Battistero degli Ariani
LE CONTROVERSIE TEOLOGICHE PRE-NICENE, MONARCHIANESIMO, ADOZIONISMO, MODALISMO
Monarchianesimo.
La questione di fondo: come la fede nella divinità del Cristo Figlio di Dio potesse conciliarsi con la certezza dell’unità del Dio unico.
Gli apologisti risposero elaborando la teologia del Lògos: il Lògos in origine è la ragione stessa del Padre che tutto regola e ordina (influsso della filosofia stoica), ma in vista della creazione sarebbe stato emesso o generato dall’ interno del Padre in modo da costituire una persona ipostaticamente distinta dalla persona di Dio Padre. Tale concezione subordinava il Figlio al Padre in quanto ammetteva non una piena eternità della sua sussistenza personale, presentando la sua generazione non ab eterno ma come un atto temporale e libero da parte del Padre.
La posizione degli apologisti non intaccò però il patrimonio della fede. Il pericolo si originò qualora si dovette insistere troppo sull’unità di Dio. Alcuni incominciarono a vedere in Gesù il Padre stesso, attribuendo ad un’unica persona divina modi diversi di rivelarsi. Di conseguenza veniva ad essere sacrificata la divinità del Figlio e la sua distinzione personale dal Padre. I sostenitori di questa eresia presero il nome di monarchiani: «Monarchiam tenemus». La lotta contro questi fu sostenuta principalmente dalla Chiesa di Roma.
I monarchiani si dividono in due categorie, a seconda del loro modo di presentare la monarchia assoluta di Dio: monarchiani dinamici o ebioniti o adozionisti e monarchiani modalisti o patripassiani.
I monarchiani dinamici emergono, in un primo momento, prevalentemente in ambito giudeo-cristiano (basti pensare agli ebioniti). Nella seconda metà del III secolo, l’esponente più illustre fu Paolo di Samosata († ca. 275), l’odierna Samsat, a nord di Edessa, viceré e cortigiano della regina di Palmira, Zenobia, e contemporaneamente vescovo di Antiochia.
Egli vedeva Gesù come un puro uomo, nato dalla Vergine Maria. In lui avrebbe dimorato “come in un tempio” il Lògos impersonale di Dio, cioè la sua sapienza, che ugualmente aveva operato, ma in maniera minore, anche nei profeti. L’unione del Redentore con il Padre è intesa non come un’unione di natura ma solo come un’unione di volontà, quindi un’unione morale. Fu condannato da un concilio regionale che si riunì ad Antiochia nel 268 e convinto di eresia dal presbitero Malchione.
Suo discepolo fu Luciano di Antiochia (†312) il quale è il fondatore della Scuola esegetica di Antiochia. Questi parlava del Lògos in senso strettamente subordinazionistico. Alla scuola di Luciano si formò il presbitero alessandrino Ario (†336), che tanto influsso ebbe in seguito.
Tra i monarchiani modalisti-patripassiani possiamo annoverare: Noeto di Smirne (condannato da un sinodo asiatico nel 190). Egli insegnava che, «se Cristo è Dio – come ammetteva la fede cristiana – allora deve essere identico al Padre, altrimenti non potrebbe essere Dio». Ne deriva che se Cristo ha sofferto, anche il Padre ha sofferto, perché nella Divinità non può esservi alcuna divisione.
Le basi scritturistiche dei suoi seguaci erano, ad esempio Es. 3,6 e 20,3 e Is. 44,6 che rivelano l’unità di Dio, Is. 45,14ss e Bar. 3,36-38, che suggeriscono l’idea del Dio unico presente in Gesù Cristo, Giov. 10,30 e 14,8-10 e Rm. 9,5 che sembravano alludere all’identità del Padre e del Figlio.
Di conseguenza il patripassianesimo – cioè l’idea che fu il Padre a soffrire e a subire le altre esperienze umane di Cristo – era un corollario all’impostazione monarchiana modalista che Noeto aveva dato alla sua teologia e forse, sotto questo punto di vista, era accettato abbastanza volentieri(1). (1: Cfr. J.N.D. KELLY, Il pensiero cristiano delle origini, Bologna 1984, 150. )
Discepoli di Noeto furono Epigono (che introdusse la dottrina del suo maestro a Roma al tempo del pontificato di Zeffirino, 198-217) e Prassea (personaggio oscuro che introdusse la dottrina di Noeto prima a Roma e poi a Cartagine dove si trovò osteggiato da Tertulliano tanto che lo costrinse a ritrattare).
Discepolo di Epigono fu Sabellio. Quest’ultimo perfezionò le concezioni modaliste dei suoi maestri conferendo a tale dottrina una forma più sistematica e filosofica. Giunto a Roma verso la fine del pontificato di Zefirino, trovò in Ippolito il suo acerrimo avversario. Assecondato inizialmente da Callisto (217-222), fu alla fine da questi scomunicato. In sintesi, egli prendendo spunto dall’analogia del sole (un solo oggetto che irradia sia la luce che il calore), strutturò il suo sistema sostenendo che «l’unica Divinità, considerata come creatore e legislatore, era il Padre; per compiere la redenzione Dio si proiettò come un raggio di sole e poi si ritirò (il Figlio); in seguito Dio stesso agì come spirito per infondere e per donare la grazia (lo Spirito Santo)»(2). (2:Cfr. KELLY, Il pensiero cristiano, 152.)
SCHEMA CRISTOLOGIE
ADOZIONISMO
(= monarchianismo dinamico)
DIO [Padre]
Enoteismo assoluto
Gesù di Nazareh
(adozione – battesimo di Gesù)
? – Gesù Cristo Dio
– Rivelazione insuperabile?
– Salvezza garantita?
Punto di partenza cristologico:
battesimo /risurrezione
Sostenitori: Teodoto il Cuoiaio, todoto il Banchiere, Artemone, Paolo di Samosata (forse)
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MODALISMO
(= monarchianesimo modalista)
DIO
Enoteismo assoluto “modi” dell’unico Dio
(consubstantialis)
- a) – Dio Padre
Creazione
- b) – Dio Figlio
(Gesù di Nazareth)
Redenzione?
dissoluzione dell’uomo? collegamento?
- c) – Dio Sp. S.
c – Santificazione
? – Rapporto Dio-uomo in Gesù Cristo?
– Valore salvifico della crocifissione?
Punto di partenza cristologico:
incarnazione
Sostenitori: Noeto, Prassea, Sabellio, patripassiani, ma anche Paolo di Samosata
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SUBORDINAZIONISMO
(= teologia o cristologia del logos)
DIO PADRE
(in cui è incluso il Logos)
prima della creazione
DIO FIGLIO
(= Logos preesistente)
GESÙ DI NAZARETH
(= Logos incarnato)
? – Rapporto Dio-Logos?
– Rapporto Logos-Gesù di Nazareth?
– Diteismo o monoteismo?
Punto di partenza cristologico: coeternità del Logos con il Padre.
Sostenitori: Giustino e gli Apologisti, Tetulliano, Clemente Alessandrino, Origene, Novaziano.
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LO GNOSTICISMO
I Codici Di Nag Hammâdi
Domandiamoci innanzitutto che cosa è lo gnosticismo.
Il Dizionario patristico e di antichità cristiane alla voce Gnosi – Gnosticismo così recita:
«Con gnosi in generale la moderna ricerca intende una particolare forma di conoscenza che ha per oggetto i misteri divini ed è riservata a un gruppo di eletti; in questa veste essa è rintracciabile in correnti religiose e filosofiche diverse e disseminate nel tempo e nello spazio. Da questa forma di gnosi va distinta, per modalità, oggetto, scopi, la gnosi dello gnosticismo, un movimento religioso sorto nel I sec. d. C., ma che noi conosciamo, attraverso un’ampia documentazione diretta [per esempio dai dodici codici – per un totale di 52 trattati – ritrovati nella biblioteca rinvenuta nei pressi di Nag Hammadi, l’antica Chenoboskion, nel medio Egitto] e indiretta [per esempio da quanto dei sistemi gnostici riferiscono gli eresiologi coevi], soprattutto nel suo periodo di fioritura nel corso del II sec. d. C.
La gnosi dello gnosticismo è una forma di conoscenza religiosa che ha per oggetto la vera realtà spirituale dell’uomo, trasmessa da un rivelatore-salvatore e garantita da una particolare tradizione esoterica, essa è in grado di per sé di salvare chi la riceve, in genere la didaskalia o istruzione gnostica, con cui l’adepto viene iniziato, si fonda sulla trasmissione di un racconto mitico, che ha lo scopo di rispondere agli interrogativi esistenziali propri di ogni gnostico: «chi siamo, che cosa siamo diventati; dove siamo, dove siamo stati precipitati; dove tendiamo, donde siamo purificati; che cosa è la generazione, che cosa è la rigenerazione» [come riferisce Clemente di Alessandria estraendo queste affermazioni contenute negli scritti di Teodoto].
Le origini storiche di questo complesso movimento costituiscono a tutt’oggi un problema irrisolto. Le radici psicologiche e le motivazioni religiose vanno invece con tutta probabilità ricercate in una situazione di angoscia esistenziale (la paura dell’uomo di fronte al dilemma della morte!) – tipica di molti autori e correnti, pagane come cristiane, dei primi due secoli d. C., ma che nello gnosticismo pare raggiungere particolare intensità, fino a dar luogo ad una originale risposta religiosa che scaturisce da un sentimento di estraneità, di alienazione nei confronti del cosmo. Per lo gnostico, gli inferi non si trovano più al di sotto o ai margini del mondo, hanno invaso il mondo, sono il mondo. Lo gnostico, in quanto possessore dell’elemento spirituale, pneumatico, rifiuta e condanna totalmente questo mondo con i suoi signori che lo tengono prigioniero (anticosmismo), perché si sa ad esso straniero: la sua patria è il pleroma o il mondo della pienezza divina (acosmismo)».
Dal punto di vista delle origini storiche, mi limito a dire che lo gnosticismo come tale rappresenta un fenomeno di evoluzione sincretistica della gnosi giudaica e giudeo-cristiana.
Si formarono dei raggruppamenti settari separati, ma che conservavano in comune con il giudaismo post-biblico lineamenti fondamentali della tarda apocalittica e l’osservanza della Legge. In questo contesto non sembra strano che tali gruppi assumessero anche alcuni contenuti cristiani. Ciò comportò la loro ulteriore caratterizzazione sia nei confronti del giudeo-cristianesimo ufficiale. Pertanto essi si distinguevano da quest’ultimo per la loro dottrina cristologica e per l’osservanza della Legge mosaica.
Sembra che l’origine di questi gruppi sia da ricollegarsi allo scisma originatosi tra i giudeo-cristiani moderati e tra coloro che tendessero ad imporre l’osservanza della Legge come necessaria alla salvezza. Ad un tale distacco si giunse probabilmente poco dopo la morte di Giacomo il fratello del Signore, quando il gruppo giudaizzante estremista cercò d’imporre il proprio candidato Thebutis contro Simeone, il successore di Giacomo regolarmente eletto. La trasmigrazione dei giudeo-cristiani ortodossi nel territorio del Giordano (a Pella) e il loro conseguente sparpagliamento anche nella Celesiria (Coelesyria cioè la Siria Concava: l’attuale vale del La Bekaa che si trova tra Libano e Siria), ciò che comportò il loro indebolimento rendendoli più esposti agl’influssi del settarismo giudaico.
Si è dell’idea che tale ambiente giudaico eterodosso sia il terreno originale da cui si è poi sviluppato lo gnosticismo propriamente detto.
I passaggi di questo sviluppo sarebbero i seguenti: l’allontanamento da parte della Chiesa da parte di Simone il Mago (= Simone il Samaritano cfr. At 8,1-10.18-25), il quale fonda un proprio gruppo, i Simonianinon ancora del tutto gnostici, dai quali poi si svilupperà lo gnosticismo attraverso la formazione di molteplici gruppi settari che si formarono nella seconda metà del I sec., soprattutto dopo la caduta di Gerusalemme. (3),
(3: I punti salienti della dottrina simoniana sono: Simone era considerato come il sommo Dio ed Elena, una prostituta che aveva riscattata da un bordello di Tiro, ne era il Pensiero (Ennoia) scaturito dalla sua mente. Elena aveva creato le potenze intermedie (angeli ed arcangeli) che a loro volta avevano creato il mondo. Invidiose e gelose, queste avevano poi rinchiuso Elena in un corpo umano costringendola a trasmigrare da un corpo all‟altro. Simone, per liberare Elena e tutti gli uomini dal potere delle potenze intermedie, discese sulla terra dandosi a conoscere, come Figlio in Giudea, come Padre in Samaria e come Spirito santo nelle altre regioni. La salvezza si consegue mediante la fede nel potere liberatorio di Simone. – Desunto da voce Simone Mago – Simoniani, in Dizionario patristico e di antichità cristiane, II, col. 3209.)
Ma prima di passare a trattare propriamente dello gnosticismo mi soffermo brevemente a delineare per sommi capi la dottrina cristologica di alcuni gruppi eterodossi
Ebioniti. Il termine viene dalla parola ebraica ebion (= povero) e si riferisce a diverse sette giudeo-cristiane del II sec. dalle caratteristiche comuni. Esse considerano Gesù solo un semplice uomo, sebbene lo riconoscano come il Cristo, non accoglievano le lettere di Paolo e seguivano usi e costumi giudaici. Gli elementi gnostici del loro credo si ravvisano in un certo esoterismo (metempsicosi?) e nel condividere la concezione esseniana dell’opposizione tra i due principi del bene e del male.
Cerentiani. Sono i seguaci di Cerinto.
La sua dottrina cristologica è impastata di adozionismo, (4)
(4: Di per sé la concezione adozionista di Cerinto è ancora molto imperfetta. L’adozionismo appare nel suo più completo sviluppo alla fine del II sec. Esso si ricollegava alla concezione monarchiana. Pertanto gli adozionisti facevano di Cristo un mero uomo, adottato a Figlio di Dio per i suoi meriti. Tale dottrina si perfezionò appunto con Teodoto di Bisanzio detto il Cuoiaio. Egli diffuse questa dottrina a Roma sul finire del II secolo. Egli affermava che Gesù era stato un uomo nato dalla Vergine per volere del Padre e aveva vissuto come gli altri uomini, in modo più pio, si che al battesimo nel Giordano era discesa su di lui la colomba a significare lo spirito divino di cui era stato dotato, indicato con il nome superiore di Cristo. Solo a partire da questo momento Gesù Cristo cominciò a operare prodigi. Comunque alcuni adozionisti collocavano in questo momento la deificazione di Gesù, altri dopo la risurrezione.) cioè che il Cristo discese su Gesù in forma di colomba al momento del battesimo, rivelandogli il Padre sconosciuto e che prima della sua passione fu assunto dal Padre (docetismo?). (5)
(5: Con il termine docetismo, si intendono i diversi tentativi di spiegare in modo dualistico-spiritualistico l’incarnazione e la passione di Cristo, escludendone tutto ciò che sembra essere indegno del Figlio di Dio, uomo nato da una vergine e senza peccato. Non si tratta, invece, di una setta determinata, come potrebbero suggerire certi testi eresiologici, ma piuttosto della tendenza a sottovalutare la realtà storica dell’opera salvifica di Dio, comprensibile anzitutto in contesti platonici, nei quali si opponevano le realtà vere del mondo intelligibile a quelle apparenti del mondo sensibile. Comunque, esiste una grande varietà fra i cosiddetti doceti. Quelli, dei quali parla Ignazio (Smyrn. 1-3; Trall. 9s), trascuravano la vera umanità di Gesù, base della salvezza. Marcione, per escludere ogni legame fra il demiurgo ed il salvatore, ammetteva una carne «celeste». Apelle, per motivi simili, immaginava un corpo simile a quello che gli angeli avevano preso per le apparizioni. Nel senso stretto solo i valentiniani sono da considerare come doceti. Secondo costoro il Salvatore ha assunto solo quello che era da salvare quindi nessuna sostanza corporale. Benché il docetismo nel senso spiegato sia stato specialmente caratteristico per le eresie combattute da Tertulliano e da Ippolito (Ref. 8), la tentazione di minimizzare il valore salvifico dell’incarnazione, comprese le debolezze interiori dell’uomo Gesù, non sarà mai assente dalla teologia cristiana, per non parlare del rischio di conclusioni pratiche esagerate per la vita cristiana (sottovalutazione dei valori corporali della sessualità, del matrimonio). Desunto da voce Docetismo, in Dizionario patristico e di antichità cristiane, I, 1001).
Inoltre insegnava che il mondo non fu creato da Dio, ma da una potenza inferiore, da un demiurgo che ignora il vero Dio. In quest’ultimo aspetto Cerinto è propriamente gnostico.)
Più propriamente gnostici e fondatori di sette sono da considerarsi: Menadro, Saturnilo, Carpocrate, Basilide e Valentino.
Menadro rappresenta il punto di contatto con Simon Mago e lo gnosticismo come tale. Egli introduce lo gnosticismo in Antiochia. Suo discepolo e continuatore del suo apostolato in Siria sarà Satornilo.
Carpocrate sembra essere invece colui, subito dopo Cerinto, che si sia reso autore della diffusione dello gnosticismo in Egitto (Alessandria).
In tutti questi possiamo riscontrare alcune concezioni comuni:
– tradizione segreta del loro insegnamento, fatta risalire a qualcuno degli apostoli;
– la scintilla di luce nell’io gnostico non andrà perduta;
– liberazione dai legami della materia mediante la conoscenza in maniera da ritornare al regno della luce e del vero Dio (rigido dualismo);
– speculazioni mitologiche riguardo la “caduta” e la “risalita”, tali speculazioni vengono ad essere arricchite da elementi attinti dalla filosofia, dalla religione e dall’astrologia contemporanee, accentuando il suo carattere sincretistico (sincretismo = fusione arbitraria di elementi mitologici, culturali e dottrinali di varie religioni, anche in forme incoerenti).
La reazione della grande Chiesa
Di fronte a tali tendenze disfattiste, la Chiesa si vide costretta a salvaguardare la rivelazione biblica nella sua integrità e ad assicurarne il carattere storico. Ci furono numerose confutazioni, delle quali non poche però andarono perdute.
Tuttavia un’opera come Contro le eresie di Ireneo di Lione, o la polemica di Tertulliano fanno vedere la direzione dell’argomentazione antignostica. Con l’insistere sulla tradizione apostolica (liste episcopali) e la determinazione del canone si fronteggiò la pretesa rivelazione degli gnostici. Di fronte ad una discrepante immagine dualistica di Dio, la quale comportava una valutazione negativa del mondo materiale, si dimostrò efficace la fede in un Dio creatore.
Nella disputa si mise l’accento sull’umanità di Cristo e sulla morte in croce come base della redenzione per combattere qualsiasi svuotamento del fatto salvifico. Senza dubbio la contesa con lo gnosticismo ha promosso lo sviluppo di una fede cosciente e plasmato sempre meglio l’aspetto della grande Chiesa. Con l’esclusione degli eretici la vera fede guadagnò visibilmente terreno, mentre non per ultimo la Chiesa romana si dimostrò essere un baluardo fortissimo contro lo gnosticismo.
La distruzione della letteratura degli eretici ha provocato infine la conseguenza che la conoscenza dello gnosticismo finora è rimasta incompleta.
Il montanismo(6)
(6: Tratto da La Nuova stroria della Chiesa, I, parte I, cap. VIII, n. 3.)
Marcione e Valentino rappresentavano contemporaneamente delle dottrine gnostiche e l’evoluzione di certe correnti ecclesiali: Marcione (†160) il paolinismo dell’Asia Minore settentrionale, Valentino (†165) il giudeo-cristianesimo egiziano. Questa relazione con le diversificazioni della Chiesa all’inizio del II secolo è ancora più evidente in Montano.
Montano è un frigio che, insieme a due donne, Massimilla e Priscilla, pretende di aver ricevuto il carisma della profezia. La data di inizio del suo movimento è stata controversa. Eusebio nella sua Historia Ecclesiastica, la fissa al 172, anche se da altri riscontri si è potuto teorizzare che tale anno si riferisce più all’apogeo del montanismo in Asia. Nel 177, il caso verrà sottoposto a Roma. I confessori di Lione intervengono in questa occasione presso Eleuterio. A quanto risulta, Massimilla muore nel 179. Tredici anni dopo (H.E., V, 16, 19), il movimento mette in fermento tutta l‟Asia e in particolare Ancira (H.E., V, 16, 4) ed Efeso (H.E., V, 18, 9).
Il montanismo è un’esplosione di profetismo. Una delle sue caratteristiche è prima di tutto l’importanza attribuita a visioni e rivelazioni. Le donne hanno in proposito una parte importante. Quanto al contenuto di queste rivelazioni, esso è essenzialmente escatologico. I tempi del Paracleto hanno avuto inizio con la venuta di Montano. La Gerusalemme nuova sta per divenire una realtà e il suo regno durerà mille anni. Bisogna vivere nella continenza per prepararvisi.
Apparso inizialmente in Frigia, il montanismo vi si diffuse molto rapidamente, ma vi incontrò vive opposizioni, in particolare da parte di Apollinare, vescovo di Gerapoli a partire dal 171 (H.E., V, 16, 1). Verso il 193-196, il movimento si è esteso ormai a tutta l’Asia, e questo fatto provoca nuove reazioni, da parte di Apollonio in particolare (H.E., V, 18, 1, 14).
Eusebio ci ha tramandato anche un frammento importante di un autore anonimo, indirizzato a Avircio Marcello, che è forse il vescovo di Gerapoli, successore di Apollinare, di cui è stato ritrovato l’epitaffio (H.E., V, 16, 2- 17, 5).
Il montanismo si diffonde anche altrove. Serapione di Antiochia lo combatte (H.E., V, 19, 1). Lo incontriamo a Roma sotto Eleuterio. Negli ambienti romani suscita violente opposizioni. Non si tratta soltanto di una forma di resistenza all’eresia, ma di un conflitto di tendenze, di un’opposizione allo spirito della Chiesa asiatica. A Roma appunto Tertulliano verrà in contatto con il montanismo e vi aderirà.
È stato proposto di vedere nel montanismo una reviviscenza, all’interno del cristianesimo, dell’entusiasmo dei culti frigi di Cibele e di Dioniso. Ma non è certamente in questo senso che ci si deve orientare. In realtà il montanismo si presenta come un’evoluzione dello spirito del cristianesimo asiatico.
È a Gerapoli infatti che all’inizio del secolo vivevano due figlie di Filippo (l’Apostolo? o il diacono? Non si sa!), che erano profetesse e vergini. Sempre a Gerapoli, Papia era stato vescovo e vi aveva insegnato il millenarismo. Nel II secolo, una donna di Filadelfia in Lidia, Ammiade, è considerata una profetessa (H.E., V, 17, 2-6). Il millenarismo appare una caratteristica generale della teologia frigia e asiatica. Era presente in Cerinto. Ireneo lo porterà in Gallia.
Il profetismo, l’esaltazione della verginità, sono comuni ai montanisti e a Melitone. Più precisamente ci troviamo di fronte a un’evoluzione esasperata del cristianesimo giovanneo. Rappresenta una derivazione dell’osservanza quartodecimana, basata sulla cronologia giovannea della Passione. Il termine di Paracleto per indicare lo Spirito Santo è asiatico e Montano l’ha attinto di certo dal Vangelo di Giovanni.
L’indicazione del millennio è contenuta nell’Apocalisse. La sete del martirio che caratterizza i montanisti rientra nello spirito dell’Apocalisse e si ricollega alla visione eroica del conflitto tra Roma, la città di Satana, e Gerusalemme. L’esaltazione della continenza si trova nell’Apocalisse e negli Atti di Giovanni apocrifi. A questo proposito è da notare che uno degli avversari romani del montanismo, il prete Gaio, respingerà in blocco il Vangelo di Giovanni e l’Apocalisse. Ma i confessori di Lione, che si riallacciano alla tradizione asiatica, si ispirano all’Apocalisse, senza essere montanisti.
Il montanismo non determina un problema di dottrina. Nessuno dei suoi accusatori vi vede un’eresia. Ma rappresentava la persistenza di tendenze arcaiche. Era il prodotto di comunità che vivevano troppo separate dal’insieme della Chiesa. E infine il profetismo sfociava in un entusiamo esaltante dal contorno irrazionale e pertanto condannabile. Massimilla aveva annunciato guerre e sconvolgimenti imminenti, che non si erano poi verificati. La violenza antiromana e la ricerca del martirio rappresentavano una pericolosa minaccia alla pace della Chiesa. Ma questi eccessi non devono far misconoscere tutto quel che il montanismo conservava in sé dello spirito asiatico della grande epoca di Papia e di Policarpo e che riuscì ad avvincere una personalità della statura di Tertulliano.
Letteratura cristiana
Sul finire del II° secolo si riscontrò nell’Oriente greco un notevole progresso della letteratura ecclesiastica. È in questo tempo che si sviluppa la scienza teologica, particolarmente attenta nell’esegesi scritturistica e nei tentativi di un’esposizione sistematica del pensiero cristiano. I più eminenti rappresentanti e iniziatori di tale processo speculativo furono Clemente di Alessandria e Origene, i quali mutuano dalla filosofia ellenistica preziosi apporti per poter giungere a tale scopo. Di per sé tale processo trova negli apologisti i lori primi iniziatori.
Le sedi principali di queste scuole teologiche sono Alessandria, Cesarea in Palestina e Antiochia. In Roma abbiamo Ippolito.
Alessandria. In questa città si costituì una fiorente scuola catechetica finalizzata ad introdurre al cristianesimo gli adulti. Molti dei frequentatori erano persone già erudite nelle scienze filosofiche. Và quindi da sé che detta scuola proponesse il suo iter formativo che dallo studio della filosofia giungesse allo studio della teologia. Essa era posta sotto la sorveglianza del vescovo alessandrino (a differenza della scuola di Giustino Roma). Il suo primo direttore fu Panteno di Sicilia (c.180-200 – autore della Lettera a Diogneto?), ex filosofo stoico. La scuola attinse il suo massimo sviluppo sotto i due rettori successivi a Panteno: Clemente di Alessandria e il suo discepolo Origene (per i quali rimandiamo al corso di patrologia).
La letteratura cristiana in Occidente è rappresentata da Ireneo di Lione e Ippolito Romano, sebbene vivessero rispettivamente in Gallia e a Roma, scrissero in greco.
Gli altri, Tertulliano, Cipriano e Novaziano, scrissero in latino.
In questa sede ci limiteremo a dare qualche indicazione saliente su Ireneo di Lione, Ippolito Romano, Minucio Felice e Novaziano, visto e considerato che la loro azione ebbe una diretta influenza sulla storia della Chiesa di Roma. Per quanto riguarda Tertulliano e Cipriano di Cartagine, rimandiamo al corso di patrologia.
Ireneo di Lione è il teologo più importante del II secolo.
Originario dell’Asia Minore, era stato da giovane discepolo di Policarpo di Smirne. Da questa città emigrò in Occidente, forse direttamente a Lione. Non si conoscono i motivi di questo suo passaggio. Si sa che gli asiatici erano numerosi sia a Roma che a Lione (soggiornò a Roma?). Solo dal 177 le sue notizie si fanno più sicure. Ordinato prete dal vescovo di Lione, Fotino, gli succede nella cattedra dopo il martirio di questi. È dubbio il suo martirio sotto Settimio Severo.
Svolse un ruolo di primo piano nella difesa della fede contro l’eresia gnostica. Intervenne anche presso papa Vittore (189-199) per la questione quartodecimana. In seguito alla propaganda in Roma del costume quartodecimano svolta dal presbitero asiatico Basto, Vittore aveva minacciato di scomunicare le chiese asiatiche, le quali celebravano la Pasqua secondo l’uso quartodecimano non attenendosi così alle consuetudini occidentali. Pertanto sembra che il vescovo di Roma accogliesse l’intercessione di Ireneo per la pace e l’unità della Chiesa.
Le sue opere: Adversus haereses e Demonstratio apostolicae predicationis (quest’ultima giunta a noi in armeno e scoperta solo nel 1904). Entrambe hanno un fine apologetico della fede e confutatorio dell’eresia. Sembra si allinei con le concezioni del chiliasmo.
Ippolito di Roma.
Originario della Grecia? Divenne prete sotto il pontificato di Zefirino (199-217). Uomo di vasta cultura, sembra sia stato discepolo di Ireneo (in che maniera? limitatamente alla lettura delle opere del vescovo di Lione?). A Zefirino succedette Callisto (217-222).
Ippolito subito entrò in contrasto con il neo eletto, sembra a causa dell’indulgenza adottata da Callisto nella disciplina penitenziale e matrimoniale. Si originò uno scisma interno alla comunità romana che vide Ippolito eleggersi antivescovo di Roma (il primo antipapa della storia). Lo scisma durò fino al 235, anno in cui egli si riconciliò con il nuovo vescovo di Roma, Ponziano (230-235). Con la persecuzione intrapresa dall’imperatore Massimino Trace, sia Ippolito sia Ponziano, furono entrambi arrestati. Morirono in Sardegna. Il vescovo Fabiano (235-250) fece trasportare i loro corpi a Roma.
Nel 1551 nel cimitero antico della via Tiburtina in località Castro Pretorio, venne scoperta una statua che da molti è considerata essere il ritratto marmoreo di Ippolito. Attualmente la statua si trova posizionata nell’atrio della Biblioteca Vaticana. Il simulacro riporta, nei lati della cattedra su cui è seduto il personaggio, in caratteri greci un ciclo pasquale e un catalogo delle opere di Ippolito anteriori al 224, anno in cui fu realizzato il monumento.
Le opere. Un Sintagma (elenco, riassunto) di trentadue eresie, andato perduto. I Philosophoumena (cioè un‟esposizione delle dottrine filosofiche greche), composta dopo il 222, e nominata anche Refutatio omnium haereseum. Venne scoperta nel 1851. La Demonstratio de Cristo ed anticristo conosciuta anche come l’Anticristo. Scritta verso il 200, essa vuole rispondere alla convinzione di molti cristiani che con l’avvento della persecuzione di Settimio Severo credevano che fosse venuta la fine del mondo e la venuta dell’anticristo. È la sola che pervenne a noi completa.
Trattati esegetici: a Daniele, al Cantico dei Cantici, sulle benedizioni di Isacco, di Giacobbe e di Mosè, la storia di Davide e di Golia, omelie sui Salmi. Inoltre qui ricordiamo La tradizione apostolica che è un testo di liturgia. Vi si riporta la consacrazione del vescovo a cui segue la celebrazione della messa pontificale con l’amministrazione del battesimo. Da quest’opera ne derivò quella intitolata Le Costituzioni apostoliche (opera compilatoria composta verso la fine del IV sec. e che raccoglie, ampliandole, molte delle opere anteriori per scopo ordinativo, per es. la Didaché, la stessa Traditio apostolica, svariati canoni conciliari ecc.; vi si sono riscontrate tracce di arianesimo anomeo).
Minucio Felice.
È praticamente un apologista. Della sua vita non si conosce quasi nulla. Solo s. Girolamo e Lattanzio di lui danno alcune notizie che d’altronde possono essere desunte dalla stessa opera di Minucio, il dialogo intitolato Octavius. Si sa che era un avvocato africano la cui patria d’origine sembra essere stata Cirta (l’attuale Costantine in Algeria) e che esercitò l’avvocatura in Roma. È un pagano convertito.
L’Octavius si struttura in forma di dialogo (s’ispira come modello ai dialoghi ciceroniani). I tre protagonisti sono tutti retori del foro romano: Marco (=Minucio Felice), il pagano Cecilio Natale e Ianuario Ottavio, cristiano.
Il dialogo avviene fondamentalmente tra Cecilio, nella parte dell’accusatore dei cristiani, e Ottavio (amico di Minucio a cui il dialogo è dedicato) nella parte della difesa; Marco svolgerà il ruolo di giudice. Alla fine Cecilio rinnegherà il paganesimo e si farà cristiano. L’Octavius è una risposta alle accuse dei pagani, forse elaborata per controbattere al celebre Frontone (maestro di Marco Aurelio) che in senato aveva pronunciato un forte discorso contro i cristiani.
Pertanto l’opera di Minucio è destinata in prima istanza ai pagani colti. In essa la dottrina specificatamente cristiana passa in secondo piano, poiché l’Octavius si mantiene costantemente sul livello delle accuse che i pagani rivolgono ai cristiani, confutandole. A tal fine attinge soprattutto ad argomenti filosofici dello stoicismo imperante con abbondante utilizzo dell’opera ciceroniana De natura deorum.
Novaziano.
Incerti il luogo e l’anno della sua nascita. Nato intorno al 200 (a Roma?). Contemporaneo di Cipriano, la sua figura venne alla ribalta della storia ecclesiastica perché nel 250 diede origine ad uno scisma facendosi nominare vescovo di una chiesa che da lui prese il nome.
Fabiano (vesc. di Roma, 236-250) gli impartì il battesimo durante una malattia molto grave, ciò avrebbe dovuto costituire un impedimento alla sua ordinazione. Tuttavia il papa lo ordinò presbitero contro il parere del clero romano.
Durante il periodo in cui la Chiesa romana fu diretta dal suo presbiterio, Novaziano ascese a grande autorità tanto da rispondere alle lettere di Cipriano a nome di tutti i presbiteri romani. L’elezione del nuovo vescovo, Cornelio, fu un colpo forse amaro alla sua illusione di poter essere eletto alla cattedra romana. Da qui cominciò la sua ostilità nei confronti di Cornelio, che egli accusò di lassismo nella disciplina penitenziale, tanto da giungere a staccarsi dalla Chiesa.
Questa chiesa fortemente rigorista si diffuse rapidamente, specialmente in oriente. Nel VII secolo si registrano ancora tracce della sua presenza. In Gallia il novazianesimo si propagò per opera del vescovo di Lione Marciano, il quale però fu combattuto dal vesc. di Autun, Reticio. Novaziano assurgerà alla cronaca per il suo estremo rigorismo in fatto di penitenza, tanto da negare il perdono e la riconciliazione ai lapsi.
La sua opera principale è il De Trinitate, la cui stesura precede lo scisma.
Breve conclusione.
Quale la differenza tra gli scrittori latini occidentali e gli autori greci alessandrini?
Questi ultimi si davano più allo studio dei problemi teologico speculativi – non bisogna dimenticare la loro sensibilità per la filosofia greca.
I latini invece erano più animati da uno spirito pragmatico e quindi miravano più alla formulazione di una teologia pratica: doveri del cristiano, la costituzione della Chiesa, il suo ordinamento ecc. – non bisogna infatti dimenticare che essi erano fondamentalmente di cultura romana o di estrazione giuridica, e conservavano, nel contempo, un atteggiamento freddo, se non anche negativo, nei riguardi della filosofia.
L’EPOCA DEI CONCILI ECUMENICI: NICEA – COSTANTINOPOLI – EFESO – CALCEDONIA (325-451)
In questo capitolo delineeremo le vicende che portarono alla convocazione dei primi quattro concili ecumenici. Ci limiteremo, inoltre, ad enunciare le problematiche teologico-cristologiche ad essi connesse. Diamo, quindi, per scontato la conoscenza approfondita di queste, essendo già state trattate nei corsi specifici.
IL CONCILIO DI NICEA
All’indomani della salita di Costantino al soglio imperiale d’Occidente e la sua evidente conversione al cristianesimo, gli si presentarono due questioni di importanza fondamentale per la vita della Chiesa – e quindi per l’ordine pubblico – tanto da provocare il suo intervento in materia ecclesiastica: l’eresia ariana e lo scisma donatista (7)
(7: Possiamo connotare il donatismo come una continuazione, in ambiente africano, della questione sul battesimo degli eretici. La controversia di fondo è la seguente: l’efficacia dei sacramenti dipende dalla dignità di colui che li amministra, oppure di per sé stessi essi sono efficaci? Gli africani, seguendo il pensiero di Tertulliano e Cipriano, sostenevano, contrariamente da Roma, la prima opinione. Ciò porterà alla genesi di un’ interminabile catena di tensioni che dividerà la Chiesa africana nel suo interno: il gruppo fanatico dei donatisti, da una parte, e i cattolici, dall’altra. Pertanto, la storia della cristianità africana sarà caratterizzata dal cronico confronto, sfociante spesso anche nella lotta cruenta, tra queste due chiese. La divisione scismatica tra donatisti e cattolici cesserà solo allorquando l’Islam avrà completamente polverizzato la cristianità africana).
L’arianesimo
Dobbiamo innanzitutto precisare che il presbitero alessandrino Ario († 336) è teologicamente figlio della scuola di Antiochia fondata da Luciano di Antiochia (che a sua volta era discepolo di Paolo di Samosata). L’insegnamento teologico di questa scuola era contrassegnato da una forte tendenza monarchiana che privilegiava l’unicità di Dio a scapito della deità del Figlio e quindi di Cristo, questi subordinato completamente al Padre.
Ario sosteneva che «il Figlio sarebbe stato creato dal nulla, che ci fu un tempo in cui egli non esisteva, che egli era capace di male e di virtù, in grado di apprendere, creatura e creato»(8). (8: SOZOMENO, Historia ecclesiastica, I, 15, 3.)
Quindi egli concepisce il Logos come «creato», la medesima parola adoperata per l’opera della creazione (cfr. Pr 8,22), e lo colloca nell’ambito delle creature nonostante la speciale distinzione di essere stato “generato prima di ogni creatura”; (πρωτογέννητος) (cfr. Col 1,15); per redimere gli uomini prese carne, più precisamente un corpo non animato così che tutte le impressioni del Gesù terreno riferite dalla Scrittura ricadessero sul Logos stesso. Solo in senso improprio perciò si può designare il Logos come Dio. Quindi Ario interpretava il Figlio di Dio in senso subordinazionista, cioè come appartenente ad una categoria di essere inferiore nella prospettiva della storia della salvezza.
In seguito a vicende che non stiamo qui a precisare, nel 319 Ario, causa questa sua dottrina, fu scomunicato dal patriarca alessandrino, Alessandro, e con lui tutti i suoi sostenitori, tra i quali c’erano anche due vescovi.
Costantino il Grande, dopo la sua definitiva vittoria su Licinio nel settembre 324, con sua sorpresa si vide di fronte una cristianità divisa anche in Oriente. Esortò le parti avverse a ricostituire l’unità. Ma non riscosse alcun successo.
Lo svolgimento del concilio
Dal fallimento dei tentativi di ristabilire la pace derivò ora il piano di chiarire per via sinodale le questioni religiose discusse.
L’iniziativa di un grande concilio partì evidentemente dal sovrano universale Costantino, il quale da una tale assemblea di vescovi si riprometteva la pace interna alla Chiesa e l’assistenza divina per l’Impero.
Costantino il Grande mediante lettere onorifiche invitò i vescovi di tutte le regioni a venire nel maggio del 325 a Nicea in Bitinia (9). (9: EUSEBIO DI CESAREA, Vita Costantini, III, 6, 1.)
Tra i portavoce della grande Chiesa emergeva Alessandro, che era venuto col suo diacono Atanasio, poi Eustazio di Antiochia e Marcello di Ancira.
Il gruppo di Ario puntava sul vescovo di corte Eusebio di Nicomedia; ad esso apparteneva pure Eusebio di Cesarea in Palestina.
Dell’Occidente erano presenti solo cinque vescovi con Osio di Cordova in testa; il vescovo di Roma era rappresentato dai due presbiteri Vito e Vincenzo. In tutto vennero al concilio di Nicea circa 300 partecipanti; la cifra sovente nominata di 318 sinodali è da intendersi simbolicamente in rispondenza al numero dei servi di Abramo (Gen 14,14). Come luogo di riunione l’imperatore mise a disposizione il suo palazzo sul mare.
La seduta inaugurale del 20 maggio 325, secondo la testimonianza di Eusebio ebbe luogo alla presenza di Costantino. Appunto per la funzione che vi ha avuto il sovrano, il concilio di Nicea spicca sui sinodi regionali del tempo precedente; lo si è perciò paragonato al consilium principis, quell’organo consultivo che i sovrani più volte radunavano per avere un aiuto in caso di importanti decisioni. Sicuramente è da supporre qui l’influsso della procedura statale – in campo religioso d’altronde esercitava la funzione consultiva il collegio dei pontifices –, tuttavia il sinodo di Nicea sviluppò un’autonomia che superò la funzione consultiva e decise per autorità propria. Ciò non tolse che l’imperatore Costantino abbia assunto la presidenza e anche sia intervenuto nelle trattative.
La discussione teologica, la quale già prima dell’apertura del sinodo era giunta fino all’imperatore, si accese intorno ad una formula di fede che, presentata dalla parte ariana, aveva provocato però una decisa opposizione. Con energia la maggioranza insistette sulla piena essenza divina di Cristo, necessaria per assicurare la redenzione dell’uomo. Eusebio di Cesarea fece allora la proposta mediatrice di riconoscere il simbolo battesimale della sua comunità; esso formulava la fede «nell’unico Signore Gesù Cristo, la Parola di Dio, Dio da Dio, luce da luce, vita da vita, unico Figlio, nato prima di tutte le creature, generato dal Padre prima di tutti i tempi, per mezzo del quale tutto è stato creato…» (10). (10: EUSEBIO DI CESAREA, Epistola ad Caes. 4.)
Né l’imperatore né l’assemblea ebbero qualcosa in contrario, solo alcune affermazioni equivoche avrebbero avuto bisogno di integrazione. Si suppone che una delle aggiunte essenziali risalga allo stesso Costantino o più precisamente al suo consigliere Osio di Cordova, cioè il concetto di (όμοούσιος) (della medesima essenza), la cui adozione avrebbe procurato dopo il concilio non poche gravi difficoltà.
La tendenza finale della formula di fede è di questo tenore:
«Coloro che dicono: “C’era un tempo in cui egli non esisteva”, e “Prima di essere nato non c’era”, e “Egli è stato creato dal nulla”, oppure che ritengono che il Figlio di Dio sia di un‟altra sostanza (ύποστασεως) o di un’altra essenza (ούσἰας), oppure che sia Creato o soggetto al mutamento o rispettivamente alla trasformazione: sopra costoro la Chiesa Cattolica e apostolica pronuncia l’anatema»(11). (11: Simbolo Niceno, in Conciliorum Oecumenicorum Decreta, 5.)
Era stata così pronunciata una sentenza in una questione di fede, che venne sottoscritta da tutti i partecipanti ad eccezione di Ario e dei suoi seguaci, i quali vennero mandati immediatamente in esilio. I rimanenti vescovi di sentimenti ariani accettarono la professione di fede, in parte facendo delle riserve sulla condanna di Ario. In uno scritto alla sua comunità Eusebio di Cesarea giustificò il proprio comportamento meno con motivazioni teologiche quanto richiamandosi alla pace della Chiesa, per la quale si era grati all’imperatore.
Risolto il caso di Ario, il sinodo trattò il problema della diversa data pasquale. Per assicurare alla festa una data comune, i padri conciliari designarono come normativa l’usanza alessandrina e romana, per cui ogni opposizione poté essere eliminata. Secondo una fonte posteriore, Alessandria ricevette l’incarico di comunicare ogni volta la data alle altre Chiese.
Ulteriori temi di discussione riguardarono la prassi ecclesiale, e il loro risultato fu riassunto in 20 canoni. La disciplina e l’organizzazione ecclesiastica ricevettero così una regolamentazione universale, che, essendo garantita da parte dello Stato, conferiva all’aspetto della Chiesa uno stabile carattere istituzionale.
La conclusione del concilio coincise con il ventennale di governo (vicennali) di Costantino. Per l’occasione l’imperatore invitò i vescovi ad un convito, a conclusione del quale li accomiatò con ricchi doni e l’ammonizione a «conservare tra loro la pace». Pervaso dall’idea dominante di un solo culto di una sola fede, il sovrano manifestò alla Chiesa la sua soddisfazione per l‟andamento delle discussioni. La sua autorità elevò le decisioni del concilio a leggi dell’Impero.
Col concilio ecumenico di Nicea, le precedenti riunioni sinodali avevano raggiunto un primo vertice. Le Chiese locali accettarono le decisioni come «sentenze di Dio» e recepirono Nicea come concilio ecumenico.
Controversie teologiche: lotta tra arianesimo e cattolicesimo
La prima formula dogmatica della Chiesa, il credo niceno, non ristabilì l’unità del culto desiderata da Costantino e neppure mise fine alla discussione teologica scatenata da Ario. La fede cristiana aveva percorso la via della spiegazione ragionevole e, nello sforzo per chiarire come la Bibbia intendesse Dio, aveva sfondato la stretta religioso-culturale del mondo circostante. La disputa postconciliare si accanì nell’interpretazione della parola filosofica esplicativa di Nicea, l’όμοσύσιος che esprimeva sia l’unità (numerica) come pure l’uguaglianza dell’essenza. L’uso del termine in senso gnostico-materialistico, ma anche la sua vicinanza con le tendenze sabelliane, acuirono però l’opposizione contro il «credo» del primo concilio ecumenico. Da qui nacque una forte opposizione astutamente occultata da parte degli ariani per annullare il simbolo niceno.
In questo senso, un ruolo fondamentale lo svolsero i successori di Costantino († 337). Mentre in Occidente Costante († 350), il più giovane dei figli prese il potere, dopo l’eliminazione di Costantino II († 340), che si era orientato verso Nicea, il più anziano Costanzo II († 361) perseguiva sempre più apertamente una politica religiosa di indirizzo ariano.
Un indice dell’arianizzazione sempre più incombente lo si evince dal fatto che se la lotta fino adesso era stata diretta contro i rappresentanti del simbolo niceno (per es. Atanasio, costretto all’esilio), si fece ora viva, da parte degli ariani, la premura di definire in formule le idee fondamentali della teologia ariana.
Di fatto, nel 341 ad Antiochia, in occasione della consacrazione della basilica patriarcale, ebbe luogo un sinodo di quasi cento vescovi orientali, il cui risultato venne fatto conoscere in una lettera circolare. È significativo che gli autori di questa si siano distanziati da Ario, ma essi evitarono intenzionalmente anche l’ όμοσύσιος di Nicea, per la ragione più volte ripetuta che questa parola non è contenuta nella Scrittura e per la sua vicinanza con la concezione sabellianizzante della divina monas. In effeti da lì a poco un sinodo riunito a Roma accuserà quello di Antiochia di arianesimo.
Si giunse quindi, per volontà soprattutto dell’imperatore Costante, a convocare un concilio di tutti i vesvovi a Sardica per tentare di trovare un accordo tra i due schieramenti teologici. Ma tutto fu vano, soprattutto per la presenza di Atanasio che aveva causato il ritiro degli orientali. Anzi, con il fallimento che si determinò a Sardica, si sfociò nella reciproca accusa di arianesimo con conseguente scomunica e la forte riaffermazione del simbolo filoariano di Antiochia da parte degli orientali.
Con la morte improvvisa di Costante, Costanzo II diventò sovrano assoluto di tutto l’impero. Egli, ariano, abbandonò presto la politica religiosa prudente degli anni precedenti e appoggiò nettamente l’arianesimo. Come base delle misure politico-religiose di Costanzo, servì una professione di fede che una riunione di vescovi aveva elaborato al soggiorno della corte in Sirmio e che sembrava accettabile per tutto l’Impero. Questa prima formula di Sirmio prese una posizione intermedia, distante dal rigido arianesimo come pure dall’ όμοσύσιος, e avrebbe dovuto così rimpiazzare alla svelta il simbolo di Nicea. In queste circostanze, si riaccese la polemica, sia contro Atanasio, sia contro tale intrusione dell’imperatore in materia di fede.
Inutili furono i sinodi che si celebrarono in Occidente. I padri riuniti in tali sinodi furono sin dall’inizio sottoposti a una forte pressione psicologica da parte dello stesso imperatore, presente alle riunioni.
A coloro che non si allineavano con la sua teologia era riservato l’esilio. A coloro che esitavano, egli rispose con la inequivocabile dichiarazione «Quello che io voglio, deve valere come legge della Chiesa».
Lo stesso papa Liberio ebbe a pagare con l’esilio in Tracia la sua fedeltà allìortodossia. Ad Alessandria il vescovo Atanasio si sottrasse all’arresto dei militari imperiali e fuggì presso i monaci nel deserto; il suo posto fu occupato dal rozzo Giorgio di Cappadocia.
In questa maniera, e anche per le vicende che ne seguirono, Costanzo era riuscito ad eliminare i difensori della fede nicena e a mettere al loro posto vescovi ariani. Così Costanzo poté annunziare all’inizio dell’anno 360 l’unione religiosa. Un sinodo tenuto contemporaneamente a Costantinopoli confermò questo diktat teologico e proibì per il futuro la creazione di altre formule. Vescovi riluttanti, tra i quali taluni di origine omeusiana (i quali ammettevano la sommiglianza essenziale tra il Padre e il Figlio), furono di punto in bianco deposti; solo in Egitto il piano fallì per il deciso rifiuto degli atanasiani.
Girolamo commentò più tardi la sorprendente svolta verso l’arianesimo con le parole: «Tutta la terra mandò un sospiro e si meravigliò di essere ariana»(12). (12: GIROLAMO, Adversus Luciferum, 19; PL 23, 181b.)
In effetti, alla morte di Costanzo (361) la maggior parte delle Chiese era occupata da ariani. ( mancò solo un battito d’ali perché la chiesa fosse ariana per sempre)
Il superamento dell’arianesimo
L’ascesa dei vescovi antiniceni come la proclamazione di formule ariane riuscì grazie al favore e all’impegno dell’imperatore Costanzo. Allorché con la sua morte questo sostegno cadde, si aprirono subito incrinature nella compagine teologico-ecclesiastica ariana incrementate anche dalla politica anticristiana dell’imperatore Giuliano.
Dopo la morte di Costanzo II, gli successe suo cugino, Giuliano († 363), l’ultimo erede della famiglia imperiale costantiniana, il quale inaugurò una programmata, anche se breve, restaurazione pagana. Pervaso di ascetica severità, egli espulse dalla corte i cristiani. Abolita ogni discriminazione, provvide all’uguale trattamento di tutti, cristiani e pagani. Ai sostenitori del simbolo niceno furono riconosciuti gli stessi diritti degli ariani. Pertanto, i presuli niceni espulsi poterono rientrare nelle loro diocesi d’origine. Tale situazione venne ora sfruttata dai niceni per radunare le loro forze. In Egitto, Atanasio, che era rimasto nascosto tra i monaci del deserto, prese di nuovo possesso della sua sede (362) e gestì da Alessandria la riorganizzazione della sua Chiesa. Deciso all’azione, radunò ancora nell’estate del medesimo anno un sinodo di vescovi egiziani, al quale si unì anche l’esiliato Eusebio di Vercelli († 371).
Con il cambio di governo del 364 entrò in vigore una politica religiosa differenziata. Mentre l’imperatore dell’Occidente Valentiniano I rinunciava a qualsiasi ingerenza e così rendeva possibile il consolidamento della confessione nicena, in Oriente suo fratello Valente promosse l’arianesimo.
Valente oppresse di nuovo i niceni, che nel 365 dovettero abbandonare le loro sedi vescovili (tra loro Atanasio, per la quinta volta); allorché in Alessandria scoppiarono tumulti, l’imperatore fece marcia indietro e l’imperterrito avvocato di Nicea poté occupare la sua sede vescovile fino al termine della sua vita (373).
Invece a Costantinopoli l’imperatore inasprì la sua pressione, perché i niceni dopo la morte del vescovo ariano che occupava quella sede, elessero un proprio vescovo. Questo fu il preludio di una vera e propria persecuzione che attraverso la Siria si propagò oltre, fino all’Egitto.
Ma l’inefficacia di un tale procedimento fu dimostrata, infine, dall’opposizione di uomini di Chiesa dello stampo di un Basilio di Cesarea che, stimato dallo stesso imperatore, bloccò la sua politica ariana in Cappadocia. Il suo contributo al regolamento del linguaggio trinitario « μία ούσια τρεῖς ύποστσεις » unitamente agli apporti di Gregorio di Nissa († 394) e Gregorio di Nazianzo († 390 c.) avviò la provvisoria conclusione dell’accanita disputa sul simbolo di Nicea.
Il discorso di un’unica essenza in tre persone distingueva Padre, Figlio e Spirito Santo non per le loro operazioni ad extra, bensì per le loro proprietà o caratteristiche, per cui al Padre appartiene il «non essere generato» (άγεννησία ), al Figlio l’«essere generato» (γεννησις ) e allo Spirito il «procedere» (έκπόρευσις ).
Senza dubbio i cappadoci, in conseguenza della tradizione origeniana diffusa in tutto l’Oriente, hanno messo in evidenza più fortemente di Atanasio la differenza tra le divine «persone», proprio per evitare che la parola esplicativa di Nicea venisse fraintesa in senso sabelliano. Tuttavia essi insistettero sull’unicità dell’essere divino e così, coll’inclusione dello Spirito Santo, appianarono la via per una professione ecumenica della fede trinitaria.
In conclusione, la risposta teologica della grande Chiesa alla provocazione ariana sfociò nel dogma della Trinità, il quale espresse in una formula l’uguaglianza essenziale di Cristo e dello Spirito con il Padre.
Rispetto alla fede nell’incarnazione, l’aver collocato il Logos nell’ambito della divinità acuì la questione della sua realtà umano-divina, cosa che nella predicazione antecedente si era presentata semplicemente con le affermazioni bibliche oppure si era già tentato di spiegare in categorie filosofiche. Naturalmente fino ad allora veniva in primo piano l’interesse per l’economia della salvezza, mentre adesso al centro dell’attenzione avanzava sempre più l’essenza propria della figura di Cristo.
Questo preciso interesse della teologia di chiarire la vera realtà di Cristo ricevette senza dubbio impulsi anche dall’esterno, sia da parte ariana come dalle immaginazioni del mondo circostante relative ad un (θεῖσς άνήρ) (= uomo divino).
LA CONTROVERSIA PNEUMATOMACA E IL CONCILIO DI COSTANTINOPOLI (381)
Come la dottrina del Logos così anche quella dello Spirito Santo nei primi secoli non era ancora ben circoscritta. Per l’arianesimo, che considerava il Figlio come creatura del Padre e a sua volta creatore di tutto il resto, era naturalmente cosa logica dichiarare lo Spirito Santo creatura del Figlio. Ma siccome l’interesse dei teologi si era concentrato dapprima quasi esclusivamente sul Logos, l’errore circa lo Spirito Santo fino alla metà del IV secolo non fu oggetto di particolare attenzione.
Tuttavia, sia gli omei (cioè quelli che sostenevano che il Padre e il figlio fossero tra loro solo simili), sia gli omeusiani, che pur considerando il Figlio sostanzialmente simile al Padre, proclamavano che lo Spirito Santo era uno degli Spiriti serventi (Eb. 1,14), diverso dagli angeli solo per grado. Atanasio, di fronte a tale dottrina, reagì colle sue quattro lettere al vescovo Serapione di Thmuis (359) in difesa della divinità dello Spirito Santo. Il sinodo di Alessandria del 362, da lui presieduto, riconobbe alla terza persona della Trinità la stessa sostanza e divinità delle altre due.
Come esponente principale della dottrina opposta era considerato l’omeusiano Macedonio, vescovo di Costantinopoli (deposto nel 360), dal quale più tardi (dal 380) i pneumatomachi presero anche il nome di macedoniani.
Poco appresso anche altri sinodi tenuti in Alessandria (363), a Roma (369, 373, 380) e nell’Asia Minore si pronunciarono contro l’eresia. I tre grandi Cappadoci (Gregorio di Nissa, Gregorio Nazianzeno e Basilio di Cesarea) la confutarono acutamente nei loro scritti e professarono chiaramente l’omousia (l’uguaglianza) dello Spirito Santo con le altre due persone divine.
Ma la condanna più importante all’eresia venne da parte del concilio generale dell’Oriente tenuto a Costantinopoli nel 381, voluto dall’imperatore Teodosio e presieduto da Melezio di Antiochia e dopo la morte di questi avvenuta nei primi giorni del sinodo, da Gregorio Nazianzeno. Qui 150 padri ortodossi, dopo la secessione di 36 macedoniani guidati da Eleusio di Cizico, condannarono l’eresia dei «semiariani o pneumatomachi».
Nel simbolo elaborato dai padri conciliari (il simbolo niceno-costantinopolitano), il I e il II articolo, che parlano di Dio Padre e del Figlio, riproducono alla lettera, o con modifiche irrilevanti, il simbolo niceno, mentre l’art. III «e (noi crediamo) nello Spirito Santo» fu corredato dell’aggiunta antipneumatomaca, «Signore e Vivificatore, procedente dal Padre (Giov. 15, 26), che insieme col Padre e col Figlio viene adorato e glorificato, e che parlò per mezzo dei profeti».
Quando più tardi questo concilio fu riconosciuto come “concilio ecumenico”, il che avvenne in Oriente durante il concilio di Calcedonia del 451 e in Occidente all’inizio del VI secolo, allora anche questa formula dogmatica raggiunse un valore ecumenico col nome di simbolo niceno-costantinopolitano. Nella chiesa greca divenne più tardi l’unica professione di fede ammessa nel battesimo e nella celebrazione eucaristica.
Con la dottrina che lo Spirito Santo deriva dal Padre si era bensì ripudiata la teoria ariana, ma non si era ancora determinata sotto ogni aspetto la relazione trinitaria dello Spirito Santo. Rimaneva aperta la questione della relazione esistente fra lo Spirito Santo e il Figlio.
Essa fu risolta in maniera diversa in Oriente e in Occidente, ma la diversità sta più nella formulazione che nella sostanza. Fin dal IV secolo la chiesa greca insegnava una processione dal Padre attraverso il Figlio, mentre quella latina affermava una derivazione dal Padre e dal Figlio: il Filioque (Spiritus Sanctus… a Patre Filioque procedens), che sul finire del VI secolo sarà inserito nel simbolo niceno-costantinopolitano recitato dai latini e ciò svolgerà un ruolo fatale nelle divergenze tra la chiesa greca e quella latina fino al tempo dello scisma definitivo.
LA QUESTIONE NESTORIANA E IL CONCILIO EFESINO (431)
Dopo la definitiva affermazione della divinità del Logos e dell’integra e completa umanità di Cristo (contro l’apollinarismo), il passo successivo era quello di determinare con maggior precisione il rapporto fra la natura umana e quella divina nel Nazareno.
La Scuola alessandrina, accentuando fortemente l’intima unione delle due nature, parlava di una mescolanza delle stesse. Attribuendo, pure a torto, il simbolo di Apollinare ad Atanasio, si facevano professare a questo dottore della Chiesa non due, ma una sola natura incarnata del Logos divino (μία φύσις τοὓ θεοὓ λόγου σεσαρχωμένη ).
Siccome in tal modo, almeno prendendo le parole in senso letterale, risultava compromessa l’integrità delle nature, la Scuola antiochena, di indirizzo sobrio e critico, insisteva soprattutto sulla loro distinzione reciproca e sulla loro completezza tanto da giungere a parlare anche di due ipostasi in Cristo.
Una conseguenza di questa impostazione fu che essi facevano nascere dalla Vergine non il Figlio di Dio, ma un uomo nel quale abitava Dio, e chiamava Maria non «Madre di Dio» (θεοτόχος) , ma solo «Madre di Cristo» (Χριστοτόχος ).
Così insegnavano specialmente i capi di questa scuola, i vescovi Diodoro di Tarso e, soprattutto, Teodoro di Mopsuestia.
La cristologia antiochena era rimasta in un primo tempo nell’ ambito di quella scuola; chi la lanciò fra il gran pubblico fu Nestorio. Egli era stato monaco in Antiochia, probabilmente discepolo di Teodoro e valente predicatore; la grazia dell’imperatore lo elevò nel 428 alla cattedra vescovile di Costantinopoli.
Nestorio non era privo di buone virtù, ma era insieme scontroso, prepotente e irascibile; aveva perseguitato energicamente eretici ed ebrei, ma aveva preso sotto la sua protezione i pelagiani, espulsi in Occidente, il che dispiacque assai a Roma.
Il presbitero Anastasio, che era venuto con lui da Antiochia nella capitale dell’Impero, si mise a biasimare nelle sue prediche il titolo ormai antico e caro al popolo di «Madre di Dio» attribuito alla beatissima Vergine. L’agitazione suscitata da questo fatto fra il clero e il popolo aumentò maggiormente quando Nestorio prese le parti di Anastasio e a sua volta biasimò in alcune prediche quel termine come un’ «innovazione», affermando che la designazione giusta era «Madre di Cristo» (tuttavia più tardi era disposto ad ammettere anche il Theotocos purché tale termine fosse interpretato «rettamente»). Si levò contro di lui una viva opposizione non solo nella capitale, ma anche in regioni lontane.
Sopra tutti il vescovo Cirillo di Alessandria, uomo di grande energia, si oppose alla dottrina di Nestorio già nel 429 in un’epistola pasquale diretta ai vescovi egiziani e in una lunga enciclica ai monaci dell’Egitto. Era stimolato in questo non solo dall’opposizione teologica della Scuola alessandrina e dallo zelo della dottrina ortodossa, ma anche dalla rivalità politico-ecclesiastica del patriarcato di Alessandria contro la chiesa di Costantinopoli, che dal 381 in poi era riuscito a conquistarsi nell’Oriente il primo posto, e che già lo zio di Cirillo, Teofilo, aveva voluto umiliare nella persona di Giovanni Grisostomo.
Il papa Celestino I, al quale si erano rivolti ambedue i partiti, ripudiò la concezione nestoriana in un sinodo dell’agosto 430. Per suo incarico Cirillo intimò al vescovo della capitale di ritirare la sua dottrina entro dieci giorni, pena l’esilio; contemporaneamente gli inviava i dodici Anatematismi da lui formulati in un sinodo ad Alessandria, contenenti gli errori da abiurare.
Nestorio, il quale non era disposto a piegarsi di fronte al suo avversario e aveva in un primo tempo dalla sua l’imperatore, trovò inoltre molti alleati fra i seguaci della Scuola antiochena, che vedevano nella dottrina di Cirillo una specie di apollinarismo, di occulto monofisismo, così specialmente il vescovo Giovanni di Antiochia e il dotto Teodoreto, vescovo di Ciro. Conviene notare peraltro che il patriarca antiocheno aveva insistentemente pregato in una lettera, Nestorio di accettare senza riserve, in armonia con la maggioranza dei Padri, come verità ortodossa il titolo di Theotocos attribuito a Maria.
A ragion del vero, bisogna tener presente che nella terminologia da loro usata, soprattutto dagli alessandrini, (φύσις) e (ύποστσεις) come riferite a Cristo, non erano ancora nettamente distinte e potevano significare tanto natura quanto persona: ecco la ragione di fondo – accanto a quelle politiche – che dispose i contendenti a scadere dal piano dottrinale a quello di una avversione personale che sfociava in ostilità aperta.
Il concilio di Efeso
Nel 431 l’imperatore Teodosio II, sollecitato da Nestorio, convocò per la Pentecoste un concilio ecumenico (il terzo) a Efeso per comporre l’aperto dissidio che divampava fra i patriarcati dell’Oriente.
Ma già all’inaugurazione del concilio si delinearono foschi presagi. Comparve dapprima Nestorio con 16 vescovi, poi Cirillo con 50 suffraganei; ma il terzo patriarca, Giovanni di Antiochia, ritardava, certo intenzionalmente, la sua venuta e anche i legati pontifici tardavano ad arrivare, trattenuti da una traversata burrascosa.
Nonostante la protesta presentata dal commissario imperiale Candidiano e da numerosi vescovi (68), Cirillo, con un colpo di forza degno più di un politico consumato che di un ecclesiastico, il 22 giugno 431 seppe come scavalcare l’autorità del commissario imperiale Candidiano, incaricato dall’imperatore Teodosio II di dirigere e presiedere ai lavori conciliari, ed aprire il concilio a Efeso, nella grande chiesa mariana, alla presenza di 153 vescovi.
Già nella prima sessione fu addotta la dimostrazione patristica del titolo Theotocos e della reale unione delle due nature in Cristo; Nestorio che, citato, gli era impedito di intervenire, fu destituito come «novello Giuda» per l’empio contenuto delle sue prediche e per la sua «disobbedienza ai canoni». Il concilio non emanò un nuovo simbolo di fede, ma ritenne sufficiente il niceno.
Quattro giorni dopo (26 giugno) arrivò finalmente a Efeso Giovanni con i suoi vescovi della Siria. Non si congiunse al concilio, ma tenne per conto suo, alla presenza del commissario imperiale, Candidiano, un proprio conciliabolo con 43 intervenuti, nel quale furono destituiti Cirillo e il vescovo Memnone di Efeso, responsabile quest’ultimo di aver creato nella sua metropoli un clima ostile ed irrespirabile per Nestorio e i suoi vescovi. I tre legati pontifici, ora giunti essi pure, parteciparono invece alle sessioni ulteriori del concilio cirilliano, nella quinta delle quali (il 17 luglio) Giovanni e i suoi adepti vennero scomunicati.
Si avevano quindi contemporaneamente due sinodi avversari.
L’imperatore, imbarazzato, dapprima, come se niente fosse accaduto, ratificò le delibere di tutti e due, poi, volendo realizzare una conciliazione, convocò i rappresentanti di ambo le parti nella sua residenza a Calcedonia. Non essendo la mediazione approdata a nulla, assunse a poco a poco un atteggiamento più deciso e precisamente contro Nestorio. Per conseguire questo scopo Cirillo aveva messo in moto a corte tutte le leve (anche mediante l’invio di ricchi donativi); egli era sostenuto specialmente da Pulcheria, la pia e influente sorella maggiore dell’imperatore.
A Nestorio, rimandato nel suo monastero di Antiochia, succedette Massimiliano, un vescovo gradito ai cirilliani. Il concilio di Efeso fu sciolto e Cirillo e Memnone ottennero il permesso di rientrare nelle loro sedi.
La chiesa nestoriana
In seguito alle severe disposizioni del governo il nestorianesimo nell’Impero romano andò lentamente scomparendo. L’eresia si sostenne invece in Persia, dove si erano rifugiati molti dei nestoriani perseguitati nell’Impero romano. Lì si ebbe, sotto il metropolita Babeo (Babai) di Seleucia-Ctesifonte (497-503), la separazione formale dalla Chiesa dell’Impero e l’erezione di una chiesa nazionale persiana nestoriana. Egli si staccò infatti dal patriarcato di Antiochia e prese il titolo di Catholicus (= patriarca) (498).
Nel corso dei secoli seguenti la chiesa nestoriana grazie allo zelo missionario dei suoi adepti si propagò notevolmente in Asia; le appartennero anche i cristiani di s. Tommaso sulla costa occidentale delle Indie.
Ad onta di vessazioni di ogni specie, oltre 100.000 nestoriani si mantennero fino ai nostri tempi nelle regioni del Kurdistan, e sulle zone di confine fra la Turchia e la Persia; il loro patriarca (catholicus) risiedeva fino al 1915, come capo spirituale e temporale, a Kotschanes.
Durante la prima guerra mondiale questi «Assiri» vennero in gran parte spostati e dispersi. Nei combattimenti coi Maomettani dell’Irak, al quale stato vennero assegnati nel 1931, molte migliaia di loro furono uccisi. Di questi, 20-30.000 ripararono in Siria e a Cipro, mentre una frazione minuscola ebbe dal 1937 in poi una relativa pace.
Oltre a questi vi sono circa 150.000 cosiddetti «cristiani caldei» (con residenza patriarcale a Mossul) uniti con Roma: i cosidetti cattolici caldei. Anche i «cristiani di s. Tommaso» (circa sei milioni) sono ora in maggioranza uniti a Roma. Altri passarono nel XVII secolo in gran parte ai giacobiti (monofisiti).
LA QUESTIONE MONOFISITA E IL CONCILIO DI CALCEDONIA (451)
Mentre i nestoriani erravano nel separare le due nature in Cristo, tanto da minacciare l’unità del Salvatore, alcuni dei loro avversari, specialmente alessandrini, caddero nell’estremo opposto; essi in Cristo accentuavano assai la divinità a scapito dell’umanità, fino a mescolare le due nature o ad assorbire la natura umana in quella divina.
Una concezione simile doveva portare inevitabilmente ad un nuovo conflitto. L’occasione venne dal vecchio archimandrita Eutiche di Costantinopoli, uomo pio, ma teologicamente poco preparato. Egli si mise a perseguitare il vescovo Eusebio di Dorileo in Frigia a causa della presunta eresia del duofisismo, ma fu destituito e scomunicato egli stesso come eretico dal sinodo di Costantinopoli del 448, uno dei cosiddetti sinodi endemici, presieduto dal patriarca Flaviano.
Il latrocinio efesino (449)
Ma questo non era che il preludio di nuove lotte. Flaviano comunicò la sentenza ad altri vescovi e in particolare al papa Leone I. Eutiche per conto suo non cedette e reclamò contro la presunta ingiustizia, riuscendo a guadagnare alla sua causa la corte, cosicché in un primo tempo la sua posizione era abbastanza solida.
Sollecitato dal patriarca Dioscuro di Alessandria, il successore, brutale e ambizioso, di Cirillo (dal 444) e sostenitore di Eutiche, l’imperatore Teodosio II convocò nel 449 un nuovo concilio generale a Efeso, il luogo dei trionfi cirilliani. Egli affidò la presidenza a Dioscuro, il quale, appoggiato dai suoi monaci e dalla casta militare imperiale, esercitò sui padri del concilio una pressione inaudita.
Ai legati papali fu negata la presidenza che essi reclamarono. Non fu ammessa la lettura degli scritti del papa, nemmeno della famosa lettera dogmatica Epistula ad Flavianum, nella quale Leone I, in armonia con la tradizione occidentale, aveva dato una eccellente esposizione della dottrina in questione: nonostante l’unione delle due nature e sostanze nell’unica persona di Cristo, non si verifica nessuna mescolanza delle due nature, ma anzi ciascuna di esse opera in collegamento con l’altra quello che le è proprio. Questa determinazione del papa significava ad un tempo il distanziamento di Roma dall’alleanza con Alessandria esistita fino allora.
L’esito dell’azione del sinodo fu quello che si poteva prevedere. Eutiche fu proclamato ortodosso, perché asseriva di attenersi ai sinodi di Nicea e di Efeso e di rigettare le eresie di Nestorio, Apollinare e gli altri; la dottrina delle due nature sussistenti dopo l’Incarnazione fu ripudiata come innovazione non ammissibile.
Flaviano ed Eusebio furono destituiti, perché nelle loro speculazioni teologiche erano andati al di là del Nicaenum e dell’Ephesinum.
Subirono la medesima sorte anche altri vescovi che si erano mossi contro Eutiche o che comunque erano sospettati di nestorianesimo, in modo speciale Teodoreto di Ciro, Domno di Antiochia, Iba di Edessa. Flaviano subì persino maltrattamenti corporali; morì sulla via dell’esilio dopo aver presentato un inutile appello al papa contro l’iniqua sentenza. Così pure appellarono al papa Eusebio e Teodoreto.
Ma il dominio dei monofisiti non fu di lunga durata. Il “latrocinium Ephesinum”, come lo chiama già papa Leone I in una lettera all’imperatrice Pulcheria (451), venne rigettato da tutte le parti e nello stesso tempo si reclamò la convocazione di un nuovo concilio. Risposero a questo appello l’augusta Pulcheria e il generale Marciano (450-57), che dopo l’improvvisa morte di Teodosio II (luglio 450) aveva ottenuto il diadema e la mano della sorella dell’imperatore.
Il concilio di Calcedonia
In Roma si desiderava in un primo tempo che il concilio si celebrasse in Italia, poi, in seguito all’invasione degli Unni nella Gallia, che per il momento non si celebrasse affatto. Ma l’imperatore lo convocò dapprima a Nicea, per trasferirlo già nell’autunno del 451 a Calcedonia sul Bosforo, di fronte a Costantinopoli.
Questo quarto concilio ecumenico fu il più frequentato dell’antichità cristiana: vi parteciparono oltre 600 membri, dei quali tuttavia solo cinque occidentali, cioè due vescovi africani e i tre legati papali.
Vi partecipò personalmente anche la coppia imperiale. Nella decisiva sesta sessione del 25 ottobre 451, in cui fu proclamato solennemente il decreto dogmatico, Pulcheria tenne persino la presidenza onoraria.
L’assemblea riconobbe come ecumenici i concili del 325, del 381 e del 431 e approvò il simbolo niceno e il niceno-costantinopolitano; rigettò, dopo violente discussioni, le decisioni del latrocinium Ephesinum e depose Dioscuro, mentre Teodoreto e Iba vennero reintegrati nella loro carica e Domno ricevette almeno un indennizzo.
La lettera dottrinale di Leone fu acclamata con entusiasmo e sulla base della stessa si fissò un simbolo, che contro le eresie di Nestorio ed Eutiche dichiara: «Noi insegniamo e professiamo un unico e identico Cristo, in due nature (έν δύο φύσεσιν), non confuse e non trasformate, non divise, non separate, poiché l‟unione delle nature non ha soppresso la loro differenza, anzi ciascuna natura ha conservato le sue proprietà e si è unita con l’altra in una unica persona (πρόσωπον) e in un’unica ipostasi».
Inoltre, si deve segnalare che nel canone 28° il concilio attribuisce al vescovo costantinopolitano (la cui città era stata riconosciuta come la “Nuova Roma” sin già dal primo concilio di Costantinopoli (can. 3°) e con un primato d’onore preceduto solo dal vescovo dell’Antica Roma) il diritto di consacrare i metropoliti delle diocesi politiche del Ponto, delle province dell’Asia e della Tracia. Tale cosa poneva la chiesa di Costantinopoli sul medesimo piano delle chiese di Roma, di Alessandria e di Antiochia: il suo vescovo divenne patriarca.
Reazioni dei monofisiti
La storia del monofisismo non termina col concilio di Calcedonia. NeI 452 l’imperatore Marciano decretò l’esilio di Dioscuro e di Eutiche e promulgò editti severi contro i loro seguaci. Ma la condanna dei monofisiti urtò contro una resistenza ancora più accanita di quella dei nestoriani. Naturalmente il partito di opposizione non costituiva un’unità compatta; infatti, accanto ai monofisiti intransigenti (eutichiani) ce nerano molti che, tenendo fermo il punto di vista sostenuto da Cirillo prima del 433, respingevano la formula calcedonese, perché intravedevano in essa un velato nestorianesimo. In realtà essi vanno considerati più come scismatici che come eretici.
Ma il movimento monofisita rappresentava per l’Impero un pericolo gravissimo, in quanto nella Siria e in Egitto al contrasto religioso si congiungevano forti tendenze nazionali e politiche contrarie all’ellenismo e alla dominazione bizantina.
La situazione si fece in breve minacciosa; gli avversari della formula calcedonese riuscirono a impadronirsi dei patriarcati orientali. Il seggio di Gerusalemme fu occupato, almeno temporaneamente, dal monaco monofisita Teodosio (452-453). In Alessandria Proterio, il successore ortodosso di Dioscuro, fu assassinato in una sommossa popolare e sostituito da Timoteo Eluro (457-460), in Antiochia venne proclamato vescovo Pietro Fullone (470-471).
Il dominio di costoro, grazie all’intervento dell’imperatore Leone I (457-474), fu di breve durata; tuttavia ebbe un’importanza notevole, specialmente in Egitto, dove vennero insediati ovunque vescovi monofisiti.
Lo scisma acaciano
Il nuovo patriarca di Alessandria, Pietro Mongo, di sentimenti monofisiti, concordò col patriarca Acacio di Costantinopoli un simbolo nel quale si pronunciava l’natema contro Nestorio ed Eutiche, ma allo stesso tempo anche contro il concilio di Calcedonia e si dichiarava che norma di fede dovevano essere il simbolo niceno-costantinopolitano, i dodici Anatematismi di Cirillo e le definizioni di Efeso del 431.
Zenone pubblicò questa formula dottrinale sotto il nome di Henoticon con valore di legge statale in materia religiosa (482). Esso era destinato a realizzare l’unità religiosa nell’Impero; in pratica invece aggravò la scissione.
Infatti non solo molti cattolici, ma anche i monofisiti di severa osservanza rifiutarono tali mezze misure; in Alessandria essi presero il nome di acefali, perché ora, separati dal loro vescovo Pietro Mongo, erano rimasti senza capo.
Quando, a causa dell’Henoticon, nel 484 papa Felice II (III) lanciò la scomunica e la deposizione contro il vescovo di Costantinopoli, si arrivò perfino alla piena rottura fra Oriente e Occidente.
Questo scisma, che prese il nome di scisma acaciano durò non meno di 35 anni (484-519).
In quel tempo il monofisismo si diffuse largamente in Oriente. Le trattative avviate con Roma sotto l’imperatore Anastasio I (491–518), dati i suoi sentimenti favorevoli ai monofisiti, non sortirono l’effetto desiderato. In Oriente le polemiche aumentarono ancora d’intensità per effetto della contemporanea controversia teopaschita (13).
(13: Il Teopaschismo (Θεός = Dio); (πάσχω = soffro) è una concezione teologica di origine monofisita sorta appunto nel V secolo e attribuita a Pietro Fullone, secondo il quale Cristo, nella sua natura divina, avrebbe subìto la passione e morte, avendo essa trasformata in sé la natura umana passibile. L’eresia, più volte riprovata (H. DENZINGER, Enchiridion symbolorum, 442, 491,504), fu colpita apertamente da un sinodo romano nell’862 (DENZINGER, 635-6).)
Toccò allimperatore Giustino (518-527), consigliato dal suo intelligente nipote e futuro successore Giustiniano, il compito di ripristinare ancora una volta l’unione con la Sede Apostolica (519).
Il papa Ormisda (514-523) accolse di buon grado l’offerta di pace e mandò legati a Costantinopoli con una formula di unione, (Libellus Hormisdae), nella quale: il simbolo calcedonese e le lettere dogmatiche di Leone Magno venivano riconosciuti e si decretava l’anatema contro Nestorio, Eutiche, Dioscuro ed altri capi monofisiti e loro seguaci.
Vi si dichiarava inoltre che in base alla promessa di Cristo «Tu sei Pietro», ecc. (Mt. 16,18) nella Sede Apostolica di Roma la religione cattolica si era conservata sempre immacolata, e infine vi si esprimeva il senso di subordinazione e di obbedienza alle decisioni romane (riconoscimento del primato papale, citato perciò dal concilio Vaticano I nella Constitutio dogmatica de Ecclesia Christi, pubblicata con la bolla Pastor aeternus: cfr. COD, 815-6).
I vescovi greci, con a capo il patriarca della capitale Giovanni II, dovettero sottoscrivere questa formula. Così lo scisma veniva composto, almeno esteriormente. Roma aveva riportato una vittoria importante; però in Egitto il monofisismo mantenne ancora il sopravvento.
Anche l’imperatore Giustiniano I (527-565) si adoperò intensamente, sia pure con scarso successo, per guadagnare al credo calcedonese i monofisiti dell’Impero, mentre la moglie Teodora intrigava segretamente per favorirli. A cominciare dal VI secolo essi si suddivisero, specialmente in Egitto, in diversi partiti, che si combattevano aspramente a vicenda.
Ad onta di tutti gli sforzi ripetuti anche in seguito per convertire i monofisiti, l’eresia non si poté estirpare, tanto più che l’invasione islamica del VII secolo staccò la Palestina, la Siria e l’Egitto dall’Impero bizantino.
Il monofisismo si mantenne nell’Armenia in Siria e Mesopotamia, in Egitto e nell’Abissinia e fondò ovunque chiese nazionali: l’armena, la sirogiacobita, la copto-egiziana e l’abissina, che si allontanarono sempre più dall’ellenismo anche culturalmente, e sussistono tuttora.
In Egitto i monofisiti presero e portano tuttora il nome di copti, vale a dire cristiani di vecchia stirpe egiziana, mentre gli ortodossi dell’Egitto e della Siria, quasi tutti greci, ricevettero il nome di melchiti cioè imperiali (appartenenti alla Chiesa dell’Impero).
In Siria e nei paesi vicini i monofisiti ebbero il nome di “giacobiti” da Jacob Baradai (quello della coperta da cavallo, così detto con riguardo al suo vestito lacero) vescovo di Edessa (541-578), che si adoperò senza posa e con grande successo per fondare e consolidare la chiesa monofisita e le diede un capo nel patriarca Sergio di Antiochia (544).
Fino a poco tempo addietro il patriarca (Catholicus) dei monofisiti siri risiedeva nel monastero di Zapharan nella Mesopotamia settentrionale, ora vive a Gerusalemme, mentre quello dei monofisiti armeni risiede dal 1443 a Etschmiadzìn nel Caucaso.
Grafico
(Fine settima parte)