Le bandiere dei due Sud
Il 12 marzo 1861 cade l’ultima fortezza borbonica: Civitella del Tronto.
Esattamente un mese dopo, a Charleston, nella lontana Carolina del Sud, un colpo di mortaio contro la guarnigione unionista di Fort Sumter segna l’inizio della Guerra di Secessione americana.
A difesa dell’indipendenza nazionale, nell’Italia del Sud il popolo insorge, negli stati nordamericani del Sud il popolo corre alle armi.
Nel 1865 ha fine la lotta sanguinosa dei confederati sudisti ed appare irrimediabilmente sconfitta la guerriglia delle Due Sicilie, che pure continuerà, senza speranza, fino al 1870; anno in cui, a Lexington in Virginia, si spegne Robert Edward Lee, l’impareggiabile condottiero degli Stati del Sud.
La conoscenza di ognuno dei due eventi è capace di gettare luce sulla natura dell’altro. E questo non certo per la semplice concomitanza cronologica, e tantomeno per l’analoga contrapposizione a un “Nord” invasore, bensì per il fatto che su entrambi i fronti si combatte per la difesa della civiltà contro la barbarie del materialismo.
Che ciò sia vero per il nostro antico Regno molti hanno portato solidi argomenti per dimostrarlo, e questa rivista da cinquant’anni. Quanto alla Confederazione d’oltre oceano, pochissimo studiata dalle nostre parti, alla mente dei più affiorerà immediatamente un’ obiezione, condensata in un’unica, terribile parola: schiavitù.
Come sempre, la propaganda dei vincitori ha una spietata efficacia, che non poggia sulla solidità degli argomenti.
Noi italiani del Sud ben lo sappiamo, visto che ancora oggi, nonostante le indiscutibili acquisizioni di una smisurata storiografia revisionista, ci tocca non di rado riascoltare certi stantii ritornelli sui “padri della Patria” e sulla “tirannide” debellata.
È questo un altro punto di somiglianza fra i due conflitti. Anche sul dibattito circa le cause della guerra americana è infatti calata per lungo tempo la sordina della “versione ufficiale”, che in quel caso ha trovato opportuna espressione nell’opera dello storico nordista James Ford Rhodes, il quale riduce tutti i motivi della lotta ad uno solo, appunto la schiavitù. Un secolo di studi storici controcorrente, condotti all’insegna della ricerca della verità, ha liquidato definitivamente il mito del Sud “cattivo” e del nord “buono” ed “emancipatore”, ma la vulgata dei dominatori si ripresenta, tenace come l’erba cattiva.
Nel breve spazio di un articolo si può solo sottolineare, invitando all’approfondimento, quanto emerge dal lavoro degli studiosi più onesti e avveduti: lo scontro non nacque da una questione etica.
Questa conclusione scaturisce non tanto dal rilievo tristemente ovvio che quasi mai gli stati rischiano la propria esistenza per affermare un principio, ma da alcuni dati significativi.
Ben cinque stati rimasti nell’Unione sono schiavisti (il Kentucky, il Missouri, il Maryland, il Kansas, il Delaware e la Virginia Occidentale); sono i marinai e i mercanti settentrionali, i puritani della “Nuova Inghilterra”, a fare affari d’oro con la tratta degli schiavi, i cui enormi profitti danno, nel Settentrione, un potente impulso alla nascita e allo sviluppo della rivoluzione industriale; al Nord è praticata una discriminazione razziale ben più cruda che nel Sud, ove i neri si mescolano alla vita dei bianchi con un agio e un’intimità oggi difficilmente immaginabili, e lo stesso Abramo Lincoln manifesta idee apertamente razziste; solo a quasi due anni dall’inizio del conflitto armato, col proclama dello gennaio 1863, Lincoln dichiara liberi gli schiavi, e, si badi, non quelli degli stati unionisti, ne dei territori occupati dalle truppe nordiste (Tennessee e parte della Virginia). “Il principio di Mr. Lincoln – osserva da Londra lo Spectator – non è che un essere umano non ha il diritto di possederne un altro: è che perde questo diritto se non è fedele all’Unione”.
Del resto, in quegli anni continua indisturbato il genocidio degli indiani, nell’agghiacciante silenzio di quelle stesse “anime sensibili” che maledicono la Confederazione col pretesto della difesa della libertà dei neri. Atteggiamento spiegabile: nella tenacia con cui i “nativi americani” difendono la propria libertà, i progetti di dominio del nord incontrano un ostacolo, mentre nell’immediata emancipazione degli schiavi trovano l’arma, decisiva per annientare il Sud. Infatti la proibizione del lavoro servile nei territori dell’Ovest ancora da colonizzare significa impedire ai coltivatori meridionali – desiderosi di ampliare le proprie piantagioni di cotone perché la domanda mondiale di questo prodotto sale vertiginosamente – di divenire maggioranza nei nuovi stati che si stanno per creare. Se alcuni di questi nascono “sudisti” per cultura ed economia, può continuare il precario equilibrio di voti esistente al Congresso di Washington fra Nord e Sud (dove hanno avuto i natali ben quattro dei primi cinque presidenti statunitensi). Ma i settentrionali vogliono l’egemonia.
Hanno bisogno di controllare il governo per imporre il protezionismo che favorisce le industrie del Nord e rovina il Sud agricolo, la cui economia vive di esportazione. Vogliono spalancare le porte ai capitali stranieri e all’immigrazione, e costruire strade e ferrovie su scala continentale, ovviamente completando lo sterminio dei popoli indiani. Per sostenere questo sforzo gigantesco si devono aumentare le tasse, che gravano soprattutto sui proprietari terrieri meridionali.
L’economia del Sud è, però, affetta da una piaga mortale, che consiste nel fatto di essere completamente aggiogata alle esigenze del mercato mondiale capitalista, che la serra in un cappio e ne orienta le scelte produttive.
Sono gli istituti finanziari del Nord ad assicurare i raccolti, ad anticipare a caro prezzo il denaro per l’afflusso e lo stoccaggio nelle zone portuali del cotone da esportare, per il trasporto oltremare della merce, per i noli marittimi e le ulteriori assicurazioni, per la gestione delle piantagioni.
La poderosa economia nordista riduce il Sud agrario a uno status coloniale, di cui è tipica caratteristica la monocultura.
Questo aspetto marca una differenza con la situazione del Regno delle Due Sicilie all’epoca dell’ invasione: la nostra produzione industriale era in via di sviluppo e un oculato protezionismo le giovava; il governo perseguiva tenacemente l’obiettivo di ridurre la nostra dipendenza dall’estero; il Piemonte invasore era sull’ orlo del dissesto finanziario. Ma anche il nostro Sud è stato cinicamente sacrificato agli interessi dell’affarismo internazionale e non ha saputo adeguatamente prepararsi a un’aggressione che molti indizi rivelavano imminente.
La macchina industriale degli Stati nordisti ha dunque deciso di sopprimere il ruolo politico del Mezzogiorno, che è di ostacolo alla sua avanzata.
A questo scopo si serve in modo spregiudicato della fiumana di coloni, alimentata dalla straripante emigrazione europea, che invade il West per accaparrarsi una terra dove vivere. Sono i cosiddetti freesoilers (sostenitori della “terra libera”), nemici acerrimi del Sud non per difendere i neri, della cui sorte non gli importa nulla, ma per timore della concorrenza dei pizmtatori sudisti.
È significativo che il territorio del Kansas, al pari di diversi Stati settentrionali, vieti ai neri liberi non solo la residenza, ma addirittura lo stesso accesso entro i propri confini.
Nelle zone intermedie cominciano gli scontri sanguinosi. Fra gli estremisti antimeridionali spicca la controversa figura di John Brown, spietato capo di una banda armata che, in nome dell’antischiavismo e con lo scopo di provocare un’insurrezione, semina il terrore fra i simpatizzanti del Sud e che non esita a commettere stragi efferate, senza troppo distinguere, nella foga purificatrice, fra bianchi e neri.
Raimondo Luraghi ha giustamente sottolineato le analogie fra le imprese di Brown, che conobbe probabilmente le idee di Mazzini, e quelle dei fratelli Bandiera e di Pisacane .
La verità è che la schiavitù è il comodo alibi di cui il Nord ha bisogno per paralizzare le reazioni del mondo al suo disegno di assassinare il Sud. I meridionali, dal canto loro, che non si sono inventati la “peculiare istituzione”, ma l’hanno ereditata (lo stesso George Washington era un grande proprietario di schiavi), l’hanno vista prosperare grazie ai negrieri del Nord e la eliminerebbero se fosse possibile farlo con la gradualità necessaria a non minacciare la loro stessa sopravvivenza (si pensi che erano schiavi poco meno della metà degli abitanti del Sud), scorgono l’unica via di salvezza nella secessione, che del resto non è proibita dalla Costituzione Americana del 1787 e che gli stati settentrionali hanno in precedenza ripetutamente minacciato ogni qual volta la politica dell’Unione è sembrata ledere i loro interessi.
Perchè i due popoli che si fronteggiano sono profondamente diversi. I primi coloni della Virginia, avventurieri che cercano una vita meno dura di quella che offre loro la sovrappopolata Gran Bretagna, desiderano – sulla scia di sir Walter Raleigh, umanista e amante delle culture latina e greca, il quale scelse il nome alla nuova colonia e impersonò l’ideale del soldato poeta e cavaliere – riprodurre sul suolo del Nuovo Mondo la società di “gentiluomini” cui nella madrepatria hanno guardato con inappagato desiderio.
La colonia prospera con la produzione e l’esportazione del tabacco, finche, nel fatale anno 1619, un negriero olandese sbarca a Jamestown venti schiavi africani. È l’inizio della soluzione al problema di reperire la manodopera richiesta dal moltiplicarsi delle piantagioni, ma anche una macchia vergognosa della storia americana e una tragica spada di Damocle sulla vita del Sud.
L’anno successivo un altro gruppo di coloni sbarca più a nord, nell’ attuale Massachusetts. Sono gruppi di orientamento vario, che hanno in comune l’ostilità alla dinastia degli Stuart. Dieci anni dopo, nel 1630, giunge nella colonia, che ormai ha preso il nome di Nuova Inghilterra, un folto gruppo di puritani, seguaci della Chiesa riformata di ispirazione calvinista. Gente che non ha niente da spartire con la società dei “cavalieri”. I loro ideali sono quelli della nascente borghesia, libera, autonoma, aggressiva, con in più la convinzione di appartenere a un popolo eletto, i cui nemici sono nemici di Dio e meritevoli solo di sterminio. La ricchezza è il giusto premio riservato dal Signore ai suoi prediletti e la povertà il giusto castigo agli “oziosi”. Nulla di più lontano dalla mentalità del Sud.
Queste differenze, se possibile, si accentuano nel corso del XVII secolo, con l’arrivo di nuovi “cavalieri”: baroni che fuggono dall’Inghilterra dopo l’esecuzione di Carlo I Stuart (30 gennaio 1649), inviso ai puritani. Il Nord si arricchisce, invece, delle Teste rotonde, ex partigiani di Cromwell protagonisti della guerra civile contro i Cavalieri che la restaurazione degli Stuart sul trono inglese caccia a loro volta.
Un odio inestinguibile divide i due gruppi. “Sono gli stessi uomini che si sono tagliati la gola in Inghilterra sotto il nome di Cavalieri e di Teste Rotonde”, annota Michel Chevalier nelle sue Lettere sull’America del Nord, pubblicate nella Revue des deux mondes nel 1836 .
“Così” scrive Luraghi, “le due grandi ideologie che avevano caratterizzato l’Europa all’alba dell’ età moderna, il Rinascimento e la Riforma, avevano piantato le loro bandiere in terra d’America; e là, come non mai, esse si sarebbero rivelate inconciliabili.”
Precisando questo concetto, si può dire che in quei terribili anni di metà ottocento si profila con particolare violenza lo scontro inevitabile tra chi sostanzialmente pone il profitto al di sopra di ogni altro valore e chi ha come ideale la distinzione per nobiltà d’animo nel solco della tradizione dei padri.
La civiltà agraria del Sud nordamericano – di impronta aristocratica, gelosa delle autonomie locali, impregnata di cultura classica, caratterizzata dal culto dell’ospitalità, dalla cavalleria verso le donne e dall’ amore per la terra natia, amante della buona cucina, dell’ozio meditativo, della vita all’aria aperta – costituisce, al pari della civiltà contadina delle Due Sicilie, un baluardo contro la rivoluzione borghese e capitalista, dispoticamente accentratrice e fondata sulla grettezza, sull’avarizia e sullo sfruttamento spietato dei ceti popolari.
Così, quando, nelle votazioni del 6 novembre 1860, risulta eletto Presidente degli Stati Uniti, con la maggioranza relativa dei voti, Abramo Lincoln, dell’Illinois, esponente di quel partito repubblicano che, in una campagna elettorale quanto mai offensiva e violenta nei confronti dei meridionali, ha scelto apertamente di farsi portatore degli interessi degli industriali e dei finanzieri del Nord (un po’ come da tempo accade in Italia), appare chiaro che il Governo si sta trasformando in una macchina al servizio di chi vuole stritolare il popolo del Sud.
Gli eventi precipitano. Il 20 dicembre 1860, nella splendida Charleston, capitale della Carolina del Sud, gioiello di armonia ed eleganza, immersa in un’atmosfera rilassata e anche gaudente, con le sue vie circondate da patios ombrosi e silenziosi e il suo grande viale dedicato agli incontri “(Meeting Street”), viene annunciato, in un’esplosione di entusiasmo e di orgoglio patriottico, che la Convenzione eletta per decidere il da farsi ha deliberato di considerare sciolti i legami con gli altri Stati e ha proclamato la Carolina Meridionale Repubblica indipendente.
Il 9 gennaio 1861 è il Mississippi a votare a schiacciante maggioranza la secessione. Il 10 gennaio segue la Florida; l’11 l’ Alabama; il 19 la Georgia; il 26 la Louisiana; il l° febbraio il Texas.
La Convenzione degli Stati secessionisti – convocata a Montgomery, in Alabama, divenuta nuova capitale – approva all’unanimità, il 7 febbraio, la Costituzione provvisoria, nella quale compare per la prima volta la denominazione destinata a essere scolpita nella storia fra il tuonare dei cannoni e il fumo delle battaglie: Stati Confederati d’America (C.S.A.).
Presidente viene eletto Jefferson Davis, del Mississippi, uomo integerrimo e colto, di elevati sentimenti, dotato di spiccata attitudine al comando. Prima che il Nord possa rinforzare i presidi dei forti e degli arsenali federali, per adoperarli contro i secessionisti, il governo di Montgomery ne dispone la confisca.
Il 26 dicembre 1860 la guarnigione federale di Fort Moultrie, a Charleston, occupa nottetempo il vicino Fort Sumter, molto meglio difendibile e idoneo a bloccare l’accesso al porto. È il segnale che il governo nordista si prepara a una prova di forza.
Teoricamente, tutto ancora può essere: molti, al Nord, sono contrari a imporre manu militari l’appartenenza all’Unione; molti studiano la possibilità di un onorevole accordo; ma Lincoln, sostenuto da un’opinione pubblica eccitata fino al fanatismo, vuole fermante la guerra, e ordina che siano inviati rifornimenti alla guarnigione di Fort Sumter, ben sapendo che così porrà gli Stati confederati nell’alternativa fra la rinuncia alla secessione e l’inizio del conflitto armato.
Il fatto che la secessione comporterebbe la nascita di un’entità autonoma dai confini ben delimitati, con rinuncia alla creazione di nuovi stati “sudisti” ad Ovest dimostra che il vero movente del conflitto è costituito dall’ esigenza di garantire che gli U.S.A. diventino una superpotenza egemonizzata dal Nord.
Tre giorni dopo il fatidico 12 aprile 1861, in cui il Sud, per non rinunciare di fatto all’indipendenza, usa la forza per sgomberare il forte, ottenendone senza spargimento di sangue la capitolazione, Abramo Lincoln chiede ai governatori di tutti gli stati non secessionisti 75.000 volontari delle milizie per reprimere “l’insurrezione”.
Gli Stati sudisti che non hanno voluto proclamare l’indipendenza sono dunque costretti a scegliere da quale parte militare. Arkansas, Tennessee, Carolina del Nord e Virginia rispondono che il loro posto è a fianco dei fratelli del Sud. Maryland, Delaware, Kentucky e Missouri, territori di confine, cedono, contro i sentimenti della maggioranza, alI’ occupazione militare nordista.
Si fronteggiano l’immensa potenza industriale del Nord e l’indomita volontà di resistere del Sud.
Entrambe le parti confidano in una guerra breve. I settentrionali non possono prevedere i prodigi di valore, di tenacia e fantasia che consentiranno al Sud di resistere per quattro anni. I meridionali, incapaci di concepire un conflitto che non sia improntato alle regole della cavalleria, non possono immaginare quanto sia disumana la guerra dei “bottegai”.
Il Nord difetta di bravi generali: gli affaristi non indirizzano i figli alla carriera militare. Lincoln è costretto a offrire il comando dell’ armata unionista a Giuseppe Garibaldi, che rifiuta.
Il piccolo popolo del Sud, invece, ha soldati impareggiabili, diversi grandi comandanti e un genio militare: Robert Lee. Virginiano, personalmente contrario alla schiavitù e addolorato per la scelta secessionista, non accetta di impugnare le armi contro la sua patria e ne diviene il leggendario difensore.
Non è questa la sede per ripercorrere gli eventi di questo conflitto terribile e sanguinosissimo, che è insieme l’ultima guerra ottocentesca e la prima moderna, in cui l’apparato industriale si rivela il fattore bellico vincente e vengono sperimentate nuove armi: come il primo sommergibile, manovrato da eroici marinai confederati, veri kamikaze ante litteram.
Il tempo gioca a favore del Nord, che dispone di riserve pressoché inesauribili di soldati, attinti in prevalenza fra poveri e immigrati, e che riceve una spinta possente dalla sua industria di guerra, che trae dal conflitto profitti stratosferici. La Confederazione prevale in terribili battaglie, soprattutto all’inizio del conflitto, come quella di Ball Run, in cui splende il valore di due ormai mitiche figure: il generale Beauregard, creolo di lingua francese della Louisiana, e il generale Jackson, della Virginia Occidentale, detto Stonewall (“muro di pietra”).
In questa stessa battaglia combattono con onore i soldati borbonici costretti dai sabaudi a scegliere fra la prigionia e l’arruolamento in America. Essi mostrano ancora una volta il valore del soldato delle Due Sicilie, anche se a difesa di un altro Sud.
Unito in tutte le sue componenti (e questo aspetto segna una spiccata differenza con la situazione del nostro Mezzogiorno, in cui borghesia, notabili e, spesso, alti gradi militari collaborano attivamente con il nemico invasore, alimentando una lunga guerra civile) il popolo del Sud lotta con una determinazione, un’intelligenza e uno spirito di sacrificio insuperabili. In un paese totalmente privo di manifatture e ad economia quasi esclusivamente agricola, si crea dal nulla una poderosa industria bellica da organizzare non già con calma e tempo a disposizione, ma sotto la pressione dell’imminente attacco nemico; si mette poi in opera un vasto sistema di rifornimenti dall’estero di fronte a un avversario che ha fin dal primo giorno il dominio del mare.
Problemi immani, da far tremare e disperare uomini meno energici e risoluti.
Assai significativamente, a fianco dei sudisti si schierano numerose tribù indiane, alle quali la Confederazione promette la creazione di un loro Stato, l’Oklahoma . È un modo intelligente di riconoscere ai nativi americani, vittime di una violenza cieca e disumana, un futuro dignitoso. La vittoria del Nord spegnerà anche questa illusione.
La CSA, pur inizialmente vittoriosa, non riesce, nonostante gli audaci tentativi, di invasione condotti da Robert Lee, giunto fino alle porte di Washington, a infliggere al nemico il colpo decisivo, che potrebbe piegare, nel Settentrione, i fautori della guerra ad oltranza. Strangolato dal blocco sempre più efficace delle sue coste, colpito nelle sue forze vive dalla conquista del Mississippi, che separa dal resto della Confederazione gli immensi territori della Lousiana, dell’Arkansas e’del.Texas, il Sud si esaurisce nelle vittorie mentre il Nord si rinforza nelle sconfitte.
È la strategia che verrà chiamata dell ”’anaconda”, dal nome del serpente che soffoca la vittima nelle sue spire. È una guerra totale, che Lincoln vuole condotta senza esitazioni cavalleresche.
Il Mezzogiorno non viene solo occupato, ma scientificamente annientato. Città, piantagioni, bestiame, infrastrutture, tutto quello che non può essere sottratto viene sistematicamente distrutto.
Su ordine del presidente, Grant e Sheridan fanno terra bruciata e il generale Sherman riduce Atlanta a un cumulo di macerie fumanti.
Proclama: “Un ribelle non ha alcun diritto, nemmeno quello di vivere, senza il nostro permesso”.
Lincoln e Sherman come Cavour e Cialdini: è la sporca guerra degli affaristi.
Nel conflitto hanno perduto la vita 320.000 combattenti del Sud e oltre 200.000 sono rimasti mutilati o invalidi; complessivamente, oltre la metà dell’intero esercito sudista: una cifra addirittura terrificante. Numeri leggermente inferiori a quelli delle vittime nordiste, ma la Confederazione deve arrendersi perché, letteralmente, non ha più uomini a sufficienza per contrastare i nemici.
Alle 15,45 di domenica 9 aprile 1865 ad Appomattox, in Virginia, il generale Lee firma la capitolazione.
Il commiato dalla sua intrepida Armata della Virginia Settentrionale ha gli accenti strazianti di quello di Francesco II dagli eroici difensori di Gaeta.
Più di due mesi dopo, il 23 giugno 1865, si arrende il generale confederato Stand Watie. Ha fatto un punto d’onore di essere l’ultimo. Indiano e sudista, reca la testimonianza dell’assassinio di due nazioni.
Come nelle Due Sicile, gli invasori non si accontentano della vittoria, ma proseguono, negli anni a venire, nella politica di rapina e di asservimento coloniale dei vinti.
È la pace “cartaginese” dei trafficanti e degli usurai; gente che non ha rispetto, ne pietà. Tutto ciò che la comunità degli uomini contempla con meraviglia, costruisce con fatica, colora di passione, circonda di amorevole devozione è da loro sfruttato per freddi progetti di dominio, e poi spazzato via quando non serve più. Dove passano, ogni bellezza si ammala e sfiorisce.
Nell’ ’800 indossano come un abito chic l’eufemistico appellativo di galantuomini, che li ammanta di una rispettabilità profana, da contrapporre alla sacralità di quel potere tradizionale che intendono scalzare. Poi, agguantato lo scettro del comando, lasciano di buon grado che li si raccolga nel grigio concetto di borghesia.
Non c’è un angolo di mondo che sia veramente al riparo della loro cupidigia. Odiano soprattutto i luoghi della tradizione, dove prospera una morale che ostacola i loro traffici.
Scelgono un obiettivo, un’edificante menzogna come paravento, finche serve, e colpiscono duro, spesso lasciando una scia di lacrime e di sangue.
Fonte: srs di ETTORE; da L’ALFIERE dicembre 2009; da pag. 12 a pag. 17
Note varie e bibliografia
Con la rivoluzione industriale i gentlemen si sono procurati i muscoli meccanici di cui hanno bisogno per sradicare dal pianeta ogni civiltà che non accetti la legge della giungla capitalistica.
Nel 1860, col sostegno spregiudicato delle potenze mercantili e massoniche, riescono a sbarazzarsi del Regno delle Due Sicilie. Nel 1865, in Nordamerica, calpestano la libertà del popolo meridionale.
Il Sud degli Stati Uniti, però, non ha mai dimenticato i suoi eroi: le figure di Jefferson Davis, di Robert Lee e di “Stonewall” Jackson sono scolpite sul fianco di una montagna, in Georgia, e i simboli degli stati confederati appaiono ancora su molti edifici pubblici.
L’orgoglio di un grande passato sta ora riaffiorando anche nel nostro Mezzogiorno.
Ma è in tutto il mondo che rinasce il sogno di comunità libere, che rifiutano il potere antiumano dei sacerdoti del dio denaro. E nel cuore degli uomini giusti, che combattono la battaglia della tradizione, meritano di vivere per sempre anche gli eroi della gloriosa Confederazione americana.
- l) Ancora il 21 aprile 1861, a guerra iniziata, la nave Nightindale, di Boston, diretta a New York, viene catturata con un carico di 961 schiavi: Raimondo Luraghi, Storia della Guerra Civile Americana, prima edizione BUR Storia, 2009, pago 48-49.
2) Nel 1858, quindi solo tre anni prima che iniziassero le ostilità, Lincoln, candidato al Senato, si era impegnato, in un famoso dibattito con il concorrente democratico Stephen Douglas, a non “sostenere in alcun modo l’eguaglianza politica e sociale fra la razza bianca e quella nera. C’è fra le due una differenza fisica che, a parer mio, impedirà loro per sempre di vivere assieme su un piede di eguaglianza; e, se una differenza deve esserci, sono favorevole a che la razza cui appartengo sia in posizione di superiorità”. V. Alberto Pisolini Zanelli, Dalla parte di Lee, Leonardo Facco Editore, 2006, pago 20.
3) Raimondo Luraghi, La spada e le magnolie, Donzelli Editore, Roma 2007,
4) Già prima della crisi il futuro Presidente sudista, Jefferson Davis, così si esprime nel senato degli Stati Uniti: “Che cosa vi proponete, signori del partito della terra libera? Vi proponete dei migliorare le condizioni degli schiavi? Niente affatto. Non è l’umanità che spinge… È per avere un’opportunità di umiliarci, che voi volete limitare il territorio a schiavi entro confini circoscritti. È per ottenere la maggioranza nel Congresso degli Stati Uniti e trasformare il governo in una macchina per lo sviluppo del Nord.”
5) Raimondo Luraghi, Storia della Guerra Civile Americana, cit., pag. 81.
6) Raimondo Luraghi, Storia della Guerra Civile Americana, cit., pag. 126 e ss.
7) Da Dominique Venner, Il bianco sole dei vinti, Akropolis, Napoli, 1980,
pag.23.
8) Raimondo Luraghi, La spada e le magnolie, cit., pag. 25
9) Perfino un nemico mortale dei sudisti come Henry Louis Mencken era costretto a scrivere: “Nel Sud c’erano persone di delicata immaginazione, di istinti urbani e di modi aristocratici – in breve, gente superiore – in breve, gentiluomini… Era una civiltà- con molti aspetti eccellenti – forse la migliore che l’emisfero occidentale vide mai – senza dubbio la migliore che questi Stati abbiano mai veduto”. Da R. Luraghi, La spada e le magnolie, cit., pag. 51
l0) Raimondo Luraghi, Storia della Guerra Civile Americana, cit., pag. 254.
11) La Nazione indiana, rappresentata al Congresso confederato dal 9 ottobre 1862, è la tredicesima stella della bandiera sudista: V. Dominique Venner, Il bianco sole dei vinti, cit., pag. 129
12) Alberto Pasolini Zanelli, Dalla parte di Lee, Leonardo Facco Editore, Treviglio (BG), 2006, pag. 152.
13) Dominique Venner, Il bianco sole dei vinti, cit., pag. 163
14) Dominique Venner, Il bianco sole dei vinti, cit., pag. 260
15) Dominique Venner, Il bianco sole dei vinti, cit., pag. 266
Da L’ALFIERE
Fonte: da traditio.it del 2 febbraio 2010