (= Bevetene TUTTI…che per MOLTI verrà effuso).
Vi troviamo il binomio “OMNES-MULTIS”, in italiano “TUTTI-MOLTI”, in greco “PANTES-POLLOI”, in aramaico “KOL BISRAH-SAGGHI’AN”, e in ebraico “KOLBASAR-RABBIM”. Gesù conosceva sia l’ebraico che l’aramaico. Studiatamente, contrappose i TUTTI a i MOLTI.
Nelle traduzioni del Canone, il MOLTI è stato tradotto con il TUTTI, e si è preteso legittimare tale traduzione, adducendo la ragione che in ebraico ed in aramaico non esistono termini che permettano di distinguere un TUTTI da un MOLTI. Tale erronea identificazione permette ai male intenzionati di insegnare ai fedeli che Gesù con tale espressione, ha predetto che TUTTI, di fatto, si salveranno. Gesù nel consacrare il calice usò sia la parola TUTTI che la parola MOLTI, contrapponendo l’una all’altra.. E’ vero che sia in ebraico che in aramaico, MOLTI può talora significare TUTTI; ma qui, nella frase pronunciata da Gesù, l’uso ravvicinato di TUTTI e di MOLTI, ha tutto il carattere di una contrapposizione; così è impossibile concludere con certezza all’identità di significato della voce TUTTI e della voce MOLTI in tal caso. Senza dire che la sostituzione di TUTTI a MOLTI insinua l’errore di una salvezza eterna de facto universale, e la conseguente negazione del dogma dell’inferno.
MYSTERIUM FIDEI: questa frase è stata pronunciata veramente dal Signore e conservata dagli Apostoli. Non si tratta di un’esclamazione ammirativa, interpolata nel Canone non si sa da chi; in ogni modo abusivamente, e da espungere dal Canone stesso. Si tratta di un’espressione di grande importanza, sia che con essa Gesù ci ricorda che la realtà nascosta sotto le specie eucaristiche sfugge alla nostra esperienza naturale; sia, ed a maggior ragione, se con essa Gesù intese dichiarare l’Eucaristia sacramento (= mysterium) della fedeltà (= fidei) di Dio alla nuova ed eterna alleanza.
HUNC – (= Questo – è sostituito con IL), nella frase “Et accipiens HUNC praeclarum calicem”. Detta sostituzione connota nel modo più lampante che NON si sta celebrando il Sacrificio Eucaristico inchohatum nel Cenacolo e consummatum sulla Croce; ma che si sta semplicemente raccontando tale fatto, come trapassato. Il calice sul quale il sacerdote profferisce la formula consacratoria, NON E’ UN CALICE QUALSIASI, diverso da quello dell’ultima cena, ma è misticamente una et eadem con quella di Gesù consacrante, l’azione consacratoria del sacerdote. Si dice giustamente che agisce in Persona Christi, proprio perché il sacerdote consacrante, in quel momento, è misticamente Gesù in persona, che parla in nome proprio, e dice “QUESTO E’ VERAMENTE IL MIO CORPO…QUESTO E’ VERAMENTE IL MIO SANGUE”: espressioni che non sono un doppiaggio di quelle profferite da Gesù nel Cenacolo; ma misticamente, superato tempo e spazio, quelle stesse!
ANNUNZIAMO LA TUA MORTE, SIGNORE, ecc.- Questa acclamazione è stata aggiunta (con altre due variazioni) e non fa parte del Canone Romano Tradizionale.
NELL’ATTESA DELLA TUA VENUTA ( così terminano due delle tre acclamazioni dopo la consacrazione): I protestanti negano la presenza reale di Cristo proclamando che “sono in attesa della Sua venuta!).
SUPPLICES TE ROGAMUS (…affinché quanti partecipando a questo altare RICEVEREMO IL SACROSANTO CORPO E SANGUE del Figlio Tuo, veniamo ricolmi d’ogni celeste benedizione del cielo”. Insospettisce quel comunicando (preghiera Eucaristica I, o Canone Romano – ndr.) che sostituisce il RICEVEREMO.
Nella lettera ai vescovi che accompagna il Motu Proprio, vi è un passaggio assai significativo che rivela la sensibilità del Papa verso coloro che hanno scelto di restare fedeli alla Messa tradizionale. Se da una parte, come si lamentano i progressisti, il Papa ha ufficialmente avallato la posizione dei tradizionalisti, dall’altro ha compiuto un gesto esimio nei confronti della Fraternità di San Pio X fondata dal vescovo Mons. Marcel Lefebvre, in vista di una definitiva riconciliazione:
“Sono giunto così, a quella ragione positiva che mi ha motivato ad aggiornare mediante questo Motu Proprio quello del 1988. Si tratta di giungere ad una riconciliazione interna nel seno della Chiesa. Guardando al passato, alle divisioni che nel corso dei secoli hanno lacerato il Corpo di Cristo, si ha continuamente l’impressione che, in momenti critici in cui la divisione stava nascendo, non è stato fatto il sufficiente da parte dei responsabili della Chiesa per conservare o conquistare la riconciliazione o l’unità; si ha l’impressione che le omissioni nella Chiesa abbiano avuto una loro parte di colpa nel fatto che queste divisioni si siano potute consolidare. Questo sguardo al passato oggi ci impone un obbligo: fare tutti gli sforzi, affinché a tutti quelli che hanno veramente il desiderio dell’unità, sia reso possibile di restare in quell’unità o di ritrovarla nuovamente”
(Dalla lettera del Santo Padre Benedetto XVI ai vescovi di tutto il mondo per presentare il “Motu proprio” sull’uso della liturgia romana anteriore alla riforma del 1970).
L’iniziativa del Papa di ripristinare la liceità di celebrare la Messa Tridentina ovunque e da tutti i sacerdoti, è un’operazione di recupero di grande portata, anche se vi saranno difficoltà ad applicarla visto l’accoglienza negativa riservata da vescovi e sacerdoti non disposti a fare un passo indietro e a tradire lo “Spirito del Concilio” come essi ritengono, e pertanto decisi a boicottare ed eludere le nuove disposizioni. D’altro canto invece, tanti, pensosi e preoccupati per la Chiesa, saranno felici di questo ritorno alle fonti. Forse stiamo assistendo al primo movimento di una nuova sinfonia: “Andante con Motu (Proprio)”; mi auguro di assistere presto ad un “Crescendo con forza” fino ad un “Finale maestoso” che suggelli una doverosa restaurazione.
Con questa iniziativa Benedetto XVI ha riportato a galla, imperiosamente, quella che lui stesso chiama la dinamica delle due ermeneutiche nei riguardi della interpretazione del Concilio Vaticano II. Questione dibattuta, sulla quale il Papa non si tira indietro, pur consapevole delle difficoltà da superare e del pericolo serio di fratture in seno alla Chiesa. Le posizioni contrapposte si sono ormai radicate, e più si aspetta tanto più sarà difficile riportare la concordia.
- E) – ROTTURA CON LA TRADIZIONE
Sicuramente non era nelle intenzioni di Papa Giovanni XXIII, né di Paolo VI provocare una rottura in seno alla Chiesa Cattolica, né tanto meno nella stragrande maggioranza dei Padri conciliari che non potevano immaginare ciò che sarebbe successo dopo il Concilio.
Non c’è traccia che nella Chiesa vi fossero problemi gravi di derive o di allentamento della tensione, anzi, come s’è visto, si potrebbe dire che era al massimo della sua coesione, della incisività ed autorevolezza, pertanto si poteva pensare che, male andasse, il Concilio avrebbe confermato questo stato di cose. Questo era l’atteggiamento di massima della cattolicità. Il filone modernista, tenuto in vita da alcuni teologi del nord Europa, era marcato strettamente, almeno fino a che visse Pio XII, e c’è da chiedersi se Giovanni XXIII e gli entusiastici sostenitori dell’annunciato Concilio, fossero consapevoli del pericolo che incombeva sulla Chiesa dando spazio a personaggi già bene individuati e penalizzati da Pio XII.
Nel discorso di apertura del Concilio Vaticano II, Giovanni XXIII espresse alcuni concetti che lì per lì sembravano ovvii ma che invece hanno avuto una risonanza enorme nei dibattiti e nell’affrontare le nuove linee di condotta della Chiesa. Egli dichiarò che il Concilio doveva avere un carattere pastorale, perciò non si doveva più decretare condanne ma usare la medicina della misericordia, e, nei riguardi dei non cattolici e dei non credenti considerare ciò che ci unisce piuttosto di ciò che ci divide. Forse il Papa ‘buono’ credeva di aver posto la base per un surplus di amore, di carità, di slancio apostolico nella Chiesa e, indicando questa strada, ingenuamente, si teneva certo che ci saremmo abbracciati con gli uomini di tutto il mondo, di ogni razza e di ogni religione.
Nessuno, forse nemmeno lui immaginava il tranello satanico che si nascondeva sotto quelle parole. C’era nell’ombra una forza (o più forze) che remavano contro la Chiesa, per frenare la sua marcia e deviarne la corrente e il destino; una forza che nel vedere un Papa benché vecchio, intenzionato a togliere la polvere dalla Chiesa, emerse improvvisamente e prese subito le redini del Concilio.
La Chiesa che per cent’anni aveva combattuto e tenuto a freno il modernismo, ora d’un colpo avrebbe ricusato ogni immunizzazione.
“Pio XII lo sapeva, diceva lui stesso di essere l’ultimo Papa, l’ultimo anello di una lunga catena” (Così si espresse Jean Guitton).
La gravità della situazione è stata subito avvertita, se perfino Jacques Maritain ebbe a dire che “Il modernismo del tempo di Pio X, ha preso in ostaggio la Chiesa alterandone le caratteristiche e i segni distintivi, allontanandosi dalla tradizione”.
Se è così, allora l’attuale Papa Benedetto XVI provveda a riportare sulla linea della tradizione tutte le deviazioni che vi sono state, per dare credito alle sue ripetute dichiarazioni secondo cui vi sarebbero due interpretazioni del Concilio:
una “della discontinuità e della rottura”, l’altra che sarebbe “dell’ermeneutica della riforma, del rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa che il Signore ci ha donato”.
“L’ermeneutica della discontinuità rischia di finire in una rottura tra Chiesa preconciliare e Chiesa postconciliare. Essa asserisce che i testi del Concilio come tali non sarebbero ancora la vera espressione dello spirito del Concilio. Sarebbero il risultato di compromessi nei quali, per raggiungere l’unanimità, si è dovuto ancora trascinarsi dietro e riconfermare molte cose vecchie ormai inutili. Non in questi compromessi, però, si rivelerebbe il vero spirito del Concilio, ma invece negli slanci verso il nuovo che sono sottesi ai testi: solo essi rappresenterebbero il vero spirito del Concilio, e partendo da essi e in conformità con essi bisognerebbe andare avanti. Proprio perché i testi rispecchierebbero solo in modo imperfetto il vero spirito del Concilio e la sua novità, sarebbe necessario andare coraggiosamente al di là dei testi, facendo spazio alla novità nella quale si esprimerebbe l’intenzione più profonda, sebbene ancora indistinta del Concilio. In una parola: occorrerebbe seguire non i testi del Concilio ma il suo spirito. In tal modo, ovviamente, rimane un vasto margine per la domanda su come allora si definisce questo spirito e, di conseguenza, si concede spazio ad ogni estrosità”
(Benedetto XVI: “Il Concilio Vaticano II – 40 anni dopo” Natale 2006).
Qui mi par si voglia parlare di un Concilio esoterico, dove ogni pronunciamento sottende altro, che per intenderlo è necessario possederne la chiave. Ma “Gesù non era esoterico” scrive Giovanni Papini nella sua famosa “Storia di Cristo” (cap.HANAN), che aggiunge: “anche se ha detto talvolta, ai discepoli, parole che non ha ripetuto sulle piazze; li ha però esortati a gridar sui tetti quel che ha detto loro nelle case”. Coloro che sostengono l’ermeneutica della rottura presuppongono un Concilio nutrito di esoterismo, pertanto, onde recepirlo in pieno sarebbe necessario rimuoverne i veli sotto i quali si scoprirebbe la vera intenzione del Concilio, cioè quella di un nuovo corso che la Chiesa avrebbe dovuto intraprendere.
In sostanza la fazione modernista vorrebbe far dire al Concilio quello che non ha detto, per fare ancora più danno a questa povera Chiesa. E’ un’accusa al Concilio, tra l’altro, di non essere stato chiaro e di aver dissimulato le sue vere intenzioni per una atavica paura, intenzioni che sarebbero state quelle di aprire maggiormente alle novità (demolendo la tradizione, ovviamente).
Ma se veramente è così, il Concilio, invece di chiarezza non ha fatto che creare confusione. Sembra che dopo 50 anni il Concilio non solo è di là di essere capito, e quindi applicato, ma che abbia creato due fazioni che lotterebbero fra loro per avere il sopravvento.
Si dà il caso che, sia i tradizionalisti che i progressisti (modo aggiornato di identificare i modernisti) non concordano con l’analisi del Papa sul Concilio e ciò che ne consegue, come continuità della tradizione; sia gli uni che gli altri, per motivi opposti vedono il Concilio Vaticano II come lo spartiacque. Tra l’una e l’altra fazione, ne esisterebbe dunque una terza, la più numerosa, costituita dai fedeli identificantisi nell’ermeneutica della riforma, cioè coloro che rifiutano il progressismo modernista, ma considerano gli autentici tradizionalisti come degli integralisti fanatici e nostalgici; sarebbero poco disposti ad accettare altre novità, ma a respingere altresì ogni proposta di restaurazione. (chiamiamoli convenzionalmente conservatori).
“All’ermeneutica della discontinuità si oppone l’ermeneutica della riforma”. Papa Giovanni XXIII ancora nel discorso di apertura, dice che “Il Concilio vuole trasmettere pura e integra la dottrina, senza attenuazioni o travisamenti. – e continua – è necessario che questa dottrina certa ed immutabile, che deve essere fedelmente rispettata, sia approfondita e presentata in modo che corrisponda alle esigenze del nostro tempo. Una cosa è infatti il deposito della fede, cioè la verità contenuta nella nostra veneranda dottrina, e altra cosa è il modo col quale esse sono enunciate, conservando ad esse tuttavia lo stesso senso e la stessa portata”.
Il documento di Benedetto XVI conclude: “Ma ovunque questa interpretazione è stata l’orientamento che ha guidato la recezione del Concilio, è cresciuta una nuova vita e sono maturati frutti nuovi. Quarant’anni dopo il Concilio, possiamo rilevare che il positivo è più grande e più vivo di quanto non potesse apparire nell’agitazione degli anni intorno al 1968. Oggi vediamo che il seme buono pur sviluppandosi lentamente, tuttavia cresce, e cresce così anche la nostra profonda gratitudine per l’opera svolta dal Concilio” (c.s.14-15).
Questa dunque la situazione denunciata dal Papa nel documento-discorso ai Cardinali e ai Prelati di Curia per la presentazione degli auguri natalizi 2005. E’ avvenuto ciò che pur era previsto, ma non è stato messo in conto: il Concilio è sfociato in due contrastanti visioni della Chiesa che si richiamano una alla necessità di spingere la Chiesa verso nuovi spazi, verso incognite rischiose, l’altra che accetta le riforme del Concilio, mentre i tradizionalisti duri e puri che vedono sia in certi pronunciamenti del Concilio che soprattutto nell’applicazione di esso un grave allontanamento dalla millenaria tradizione della Chiesa Cattolica, mirano ad una possibile restaurazione, cioè reclamano un passo indietro, e per questo sono definiti preconciliari.
Qualche considerazione:
1) E’ vero che l’orientamento del Concilio è stato dettato dalle suddette parole del Papa Giovanni XXIII, ma è tutto da vedere se questo indirizzo è stato seguito dai protagonisti del Concilio. L’irruzione modernista non era prevista? Ingenuità o consapevolezza e arrendevolezza?
2) Una cosa è la dottrina e altra è il modo col quale essa viene enunciata. Così Papa Giovanni XXIII. Scontato dunque che la dottrina non deve essere scalfita; rimane da vedere come concretamente questa viene enunciata. Ma il Concilio non è stato convocato per questo? Perché mai allora, dopo una valanga di parole e una montagna di documenti siamo ancora sulla linea di partenza, intenti a discutere non solo sul metodo per attuare l’annuncio, ma addirittura su cosa abbia voluto dire il Concilio a riguardo?
3) “Oggi vediamo che il seme buono pur sviluppandosi lentamente, tuttavia cresce”. La Santa Chiesa non può venire abbandonata da Dio: la promessa di Gesù è che Egli sarà con lei fino alla fine dei secoli. Se qualcosa (poco o tanto) di ‘positivo’ si verifica ancora, è il segno tangibile che Dio non ci ha abbandonato, ma ci segue e non lascia che si spenga nemmeno il lucignolo fumigante.
In quanto al ‘positivo’ che vede il Papa dopo i vacillamenti del 1968, è da stabilire se il raffronto va fatto a partire da questa data oppure dal 1962, anno dell’apertura del Concilio. Il motivo è chiaro: fino alle soglie del Concilio la Chiesa Cattolica era forte e florida, come abbiamo visto, poi, dopo la grande assise ha registrato un crollo pauroso collocato dal Papa nel 1968, da cui, secondo lui la Chiesa avrebbe ripreso a risalire la china. Ovviamente se il raffronto va fatto dal 1962 non solo non abbiamo guadagnato niente ma abbiamo perso quasi tutto. – “Ma ovunque questa interpretazione (ermeneutica della riforma) è stata l’orientamento che ha guidato la recezione del Concilio”. Qui siamo all’interpretazione dell’interpretazione. Il Papa cioè interpreta il cammino della Chiesa in questi ultimi 40 anni, con tutti i fatti catastrofici che sono avvenuti, come l’interpretazione del Concilio alla luce dell’ermeneutica della riforma. Ciò evidenzia come non possono sussistere due interpretazioni di un unico Concilio.
Messa così la questione non è affatto chiara perché la Chiesa dovrebbe avere una linea di condotta ufficiale risalente al Concilio: dall’altra parte vi possono essere gli oppositori. Consacrare due ermeneutiche significa ammettere la rottura! Qui il Papa nell’intento di fare giustizia ha creato confusione.
Di strada ce ne sarà ancora molta da fare, ma confidiamo nel Signore e nella volontà non tanto di attuare il Concilio (quasi fosse un nuovo dogma) ma la legge e la volontà di Nostro Signore Gesù Cristo.
A questo punto non si capisce ancora se col Concilio Vaticano II vi è stata o no una rottura.
Tutti sono d’accordo nel dire che la Chiesa è in crisi, ma ciò non comporta automaticamente che vi sia stata una rottura. Infatti il Papa ammette la crisi ma rifiuta la tesi della rottura che sarebbe come dire che oggi esiste una Chiesa diversa di quella del passato. La Chiesa non può fare uno strappo e tramutarsi in un’altra entità, un’altra Chiesa: non sarebbe più la Chiesa di Cristo.
Se dal Concilio in poi è avvenuto un tale sconvolgimento, è urgente verificare dove la Chiesa è rimasta fedele alla tradizione e dove si è scostata (con il pretesto dell’aggiornamento). In quest’ultimo caso è indifferibile un intervento per sconfessare le deviazioni (certe volte si tratta di vere eresie ) e riportare le discipline ecclesiastiche nel solco della normalità. C’è di mezzo la fedeltà al Concilio: qui si gioca sulla sua interpretazione: bisogna dimostrare appunto che ciò che intendeva dire non si discosta dalla tradizione. E’ ciò che si è accinto a fare il Papa Benedetto XVI; ma è un’impresa ardua!
Rottura dunque, o continuità?
Non è una questione di lana caprina; non si tratta semplicemente di punti di vista: ci va di mezzo la salute delle anime, la vita della Chiesa. Intendiamoci allora: continuità ove tratta di questioni dogmatiche e rottura sul piano pratico pastorale? Ma il problema è più sottile; un esempio: la Messa tradizionale è considerata da sempre la rinnovazione del sacrificio di Cristo sulla Croce, e come tale anche dal Concilio Vaticano II. In pratica poi questo aspetto che dovrebbe essere preminente è stato obliato e sostituito dal concetto di cena comunitaria, non solo, ma lo stesso Concilio contraddicendosi, prescrive delle norme che indicano chiaramente la preferenza verso quest’ultimo. La celebrazione versus populo è rottura o continuità?
Un aspetto non secondario è l’altro tipo di rottura, quello cioè di chi abbracciando opinioni contrarie alla dottrina cattolica, vi persevera con accanimento, sordo agli inviti di Santa Madre Chiesa al ravvedimento e al ritorno nell’ovile. Purtroppo la storia della Chiesa è piena di questi fatti dolorosi. Oggi questi casi sono semmai più fitti, e costoro vivono nell’illusione di essere cattolici proprio mentre consumano il tradimento, poiché la Chiesa non condanna, lasciando campo libero a dubbi e confusione nei fedeli.
Lo stesso discorso vale per il Concilio Vaticano II. Il Papa, fin da quando era Cardinale si oppose alla tesi di certi teologi che motivati dal cosiddetto spirito del Concilio (che per lui in realtà fu un vero antispirito), considerano il Concilio uno spartiacque, una spaccatura col passato.
Nell’intervista rilasciata a Vittorio Messori, nel libro “Rapporto sulla fede” egli afferma che “Bisogna decisamente opporsi a questo schematismo di un prima e di un dopo nella storia della Chiesa, del tutto ingiustificato dagli stessi documenti del Vaticano II che non fanno che riaffermare la continuità del cattolicesimo” (c.s.cap.II,p.33).
Senza dubbio nella Chiesa c’è sempre stata continuità nell’affermare le verità di fede. La Chiesa come tale non può contraddirsi. Ma da un Concilio che ha escluso in partenza il carattere ‘De Fide’ è possibile che elementi spuri si siano insinuati tra le pieghe considerando due aspetti qualificanti: l’ecumenismo e la apertura al mondo.
Non è comunque serio prendere un’enunciazione teorica come un dato di fatto. Non è in forza della storia e del passato che il Concilio Vaticano II riceve credibilità; La Chiesa è credibile in virtù del suo Capo e Fondatore Gesù Cristo e un Concilio è attendibile in quanto coerente con esso. Il prima e il dopo è sotto gli occhi di tutti perché viene dedotto dai fatti; nessuno lo può negare.
Il postconcilio è stata una rivolta contro la tradizione, e tale rivolta ha una sua origine, una sua incubazione: il Concilio Vaticano II.
Tutti hanno percepito chiaramente che nulla è rimasto come prima. Purtroppo questa è la realtà, con buona pace di Papa Ratzinger che dice ciò che dovrebbe essere ma non è. Egli infatti si affanna a dire che lo schema di un pre e di un post nella storia della Chiesa sarebbe del tutto ingiustificato dagli stessi documenti del Vaticano II che non fanno che riaffermare la continuità del cattolicesimo. Ma non è così, come molti, e da ultimo anch’io cercano di dimostrare.
L’ermeneutica della discontinuità, come lui la chiama, noi anziani che abbiamo conosciuto il prima, e oggi stiamo soffrendo il dopo, la subiamo come una disgrazia, e siamo costernati, avviliti, preoccupati e delusi di questi avventurieri del progressismo, ma in generale di questa nuova Chiesa gaia e debosciata. La Chiesa, ovviamente, nella sua essenza, non può cambiare, anche se gli uomini che la guidano, spesso ci presentano una Chiesa rinnovata, spolverata e lucidata, quando in realtà è una Chiesa nuova, inedita, con nuovi riti, nuovi atteggiamenti e invenzioni di ogni genere.
Ma il tragico è che Benedetto XVI oppone l’innominato progressismo (che sarebbe causa della discontinuità) all’attuale corso della Chiesa, come se anch’esso non fosse intaccato dagli stessi germi.
Purtroppo solo qualche frangia è rimasta fedele alla tradizione che ancora oggi, con grandi sacrifici e umiliazioni, remando controcorrente tengono alto il vessillo della vera ‘continuità’: dalla Fraternità sacerdotale di s.Pio X alla Comunità di sacerdoti di Campos dos Goytacazes a Rio de Janeiro in Brasile, alla Fraternità di s.Pietro di Cristo Re, dall’Istituto Buon Pastore, ai Francescani dell’Immacolata, e altri ancora, senza trascurare i sempre più numerosi fedeli che si avvicinano al rito antico, dove questo è praticato, nauseati da una liturgia stravolta e talora dissacrante, e dalle posizioni eterodosse di parte della gerarchia e del clero.
Giovanni Franzoni, ex prete ed ex abate benedettino, alfiere della ‘discontinuità, in un discorso tenuto a Madrid il 18 settembre 2011, così si esprimeva:
“Volendo ora sintetizzare, descriverei così il nodo del contrasto che grava sulla Chiesa Cattolica da decenni: per Woityla e Ratzinger il Vaticano II va visto alla luce del concilio di Trento e del Vaticano I; per noi, invece, quei due concili vanno letti e realizzati, alla luce del Vaticano II. Dunque data questa divergente valutazione, i contrasti sono ineliminabili” (cit. da “Radici cristiane” n°69 p.3)
La Chiesa Cattolica si è incastrata in un vicolo cieco, e Dio non voglia che si manifestino tempeste incontrovertibili.
Fonte: da RADIO SPADA