Non ho mai capito la festa del Primo Maggio, festa del lavoro. Che cosa, in realtà, festeggiano in questo giorno i lavoratori? La loro schiavitù. Non è una festa, gli “han fatto la festa”.
Il lavoro diventa un valore con la Rivoluzione industriale e i pensatori che cercano di razionalizzarla.
Per Marx è “l’essenza del valore”, per i liberal-liberisti è quel fattore che, combinandosi col capitale, dà il famoso “plusvalore”.
Prima il lavoro non era affatto un valore. Tanto è vero che è nobile chi non lavora e artigiani e contadini lavorano solo per quanto gli basta. Il resto è vita.
Non che artigiani e contadini amassero il loro mestiere – che peraltro è un concetto diverso dal lavoro come spiega R. Kurz in “La fine della politica e l’apoteosi del denaro” – meno di un operaio di fabbrica o di un impiegato o di un ragazzo dei call-center, certamente lo amavano molto di più perché gli permetteva di esprimere le proprie capacità e la propria creatività, ma non erano disposti a sacrificargli più di tanto del loro tempo che è “il tessuto della vita” come dice Benjamin Franklin che peraltro lo usava malissimo: a fare denaro (anche scopare, per questo perfetto prototipo della borghesia protestante e autopunitiva, è una perdita di tempo, lo si fa “solo per la salute”).
E quando nel Duecento e nel Trecento compaiono a Firenze, nel piacentino e poi nelle Fiandre i mercanti come forte classe sociale (prima il mercante, presso tutte le culture, sedeva all’ultimo gradino della scala sociale, perché si riteneva indegno di un uomo scambiare per denaro, e il kafelos greco, piccolo commerciante al dettaglio, è una macchietta abituale del teatro di Aristofane) la gente del tempo li guarda come fossero dei matti perché non capisce che senso abbia accumulare denaro su denaro, ricchezze su ricchezze per portarsele nella tomba.
C’è la storia, patetica quanto esemplificativa, di Francesco di Marco Datini, il famoso mercante di Prato, il quale dopo aver fatto per trent’anni l’imprenditore ad Avignone ritorna nella sua città natia deciso a godersi la vita. Ma non ce la fa proprio, è continuamente angosciato dalla sorte delle sue navi e quando, alla fine, muore senza figli lascia tutto a Santa Madre Chiesa.
Il concetto che il tempo fosse più importante del denaro era così radicato negli uomini di quel tempo che quando i primi imprenditori industriali introdussero il cottimo si accorsero, con loro grande sorpresa, che la produttività diminuiva invece di aumentare, perché i lavoratori preferivano rinunciare al cottimo e andare a spasso, in taverna, a giocare a birilli, a corteggiare la futura sposa.
Ma è stata la mentalità paranoica del mercante a prevalere, a fare della maggioranza di noi, per dirla con Nietzsche, degli “schiavi salariati”, a frantumare i nuclei costitutivi dell’essere umano.
I suicidi in Europa dal 1650 – epoca industriale – ad oggi sono decuplicati, nevrosi e depressione sono malattie della Modernità, l’alcolismo di massa nasce con la Rivoluzione industriale, il montante fenomeno della droga è sotto gli occhi di tutti.
E la globalizzazione, che inizia anch’essa con la Rivoluzione industriale e arriva a piena maturazione negli ultimi decenni con l’acquisizione del modello di sviluppo occidentale di quasi tutti i Paesi del mondo (quelli che non ci stanno li bombardiamo), esaspera tutti questi processi.
La globalizzazione è, in estrema sintesi, una spietata competizione fra Stati che passa per il massacro delle popolazioni del Primo e del Terzo mondo. Per restare a galla saremo costretti tutti a lavorare di più, a velocità sempre maggiore, accumulando così altro stress, disagio, angoscia, depressione, nevrosi, anomia. Infine, di passata, “una società” come scrive Nietzsche “che proclama l’uguaglianza avendo bisogno di schiavi salariati ha perso la testa”.
E noi l’abbiamo persa. Tant’è che oggi celebriamo allegramente la festa della nostra schiavitù.
Fonte: srs di Massimo Fini del 02/05/2010