Da quando la parola globalizzazione è entrata nel linguaggio comune, è sorto anche un movimento variegato che ne contesta gli aspetti più drammatici. Inizialmente fu definito popolo di Seattle, dal nome della città canadese dove, alla fine del 1999, si è svolta la prima imponente manifestazione di piazza conto la World Trade Organization (WTO). Da subito fu ridefinito no global, dal momento che indirizzava i suoi attacchi contro le principali istituzioni della global governance, comprese World Bank e International Monetary Fund.
Prima di essere cooptati dal potere mondialista, alcuni suoi promotori amavano definirlo il movimento oppure il movimento dei movimenti. Una volta intruppati nelle schiere dei riformisti, si sono ribattezzati new global o altermondialisti per sottolineare che, non sono contro la globalizzazione, ma ne sognano una diversa.
In una prospettiva antagonista, poco importa analizzare la semantica del movimento o le ragioni della sua crisi attuale. Le giustificazioni dei moderati sono sempre le stesse. Basta rileggere gli strali lanciati da Lenin contro il riformista Karl Kautsky che, in presunti scenari ultraimperialisti, auspicava, non il crollo del capitalismo giunto alla sua fase terminale, ma la sua evoluzione pacifica verso il superamento della povertà e dell’ingiustizia.
Parlare di opposizione, con riferimenti continui alla sua patologia, è tempo sottratto all’indagine sul potere, sulla cui dinamica deve invece concentrarsi continuamente la nostra attenzione se vogliamo capirne le disfunzioni, traducendole in opportunità di liberazione. A tal fine, bisogna innanzitutto capire la sostanza economica della globalizzazione, al di là della sue diverse percezioni, talvolta riduttive e fuorvianti.
La globalizzazione è la strategia produttiva tipica dell’attuale fase del capitalismo.
Consiste nel frammentare la catena del valore tra Paesi diversi, localizzando ogni sua fase nel mercato che offre maggiori vantaggi: manodopera a basso costo, libertà d’inquinare, incentivi fiscali o finanziari, disponibilità di materie prime o tecnologia. Il ciclo produttivo non viene compiuto in un solo Paese, ma si dispiega tra mercati diversi.
Tale strategia è imposta dalla necessità di ricostituire i margini di profitto erosi dalla concorrenza e dai crescenti investimenti, concentrati soprattutto nella valorizzazione del marchio e nella funzione di ricerca e sviluppo.
Una strategia aziendale di questo tipo, per essere attuabile, presuppone la libera circolazione di merci, servizi, capitali e lavoratori. Infatti, se uno Stato limitasse l’import-export di determinati beni o i flussi di capitale, non potrebbe attuarsi alcuna globalizzazione.
Altro suo presupposto è la povertà.
Infatti, se non ci fossero Paesi i cui lavoratori locali sono disponibili a farsi assumere a bassi salari o ad emigrare in altri Stati che offrono maggiori opportunità di lavoro, sempre a bassi salari, anche in tal caso non potrebbe attuarsi alcuna globalizzazione.
E’ evidente che tale modello non risolve il problema del sottosviluppo, come i suoi sostenitori vorrebbero farci credere, perchè si fonda proprio sul sottosviluppo, cioè sull’ineguale remunerazione dei fattori produttivi tra diverse aree geografiche. Tende anzi a perpetuare la povertà e lo sfruttamento, al fine di garantire alla aziende globali sempre maggiori profitti.
Tuttavia la globalizzazione non è che un aspetto, potremmo definirla la connotazione economica, di un’ideologia più ampia: il mondialismo.
Tale termine indica un modello di sistema economico e sociale basato, oltre che sulla mondializzazione del conflitto di concorrenza, anche sulla diffusione planetaria di modelli di consumo e valori omogenei.
Non caratterizza soltanto l’organizzazione aziendale, ma pervade il costume, la società, la politica, l’etica, la religione. In sintesi, i mondialisti ritengono che il legame che unisce un popolo alla sua terra e alla sua tradizione non ha alcun valore, anzi ostacola il progresso dell’umanità.
Auspicano invece la diffusione di un modo di pensare uniforme – il cosiddetto pensiero unico – in maniera tale che, in ogni parte del mondo, vivano individui con le stesse aspirazioni e gli stessi bisogni.
Tale forma di massificazione planetaria consentirebbe alla aziende globali di vendere dovunque gli stessi prodotti e creerebbe il consenso necessario alla istituzione di un governo mondiale, prima occulto o informale, e poi progressivamente manifesto, che tuteli gli interessi della grande finanza.
In tale prospettiva, gli Stati devono rinunciare a componenti essenziali della propria sovranità, come la disponibilità delle proprie risorse economiche e il diritto di opporsi all’ ingerenza nei propri affari interni da parte di Paesi stranieri.
In materia di politica economica, i governi locali devono applicare gli indirizzi formulati dalle organizzazioni internazionali e rendere flessibile il mercato del lavoro con forme contrattuali che istituzionalizzano il precariato e garantiscono alle aziende piena libertà di assumere o licenziare come richiede il mercato. Per il resto, devono limitarsi a gestire la convivenza e i conflitti tra individui di razze e religioni diverse, riscuotere tributi ai vari livelli della pubblica amministrazione, favorire la diffusione del pensiero unico attraverso i mass media, le scuole, le università.
Ogni idea non funzionale alla strategia mondialista viene criminalizzata e repressa.
Il mondialismo quindi non è soltanto un’ ideologia, ma è un progetto perseguito da gruppi di potere, trasversali agli Stati e ai partiti, che dispongono di mezzi finanziari tali da condizionare le scelte compiute dai governi e dalle organizzazioni internazionali. Tale potenza economica deriva dal fatto che, fautori del mondialismo, sono i vertici di banche ed aziende a dimensione multinazionale, che hanno tutto l’interesse a vedere crescere i loro profitti grazie alla globalizzazione dell’economia, senza alcun riguardo per milioni di individui che ne pagano il prezzo in termini di povertà ed inquinamento ambientale.
Uno dei principali aspetti della strategia mondialista è l’immigrazione extraeuropea.
All’origine del fenomeno c’è una fuga dalla povertà e dal degrado ambientale, conseguenze di un modello economico che impone ai Paesi sottosviluppati il ruolo di esportatori di materie prime per l’industria agroalimentare e di importatori di tecnologie obsolete. I governi di quei Paesi, indebitati con le banche internazionali e manovrati dall’oligarchia mondialista, favoriscono l’espulsione di massa di derelitti che approdano in Europa alla ricerca di un lavoro. Molti vengono assunti a salari irrisori, contribuendo a calmierare il costo del lavoro, altri finiscono nella delinquenza e contribuiscono al degrado delle nostre metropoli.
Malgrado i problemi che ne derivano, in termini di conflittualità sociale e ordine pubblico, la classe politica non ostacola i flussi migratori, al massimo cerca di regolamentarli, perché il mondialismo prevede l’imposizione della società multirazziale, che viene presentata come un fenomeno inevitabile, mentre in realtà è soltanto l’effetto di precise scelte economiche.
Infatti la diffusione di modelli di consumo uniformi, presupposto della globalizzazione produttiva, si fonda sullo sradicamento dei popoli e sulla perdita di identità nazionale.
Viceversa il senso d’appartenenza e l’amore istintivo di ogni uomo per la propria gente e la propria terra, portano al rifiuto ideologico del pensiero unico e all’adozione di modelli di sviluppo autocentrati che conducono, non all’economia globale, concetto più teorico che reale, ma a forme di interdipendenza su base continentale.
Considerata la complessità del fenomeno, un movimento di contestazione non può limitarsi a denunciare i limiti della globalizzazione, che rappresenta solo la connotazione economica del progetto mondialista, ma deve affrontarne ogni aspetto, sociale e culturale. Non è difficile capire le cause della povertà e dell’inquinamento, l’importanza di internet, i caratteri della società in rete. Ciò che caratterizza un vero movimento d’opposizione è la coscienza del nesso funzionale tra società multirazziale e globalizzazione, tra l’imposizione di un certo modello sociale e gli equilibri di una certa strategia produttiva che caratterizza il sistema nell’attuale fase storica.
Non è necessario essere razzisti, o diventarlo, per capire a chi giova l’immigrazione.
L’Accademia delle Scienze dell’URSS, in uno studio del 1983 sull’evoluzione del capitalismo, collegava i flussi migratori al fenomeno della sovrappopolazione intesa, non in senso maltusiano come eccesso assoluto di popolazione, ma come surplus di forza-lavoro rispetto alla domanda del capitale. E’ quindi un fatto relativo, giacché deriva dallo sfruttamento imperialista che non permette di occupare la popolazione in modo utile e di garantirle i mezzi di sussistenza.
Richiamando la teoria dell’imperialismo di Lenin, si evidenzia come la sovrappopolazione si manifesti in tre forme fondamentali: in forma fluida – quando gli operai estromessi dal processo produttivo riescono a rientrarvi – in forma latente – quando, non riuscendo a rientrarvi, vivono di espedienti al di sotto della sussistenza – ed infine in forma stagnante – quando sono occupati, ma in forme irregolari o precarie.
Le varie forme di sovrappopolazione generano flussi migratori di lavoratori che cercano in altri Paesi una collocazione ai limiti della sussistenza. Si accontentano cioè di un misero salario pur di sopravvivere.
Le migrazioni nell’ambito del sistema capitalistico mondiale servono così ad aumentare i profitti dei grandi conglomerati. I profitti colossali generati dall’esportazione di capitale in eccesso, e dall’importazione di manodopera in eccesso, accrescono le sperequazioni nella distribuzione della ricchezza.
Se un altro mondo è possibile, come qualcuno continua a dire, non nascerà certo dal miglioramento, ma dalla disintegrazione del sistema produttivo su cui lucrano le oligarchie dominanti.
Fonte: srs di Raffaele Ragni; da Rinascita del 21 maggio 2007