Dal testo di Francesco Zanotto
“Si deputò alla udienza il secondo giorno di ottobre, e doveva il Petrarca proferirvi un discorso, che rispondesse alla dignità dell’assemblea ed alla importanza dell’argomento. Ma quando fu nel cospetto del Senato, gli sembrò vedere, come dice egli medesimo, un consesso non di uomini, sì bene di Dei, e smarrì la favella. Solamente la dimane, rinfrancata la lena ed apparecchiato lo spirito, ruppe in parole che gli valsero gli applausi di quell’adunanza, da lui paventata. E sì all’animo del poeta filosofo dovea star presente quanto il Senato avesse debito di rigardarlo, come in fatto lo riguardava, quale uomo benemerito … ”
ANNO 1373
Giuseppe Gatteri
Cosa ci racconta il disegno di Gatteri.
Dopo la battaglia di Piove di Sacco i Da Carrara si scoprono più deboli di fronte a Venezia e le concessioni, soprattutto economiche, si susseguono. Per conservare il potere la signoria deve coltivare la pianta della pace e spedire come ambasciatore il Petrarca per intercedere presso il doge ed il senato veneziani …
LA SCHEDA STORICA – 55
La clamorosa vittoria dei veneziani del 1° luglio del 1373 aveva segnato un duro colpo per la lega antiveneziana che vedeva schierati in prima fila Francesco da Carrara e il re d’Ungheria.
Questi, ritiratosi dal conflitto – il nipote tradotto prigioniero a Venezia venne comunque onorevolmente alloggiato in Palazzo Ducale -, lasciò gravare tutto il peso e l’onta della sconfitta sul carrarese che infine si vide costretto a chiedere la pace a Venezia con l’intermediazione del Patriarca di Grado. Due ambasciatori del signore padovano accompagnati dall’alto prelato a Venezia, fecero finalmente ritorno a Padova portando le richieste e le condizioni per la pace da parte del governo ducale che naturalmente non si risparmiò quanto a durezza e severità.
Innanzitutto Francesco da Carrara o suo figlio dovevano chiedere perdono ai piedi del doge per la guerra intrapresa ai danni della Serenissima. Si richiedeva inoltre che le milizie straniere – quelle ungheresi in pratica -, lasciassero immediatamente il territorio padovano e che tutte le fortificazioni lungo i confini venissero abbattute pagando a Venezia un indennizzo per i danni subiti non inferiore a un quarto di milione di ducati!
Ancora tuttavia, non bastava. Venezia voleva premunirsi e salvaguardarsi da altri possibili, futuri attacchi e così chiese che il da Carrara non potesse costruire alcuna fortezza a sette miglia dalle acque che andavano da Venezia a Chioggia; che cinque nobili veneziani ridefinissero i confini fra i due stati senza che Francesco potesse intervenire. Veniva inoltre richiesta la liberazione di tutti i prigionieri, compreso il capitano Taddeo Giustiniano e altri nobili trevigiani sconfitti e catturati sul Piave.
Non potevano certo mancare, alla fine, i vantaggi commerciali che Venezia infatti tentò di procurarsi con il trattato di pace. Fra i punti in questione c’era la facoltà concessa al da Carrara di vendere sì il sale nel suo stato a qualunque prezzo, purchè fosse acquistato a Chioggia, praticamente a Venezia!
Ogni veneziano, inoltre, avrebbe potuto acquistare o portare merce nel territorio padovano senza dover pagare alcun dazio. Dopo i commerci, per concludere, il controllo del territorio con la richiesta al carrarese di cedere a Venezia la chiusa di Quero, il Passo della Camatta e la torre di S. Boldo.
Obbligato a dare una risposta a simili richieste, ad una sola, Francesco da Carrara non riuscì a piegarsi: chiedere pubblicamente in ginocchio perdono ai piedi del doge. L’umiliazione richiesta, venne alla fine soddisfatta da suo figlio Novello che si recò a Venezia infatti, in vece del padre.
Un personaggio illustre e già noto da tempo nella stessa città lagunare accompagnava il giovane da Carrara in quel suo frustrante viaggio: Francesco Petrarca. Il poeta aveva trovato ospitale accoglienza alla corte di Francesco da Carrara poco prima del 1370, anno in cui Petrarca si trasferì con i suoi libri nel piccolo centro di Arquà sui colli Euganei dove gli venne messa a disposizione una casa dal signore padovano. Al Petrarca non era nuova, tuttavia, la città lagunare. Vi era approdato infatti nel 1362 per sfuggire alla peste che allora dilagava nella città di Padova. A Venezia in quel periodo trovò ben presto nel doge Lorenzo Celsi un suo profondo estimatore oltre che un sincero amico al quale lo legava una reciproca stima.
Il soggiorno veneziano si protrasse addirittura per alcuni anni e il doge riuscì a farsi promettere che, alla morte del poeta, la sua preziosa biblioteca sarebbe rimasta a Venezia. In cambio di questo impegno il governo veneziano mise a disposizione del Petrarca una casa sulla Riva degli Schiavoni, forse il Palazzo delle Due Torri oltre il Ponte del Sepolcro.
Per circa cinque anni Petrarca dimorò dunque a Venezia, fino cioè al 1367, anno in cui tuttavia, abbandonò frettolosamente la città. Questa improvvisa partenza sembra potersi imputare probabilmente, ai toni e alle conseguenze di un’accesa disputa avuta dal poeta con quattro filosofi averroisti.
Questi non si limitarono, pare, ai diverbi di carattere filosofico, ma offesero personalmente il poeta tacciandolo pubblicamente d’ignoranza. Da allora Petrarca non aveva più fatto ritorno a Venezia e molto probabilmente non vi avrebbe mai più rimesso piede se un forte senso di riconoscenza non lo avesse persuaso, alla fine, ad accompagnare il figlio di Francesco da Carrara al cospetto del doge per sostenerlo e magari tentare di addolcire le richieste durissime dei veneziani. Il signore padovano era stato da sempre con lui molto generoso e disponibile, non poteva certo rifiutargli un simile favore.
E così, malgrado l’età – il Petrarca sarebbe morto neppure un anno dopo – e nonostante il peso del viaggio, Petrarca lasciò la pace dei colli Euganei per recarsi con Novello da Carrara a Venezia dove i due giunsero il 27 settembre del 1373.
L’udienza, nella sala del Maggior Consiglio era stata fissata per il giorno 2 ottobre e puntuale quel giorno il poeta si presentò al cospetto del doge e dei membri dell’alta Assemblea. Malgrado l’esperienza e la fama di grande oratore, il Petrarca trovandosi di fronte a tanta magnificenza e in un’atmosfera eccezionale e solenne, non nascose il suo profondo imbarazzo e, come ebbe modo più tardi di confessare, in quel momento gli sembrò di vedere ” … un consesso non di uomini, sì bene di Dei … ”
L’anziano poeta ebbe bisogno di riprendersi dallo smarrimento e pronunciò il suo accorato discorso in favore della pace solo il giorno dopo. Le sue parole furono così calde e sentite che meritarono l’applauso dell’intera assemblea anche se le pesanti condizioni non vennero, pare, minimamente ritoccate. Se con Padova la pace sembrava dunque cosa fatta, Venezia non ebbe tuttavia neppure tempo di assaporarne i frutti.
Un antico e feroce conflitto mai risolto infatti, si stava nuovamente riaccendendo con prospettive ed esiti a dir poco terribili per la repubblica veneta. Il conflitto era quello con Genova. Toccava ora alla repubblica ligure, dopo il fallimentare tentativo dei padovani, prendere in mano le redini del fronte anti-veneziano.
Fonte: srs di Giuseppe Gatteri, Antonio Viviani, Francesco Zanotto, Giuseppe Grimaldo, Laura Poloni, Giorgio Marenghi; da STORIA VENETA, volume 2, SCRIPTA EDIZIONI
Link: http://www.storiavicentina.it