In questo secondo compendioso capitolo del nostro corso, affronteremo le problematiche salienti che caratterizzarono la storia dei primi tre secoli della Chiesa. Soprattutto tratteremo subito qui del suo rapporto difficile con l’Impero romano fino a giungere alla sua legittimazione con Costantino (313) e la condanna dei culti pagani con Teodosio (391) e, pertanto, della religione cristiana come unica religione dell’Impero il quale, da questo momento, da pagano diventa cristiano.
LA CHIESA E IL MONDO PAGANO
Impossibile comprendere la diffusione della Chiesa nel contesto imperiale romano, se non si opera prima una premessa chiarificatrice intorno al contesto religioso dell’ambiente in cui la Chiesa crebbe. Innanzitutto è importante precisare alcune realtà fondamentali caratterizzanti detto ambiente: l’Imperatore romano, l’organizzazione politica dell’Impero e la religione pagana nell’Impero (I sec.)
L’Imperatore romano
Nel periodo repubblicano il titolo onorifico “imperator” designava il generale romano che dopo la vittoria era acclamato tale dall’esercito, detenendolo fintantoché rimanesse in carica o fino al trionfo. Sul finire della Repubblica, in seguito alla crescente influenza dell’esercito, esso acquisisce sempre più una valenza militare, e non solo celebrativa: si trasformò nel simbolo dell’autorità militare stessa. Ma fu sotto Ottaviano (Caio Giulio Cesare Ottaviano – † 14 d. C.) che il termine imperator venne a designare il potere supremo e fu comunemente usato in questo senso. Dopo la sconfitta di Marco Antonio ad Azio (31 a. C.), Ottaviano rimase l’unico pretendente al potere.
Nel giro di pochi anni, Ottaviano giunse a farsi riconoscere le massime magistrature dal Senato e dal Popolo di Roma. Ciò in forza di svariati motivi, il primo dei quali consisteva nella convinzione generale – conseguente a più di vent’anni di guerre civili – che la reggenza di uno stato così vasto come l’Impero romano abbisognasse di un rinnovamento costituzionale globale degli antichi ordinamenti e che pertanto la via naturale di questo processo fosse appunto il principato.
C’è anche un altro aspetto che non deve essere sottovalutato e che de facto costituisce la potenza d’Ottaviano: egli è considerato e riconosciuto il capo indiscusso dell’esercito che gli aveva giurato obbedienza.
Forte della sua forza morale e militare, Ottaviano raggiunse così a possedere le massime magistrature senza creare grossi traumi con il passato repubblicano e ciò in forza appunto della sua acclamazione nel 29 a. C. ad imperator, ossia di avente l’imperium, che egli assunse in maniera vitalizia come prenome (Imperator Octavianus) e che, sebbene fosse secondo la tradizione un titolo, con lui venne ad assumere un nuovo significato, applicabile a lui solo.
Nel 28 a. C. fu nominato princeps senatus (già goduto in alcuni precedenti periodi da Pompeo Magno) che gli dava diritto di parlare per primo nell’assemblea senatoria e di dirigerne i lavori. Tale titolo permise a tutti di chiamarlo semplicemente “princeps”, nel senso di “primo cittadino”.
Nel 27 è proclamato dal Senato Augustus (= degno di venerazione ed onore), titolo di accezione sacrale e che pertanto stava ad indicare la sua sacertà, come tramite tra la popolazione romana e la divinità. Tale titolo fu adottato da Ottaviano quale suo cognome (Imperator Octavianus Augustus) ed assunto da tutti i suoi successori che quindi ne ereditavano anche il potere.
Ma è nel 23, dopo che Augusto ebbe deposto il potere consolare (= potere esecutivo) – che già deteneva ininterrottamente dal 31 –, che egli riceve dal senato il conferimento del comando proconsolare (imperium proconsolare maius) a tempo indeterminato e la potestas tribunicia a vita.
Con il primo esercitava un potere diretto su tutte le province, anche quelle che nel 27 erano state date al governo del Senato (province senatorie), e sull’esercito, tanto da determinare la politica estera dello stato.
Con la seconda poteva controllare la politica interna, con la possibilità di convocare le assemblee della plebe, di proporre le leggi, di esercitare il diritto di veto sull’opera legislativa del Senato. Sono appunto questi titoli che conferiscono alla fisionomia imperiale romana la sua particolare caratterizzazione e stabilità.
Nel 12 divenne inoltre Pontifex Maximus, il ché gli dava la piena moderazione su tutto il culto religioso pubblico.
Tale potere assoluto dell’Imperatore, sia con Augusto sia con i suoi successori, si risolse in una monarchia moderata in quanto lasciò alle province una certa autonomia locale. Ciò lo si deve alle scelte stesse di Augusto, che, sebbene solo nella forma, riconobbe al Senato un certo spazio di azione.
Un altro concetto importante per tentare di giungere a capire il culto riconosciuto all’Imperatore è il significato rivestito dal termine “genius”.
Nel latino classico con genius si suole indicare lo spirito tutelare di ciascun uomo, una specie di angelo custode, sebbene in origine si volesse significare la sua forza innata, le cui funzioni pare consistessero per lo più nel coltivare i desideri naturali e nel soddisfarli.
Nel culto familiare si onorava in ciascuna casa un solo genius, quello del paterfamilias, soprattutto in occasione del suo matrimonio, ma anche nel culto ordinario del lararium che era una edicola domestica o altare dedicato al culto dei Lares (Lari, cioè gli spiriti dei famigliari morti che proteggevano il podere) e dei Penates (Penati, cioè le divinità che tutelavano la dispensa).
Per influsso greco (costume che prenderà piede a partire dal sec. IV a. C.) si giunse a divinizzare il genius di Romolo, fondatore e primo re di Roma.
È per effetto dell’ellenismo (che i romani accolsero gradatamente), nel I sec. a. C., che tale prassi fece la sua comparsa a Roma. In questo senso, la diffusione in Roma di questo costume fu assai facilitata dal fatto che lo stoicismo ammettesse la possibilità che persone meritevoli per virtù e amor di patria potessero essere divinizzate dopo morte.
Tale concetto comparve nel De repubblica di Cicerone (conosciuta nel Medioevo solo in parte come Somnium Scipionis, “Il sogno di Scipione”).
Importante e quanto mai suggestivo e toccante quello che egli afferma nel libro VI di tale opera:
«Ma perché tu, Africano [Minore, cioè Scipione Emiliano], sia più risoluto a difendere lo stato, sappi questo: a tutti coloro che hanno salvato, aiutato, ingrandito la patria è riservato in cielo un luogo determinato dove essi, immuni da ogni travaglio morale, godono di un’eterna beatitudine. Di ciò che accade in terra, nulla è infatti più gradito a quel dio supremo, che tutto governa, degli aggregati politici giuridicamente costituiti, chiamati stati (civitates appellantur); cui reggitori e salvatori, di qui partiti, qui sono destinati a ritornare (VI, 3) […]. Tu sforzati, e tieni fermo che non tu, ma codesto tuo corpo è soggetto alla morte. Tu non sei quello che appari nella tua forma corporea, non quello che il tuo aspetto terreno manifesta: ma l’anima di ogni uomo è la sua vera essenza. E questo sappi, che tu sei un dio: poiché divina è la forza che opera in noi, che vive, sente, ricorda, prevede, e regge e governa e muove il corpo, cui è preposta, allo stesso modo che il sommo Dio onnipotente regge e governa il mondo: e come la divinità, che è eterna, è principio motore del mondo, che per certa parte è mortale, così l’anima immortale è virtù motrice del corpo corruttibile (VI, 8) […]. Questa [cioè l’anima] devi affinare nell’esercizio delle più nobili virtù. E nobilissima tra le sue attività sarà invero quella rivolta alla salvezza della patria, dal cui affetto, incitata e stimolata più rapidamente, l’anima trasvolerà a questa che è la sua vera sede e dimora [cioè la dimora dei beati e degli dei] (VI, 9)».
Quindi niente di strano che Cesare da dittatore ricevesse onori divini, probabilmente per propria volontà e a imitazione di Alessandro di cui aveva eccelsa ammirazione. Dopo la sua uccisione, i triumviri (Antonio, Ottaviano e Lepido), sostenuti dal popolo, ottennero dal Senato la sua divinizzazione (42 a. C.).
Lo stesso avverrà con Augusto che, già venerato in vita, fu adorato dopo la sua morte quale divus Augustus con la dedica di molti templi in tutto l’impero, primo dei quali quello fondato ai piedi del Palatino (tra la Basilica Iulia e l’attuale S. Maria Antiqua).
Tra i suoi successori, solo Caligola e Domiziano imposero, viventi, il culto delle proprie persone. Sembra che Nerone e anche poi Commodo non richiedessero esplicitamente gli onori divini, sebbene si limitassero a gradirli. In ogni caso il Senato premiava con l’apoteosi gli imperatori defunti che lo avevano soddisfatto.
Il culto dell’Imperatore non era un semplice espediente per conferire dignità e autorità sovrumana al sovrano o per garantire le fedeltà dei sudditi; rappresentava un’espressione spontanea di gratitudine per colui che aveva salvato e beneficiato i suoi sudditi fondando la pace e la prosperità, formula espressa in termini di adulazione ellenistica e sostenuta dallo stoicismo dominante. Tale pratica religiosa, sebbene contribuisse poco o nulla a soddisfare le esigenze religiose della popolazione dell’Impero, acquistò una crescente importanza politica.
Di fatto l’Imperatore rappresentava nella sua persona l’Impero stesso. Il suo culto era soventemente associato a quello della dea Roma ed era più espressione di lealtà politica manifestata esteriormente in forma cultuale, che una qualsiasi confessione religiosa intesa nel vero senso del termine. Il culto dell’Imperatore elevò pertanto la posizione del sovrano, promovendo il cerimoniale di corte e le onorificenze. Il sovrano, o il suo genius, poteva essere invocato insieme agli dèi per confermare i giuramenti, pratica da distinguersi dai giuramenti di fedeltà all’Imperatore. Questi ultimi si prestavano, soprattutto nell’esercito, davanti ad una statua dell’Imperatore. Chi offendeva la “divinità” dell’Imperatore si esponeva all’accusa di tradimento.
Per es. in Bitinia il proconsole Plinio il Giovane (112 d. C.) identificava i cristiani dal loro rifiuto di sacrificare davanti alle statue degli dèi e di Traiano.
Durante il sec. III la diffusione di culti “misterici” orientali incoraggiò la tesi che l’Imperatore fosse non tanto divino egli stesso, bensì protetto dagli dèi, un tramite per il quale, in tempo di difficoltà, si poteva garantire allo Stato il favore divino.
L’Impero romano e sua organizzazione nel sec. I
Alla morte di Augusto l’Impero Romano si estende pressoché a tutte le coste del Mediterraneo, esclusa la Mauritania (l’attuale Marocco e parte dell’Algeria), con il dominio di vasti territori: tutta la penisola iberica, la Gallia, la Germania al di qua del Reno, tutte le regioni subdanubiane, buona parte dell’Asia Minore, la Siria fino all’Eufrate, la Palestina e il ricco Egitto, il quale però possiede una fisionomia propria all’interno della ripartizione in province di tutto l’Impero.
Sotto Traiano (98-117), l’Impero giunse alla sua massima estensione con l’annessione della Dacia (Romania), dell’Armenia Maior e dell’Arabia (Giordania) giungendo a sottomettere l’Assiria e parte della Mesopotamia sino alle sponde del Golfo Persico.
Nella prima metà del sec. I, il territorio imperiale comprende tre elementi distinti: i protettorati, l’Egitto, e le province.
Protettorati: sono stati vassalli; regni/nazioni che hanno conservato l’insieme delle loro istituzioni tradizionali. Il protettorato rappresenta un regime di transizione che verrà ad essere assorbito nell’ordinamento provinciale dell’Impero. In questo periodo di tempo è assai diffuso nella parte orientale. I protettorati di Galazia, Paphlagonia (regione tra la Galazia ed il Ponto), Giudea, Cappadocia, Ponto e lo stato Nabateo diventeranno province romane rispettivamente nel 25 a. C., nel 5 a. C., 6 d. C., nel 18, nel 63 e nel 106.
Egitto: è proprietà personale dell’Imperatore che lo “eredita” immediatamente dai Tolomei divenendone il faraone e, alla stregua di quelli, gli è riconosciuto un culto divino. Il prefetto, sempre di estrazione equestre, che governa l’Egitto e che rappresenta in questo paese l’Imperatore e faraone, ha il titolo di viceré.
Province: secondo l’assetto dato all’Impero nel 14 d. C., esso era diviso in province senatorie e province imperiali.
Province senatorie: sono quelle controllate dal Senato, il quale le governava mediante la designazione di proconsoli (ex-consoli o ex-pretori) di censo senatorio, assistiti da un questore per le vicissitudini finanziarie. Non hanno bisogno di difesa militare in quanto già da tempo pacificate. Pertanto hanno un’amministrazione civile. Nel 27 a. C. esse sono dieci: Betica, Sardegna (divenuta imperiale nel 6 d. C.), Sicilia, Illirico (divenuta imperiale nell’11 a. C.), Macedonia, Acaia, Asia, Bitinia (divenuta imperiale sotto Traiano), Creta, Cirenaica, Africa (divenuta imperiale nel 37 d. C.). Con l’avvento del principato, quando la situazione lo richiedeva l’Imperatore poteva ovviamente intervenire nel governo di queste province con la designazione di procuratori (provenienti dal rango dei cavalieri).
Province imperiali: sono quelle sottoposte ad una amministrazione militare. Pertanto il governatore di una provincia imperiale è nominato personalmente dall’Imperatore. È sempre un generale di legione, di solito appartenente all’ordine senatorio, col titolo di “legato” ed assistito dai procuratori (cavalieri). Esse sono: la Siria (che comprendeva la Fenicia e la Cilicia orientale), la Galazia-Licaonia, la Gallia, la Germania, tutte le regioni illiriche (Pannonia, Dalmazia, Mesia), la Cappadocia, la Cilicia, la Licia, la Giudea e, come già sopra detto, l’Egitto.
Ci sono poi le procure o province minori, le quali, per caratteristiche proprie (poco romanizzate, molto lontane e con particolari difficoltà di governo), sono dirette da un prefetto o da un procuratore, cioè da un governatore di nomina imperiale appartenente all’ordine equestre.
Le religioni
Importante è delineare anche il contesto religioso pagano caratterizzante i sec. I e II. Possiamo innanzitutto dire che la religione ufficiale, rappresentata dal pantheon greco-romano tradizionale, dal I sec a. C. entrerà profondamente in crisi da cui non si solleverà più.
Forse è questa la causa principale della degenerazione dei costumi così tanto denunciata dall’apostolo Paolo in Rm 1,24-32 e che trova sostanziale conferma nel biasimo degli scrittori del tempo come Tacito e Seneca ed altri come Musonio Rufo. Si diffondono nell’Impero anche altre religioni provenienti dai popoli conquistati dando origine ad un diffuso sincretismo religioso.
La religione tradizionale greca è ancora molto radicata nel sec. I. Una manifestazione della pietà greca ci viene fornita dagli Atti degli Apostoli in 19, 23-35, dove un certo Demetrio, fabbricante di tempietti di Artemide efesina (per i romani Diana) percepisce come una vera minaccia, sia economica sia cultuale, la predicazione di Paolo ad Efeso.
Per i greci gli dèi sono la personificazione delle forze naturali e delle grandi realtà misteriose che determinano la vita dell’uomo. Pertanto l’uomo ha bisogno dell’aiuto di queste divinità per far fronte alle vicissitudini della propria esistenza.
Gli dèi principali della religione greca sono: Zeus (o Padre degli dèi e degli uomini), Poseidone (dio del terremoto e dell’acqua e anche del mare), Atena (protettrice per antonomasia di Atene e della Grecia,), Afrodite (dea dell’amore, della bellezza e della fertilità femminile), Apollo (il più greco di tutti gli dèi), Ares (dio della guerra), Dioniso (dio delle forze vitali, della fertilità maschile, della vegetazione, del vino), Hermes (dio dei mercanti e dei ladri, dell’eleoquenza e della comprensione degli scritti, protettore dei messaggeri; lui stesso è inviato quale messaggero dagli dèi maggiori), Artemide (dea della caccia e delle foreste), Asclepio (dio della medicina).
La religione tradizionale romana venera in sostanza quelle stesse divinità che appartengono al pantheon greco, ma con nomi diversi.
Alla base di questa corrispondenza della religione romana con quella greca sta l’interpretatio romana attuata dai romani stessi e che consisteva nella letterale traduzione in latino del nome di una divinità straniera o l’identificazione della stessa con una appartenente alla propria religione. Si tratta di un’applicazione particolare del concetto antico che tutti i popoli adorano le stesse divinità. Così per i romani Atena è identificata con Minerva, Zeus con Giove, Poseidone con Nettuno, Ares con Marte, Afrodite con Venere, Hermes con Mercurio, Asclepio con Esculapio, Artemide con Diana.
Se non si riusciva di trovare una traduzione in latino degna del nome del dio importato ed equivalente ad una divinità romana, si manteneva il nome originario anche a Roma; p. es. Apollo, Iside, Mitra ecc.
Oltre a queste divinità maggiori che caratterizzavano il culto pubblico, i romani coltivavano anche il culto domestico – già sopra segnalato – dei Penati (signori delle dispense), dei Lari (protettori della famiglia) e del Genio del capofamiglia.
Causa le tendenze “illuministiche” e la concorrenza determinata dal progressivo infiltrarsi in Italia dei culti stranieri, dal tempo di Augusto la religione romana va incontro ad una inarrestabile crisi. Augusto, in veste di pontefice massimo, da parte sua tenterà di arginare la decadenza della religione ufficiale disponendo la ricostruzione e il restauro dei templi e riportando in onore le cariche sacerdotali e le feste dell’epoca repubblicana.
Le tendenze “illuministiche” hanno origine da quella corrente di pensiero che prenderà il nome di “evemerismo” e che ha il suo antico iniziatore appunto in Evemero di Messene (Messina di Sicilia? o Messene del Peloponneso?) vissuto fra il 340 e il 260 a. C. Egli si rese diffusore di alcune tesi che ammettevano che gli dèi non fossero altro che grandi personaggi del passato deificati dai posteri.
La demitizzazione dell’Olimpo greco influì molto anche nel mondo religioso romano comportando nelle classi più acculturate una forma di ateismo teorico, che tuttavia non impediva ai suoi sostenitori di assistere ai riti religiosi, considerati d’altronde necessari per ragioni politiche.
È importante precisare un altro aspetto della religiosità romana dei secoli I e II: è una religiosità che ha perso la sua autorità sulle anime. Essa si era ridotta al suo mero aspetto estetico-formale perdendo la sua valenza esistenziale (1). (1 Sarebbe utile leggere quanto scrive J. CARCOPINO, Vita quotidiana a Roma, Bari, Laterza, 19905, 143-50.) a proposito della decadenza della religione tradizionale.)
I culti misterici. Come effetto della tolleranza politica romana in materia di religione, si ebbe una forte espansione dei culti misterici provenienti dall’Oriente. Per quanto potessero apparire strani, essi erano del tutto accettati a patto che non disturbassero l’ordine pubblico e si armonizzassero con l’insieme delle vedute politeistiche.
Comune a tutti questi culti era l’iniziazione ai riti segreti dei seguaci, disponendo gli stessi ad una elevazione dell’anima dalle cose terrene e la beatitudine eterna. La realizzazione di una tale aspirazione si attuava attraverso un rito simbolico altamente coinvolgente che consisteva nell’immersione nella notte della morte e la sperimentazione dello spavento infernale. Dopo questa iniziazione – che comportava nel discepolo una forte compartecipazione emotiva -, l’anima dell’iniziato veniva divinizzata e partecipava delle promesse proprie della divinità.
Il successo dei culti misterici presso gli abitanti dell’Impero – e in maniera particolare presso i romani – è da collegarsi al fatto che tutti questi culti (le cui divinità, lungi dall’essere impassibili, soffrono, muoiono e risuscitano) riconoscendo l’inevitabilità della morte, diffondevano la speranza di una continuazione beata della vita. Il loro successo a Roma va di pari passo con la decadenza della religione tradizionale. E come afferma bene il Carcopino (2) (2: CARCOPINO, Vita quotidiana, 150).
«La fede romana aveva cambiato direzione ed oggetto: s’era staccata dal politeismo ufficiale e si era rifugiata nelle “cappelle” formate in quest’epoca dalle sètte filosofiche, e nelle confraternite in cui si celebravano i misteri degli dèi orientali. Là finalmente i fedeli ricevevano una risposta ai loro interrogativi e trovavano una tregua alle loro inquietudini: trovavano al tempo stesso una spiegazione del mondo, delle regole di condotta, la liberazione dal male e dalla morte. Al punto che nel II secolo d. C. assistiamo a questo paradosso: che Roma comincia ad avere una vita religiosa, nel senso in cui l’intendiamo noi oggi, nel momento in cui la religione di Stato cessa di vivere nelle coscienze».
I principali culti misterici sono: i misteri eleusini (di origine greca), Iside e Osiride (di origine egizia, sotto i Tolomei Osiride riceverà il nome di Serapide), Cibele o della Magna Mater (di origine anatolica che dietro consultazione dei Libri Sibillini fece la sua entrata ufficiale a Roma nel 205-204 a. C., da lì a qualche anno sul Palatino le verrà dedicato un tempio) e Attis (che nel mito era il consorte di Cibele, il suo culto entrò in Roma sotto il principato di Claudio) e di Mitra (connesso con il culto al Sole invitto).
* * *
Arrivati a questo punto si possono già trarre alcune importanti considerazioni.
Accanto a tanti aspetti negativi propri del mondo pagano dei secoli I e II, si rilevano alcuni risvolti positivi ed alcune circostanze favorevoli alla diffusione del cristianesimo nell’Impero romano. Quest’ultime possono essere riscontrate nella sopra menzionata evoluzione della religione e poi della filosofia (lo stoicismo che ammetteva l’immanenza di Dio nell’uomo).
Dal punto di vista della religione, i culti misterici orientali contenevano, accanto a molti aspetti biasimevoli, degli addentellati comuni con il cristianesimo.
I misteri, creduti e vissuti dai fedeli di questi culti, esaltavano potentemente la fantasia e il sentimento; parlavano di peccato e di colpa, di espiazione e di rinascita, d’immortalità e di una vita beata nell’oltretomba. Mediante riti misteriosi e agapi sacrali anelavano alla salvezza dell’anima a all’unione immediata colla divinità; i loro sacerdoti praticavano persino una specie di istruzione religiosa e di direzione delle anime verso la salvezza.
Inoltre, già da tempo il mondo pagano manifesta l’idea di un rinnovamento universale: l’attesa di un re salvatore che dona al mondo la pace. Basterebbe la lettura della quarta egloga di Virgilio per riconoscere l’avvento di tempi nuovi, i quali se da una parte furono identificati con l’ascesa di Augusto e dei quasi cinquant’anni di pace che ne seguirono, dall’altra furono interpretati quale preparazione di un’era rinnovatrice (3). (3: PUBLIO VIRGILIO MARONE, Bucoliche, trad. in italiano di Luca Canali, Milano, BUR, 1978, 95s: «È giunta l’ultima età dell’oracolo cumano: / nasce di nuovo il grande ordine dei secoli. / Già torna la Vergine e torna il regno di Saturno, / Tu, casta Lucina, proteggi il bambino nascituro / con cui cesserà la generazione del ferro e in tutto il mondo / sorgerà quella dell’oro: già regna il tuo Apollo. / Sotto di te console comincerà la gloria di quest’era, / o Pollione, e incominceranno a trascorrere i grandi mesi. / Con te per guida, se resta traccia dei nostri delitti, / sarà vanificata e scioglierà dal continuo timore la terra. / Egli riceverà la vita degli Dèi e vedrà gli eroi / misti agli Dèi, e lui stesso apparirà ad essi / e reggerà il mondo pacato dalle virtù del padre. / Per te, o fanciullo, la terra senza che nessuno la coltivi, / effonderà i primi piccoli doni, l’edera errante / qua e là con l’elìcriso e la colocasia con il gaio acanto. / Le capre da sole riporteranno gli uberi colmi / di latte, e gli armenti non temeranno i grandi leoni. / La stessa culla spargerà per te soavi fiori. / Svanirà anche il serpente, svanirà l’erba insidiosa di veleno, / e dovunque nascerà l’amomo di Assiria. …».)
Anche la filosofia sensibilizzava le menti dei pagani illuminati, dalla ricerca onesta della verità, ad avvicinarsi al cristianesimo.
In questo ambito un ruolo fondamentale lo svolsero gli stoici. Essi credevano nell’esistenza di un Logos, che pervade tutte le cose, mediatore fra Dio e il mondo, che sparge ovunque i “semi” del vero. L’afflato mistico degli stoici ebbe ripercussioni notevoli nella filosofia pagana e cristiana (Giustino e gli Apologisti in genere).
Di fatto, l’etica del neostoicismo di Seneca, di Musonio, di Epitteto e dell’imperatore Marco Aurelio, concorda in taluni punti con la morale cristiana, p. es., là dove riconosce una legge morale divina e una provvidenza che governa, dove parla dell’uguaglianza e della solidarietà fra tutti gli uomini ed esige mortificazione e lotta contro la carne, e dove vuole amore universale del prossimo, anzi persino amore dei nemici.
Di fronte a tali nobili manifestazioni del mondo pagano, i pensatori cristiani del II e III secolo ravvisano nell’ellenismo il battistrada e il preludio del cristianesimo. Clemente di Alessandria chiama la filosofia «dono dato ai greci da Dio» (Stromata, I, 2, 20) e se ne esce con la famosa sentenza: «la filosofia educò il mondo greco come la legge educò gli Ebrei (Gal. 3, 24) indirizzandoli verso il Cristo» (Stromata, I, 5, 28).
È certo peraltro che la preparazione più significativa e più diretta del mondo pagano al cristianesimo venne dal contatto che esso ebbe col giudaismo della diaspora e con il suo monoteismo.
Dal punto di vista politico-culturale ci furono una serie di circostanze favorevoli, la principale fu l’unificazione politica del mondo culturale antico nell’Impero Romano e la forte diffusione dell’ellenismo anche in Occidente. Col fatto che i paesi situati ai margini del Mediterraneo, dalla Siria alla Spagna, dal Nilo al Danubio, fossero incorporati in un unico grande organismo statale, venivano a crollare le barriere divisorie che c’erano tra molti popoli prima nemici fra di loro.
Il medesimo ordinamento giuridico e amministrativo, che vigeva per tutti, l’ampia diffusione della lingua ellenistica e della cultura crearono una certa unità nelle condizioni di vita e nel campo del pensiero. Al riguardo basti pensare alla rete stradale costruita dai romani e che percorreva tutto l’Impero facilitando non solo lo spostamento delle legioni, ma anche il commercio, rendendolo più intenso e sicuro e con esso il rapido scambio di beni e di idee.
Quindi, molti cristiani riconobbero all’Impero Romano una missione storica universale di praeparatio evangelica.
Il vescovo Melitone di Sardi richiamava nel 175 l’attenzione sul fatto che il cristianesimo e l’Impero erano apparsi nel mondo quasi nello stesso tempo e si erano sviluppati l’uno accanto all’altro, perciò evidentemente erano stati dalla provvidenza ordinati l’uno per l’altro (4). (4: EUSEBIO DI CESAREA, Storia della Chiesa, lib. IV, c. 26.)
E Origene scriveva nel suo Contra Celsum (II, 30): «Dio preparò i popoli e fece in modo che l’Imperatore romano dominasse il mondo intero … perché l’esistenza di molti regni sarebbe stata di ostacolo alla propagazione della dottrina di Dio sulla terra». Era la «pienezza dei tempi» (Gal. 4,4; Ef. 1,10).
(Fine seconda parte)