Ermanno Olmi
La 34esima edizione del «12 Apostoli» a Gramellini conferisce il riconoscimento per l’arte al maestro-regista
Scomparsi Mario Rigoni Stern e Andrea Zanzotto, viene naturale affibbiare ad Ermanno Olmi – regista di indimenticati capolavori come L’Albero degli Zoccoli e La Leggenda del Santo Bevitore – l’etichetta di più autentico interprete vivente della civiltà contadina.
Lo scrittore di Asiago (dove lo stesso Olmi vive) e il poeta di Pieve di Soligo sono stati per giunta suoi amici. «Due testimoni che hanno tenuto accesi dei lumicini, coscienti che nell’esagerato fulgore delle metropoli non sarebbero stati notati. Ma quei lumicini, quando quelle luci arroganti si spengono per qualche causa straordinaria, splendono di luce propria», dice Olmi. Ma dei due, il regista non si sente certo l’erede. «No, non facciamo questi accostamenti. Ognuno ha il proprio sentiero, anche se possono tutti essere orientati verso un unico ideale traguardo».
I passi mossi lungo questo sentiero gli sono valsi riconoscimenti importanti: la Palma d’Oro a Cannes, il Leone d’Oro alla carriera a Venezia. Oggi, Ermanno Olmi verrà insignito di un altro premio, meno famoso, ma a lui graditissimo: il «12 Apostoli», giunto alla 34esima edizione, ideato dallo chef dell’omonimo ristorante veronese, Giorgio Gioco.
Un premio atipico, assegnato in una riunione conviviale a tavola con i giurati.
«Il titolo 12 Apostoli è di per sé una seduzione – dice Olmi – Soprattutto è il piacere di incontrare molti cari amici, sederci a tavola, chiacchierare insieme serenamente senza il supporto di ideologia e religione. Cercare conforto nella speranza è un bel modo di dare significato alla convivialità».
Non è facile iscrivere la personalità di Olmi all’interno di categorie precise. Lui stesso si diverte a sfuggire ai confini, anche geografici.
Provate a chiedergli se, visti i suoi natali, si senta lombardo.
«Assolutamente no – dice lui – molti credono che io sia nato a Milano, ma in realtà sono di Bergamo. E per me Bergamo non è Lombardia: sono rimasto fermo al Manzoni, quando chi stava al di qua dell’Adda era nel territorio della Serenissima. Non a caso sulla porta della mia Bergamo c’è il Leone di San Marco ».
Quindi Olmi non è un veneto d’adozione, ma un veneto nel dna?
«Non mi sono mai distaccato da una territorialità che non dico vorrei contrapporre a quella della Padania – risponde – ma che mi porta a ritenermi un veneto saldo nella mia convinzione di appartenere alla Serenissima. Sono un grande ammiratore della Venezia del 1500, una capitale universale di un mondo che già viveva una sorta di globalizzazione, con i mercanti veneti che nobilitavano la loro professione, erano portatori della cultura veneta nel mondo e importatori delle culture del mondo nel Veneto».
Non c’è nessuna contraddizione tra l’ammirazione (e forse la nostalgia) per la città delle città, quella New York del sedicesimo secolo che era Venezia, e l’amore e la sensibilità per il mondo contadino, per le sue tradizioni e i suoi valori oggi a rischio d’estinzione.
«Mio padre era ferroviere e tre anni ci trasferimmo a Treviglio, nella periferia di Milano – racconta – La mia formazione risente così di due mondi diversi ed è stata una grande opportunità: sono vissuto da un lato con l’odore delle macchine, che mio padre aveva addosso quando tornava dal lavoro, e con i buoni odori della stalla, degli orti e delle stagioni che ritrovavo ogni volta che tornavo a Bergamo, dalla nonna materna ».
Si ritiene parte di una generazione fortunata, Olmi:
«Lo ricordavo una sera con Umberto Eco: siamo vissuti in una collocazione temporale straordinaria, a cavallo tra la fine dell’800 e l’era spaziale. Questa fortuna si riflette sulla capacità di giudicare meglio il presente».
Lungi dal cercare rifugio nel passato, Olmi è in effetti un instancabile narratore del presente. Nel suo ultimo film, Il Villaggio di Cartone, racconta di un gruppo di extracomunitari senza permesso di soggiorno che trovano rifugio in una chiesa in via di dismissione, con l’aiuto del vecchio parroco. Potrebbe succedere, chissà, in qualche angolo remoto della campagna veneta, di quelli dove l’antico paesaggio è stato via via snaturato, quando non violentato, dalla modernità.
«Il tratto comune è il mancato rispetto della terra, come luogo indispensabile alla nostra sopravvivenza. Non potremo mai sostituire i frutti della natura con quelli di una natura violentata dalle tecnologie e dalle alchimie che fanno dell’agricoltura una sorta di prodotto industriale. Vorrei suggerire una considerazione di Borges: non credo più nel progresso, che sia un progresso?».
Coerentemente il maestro Olmi, quando siede a tavola, come farà oggi al 12 Apostoli di Verona, non ricerca cibi manipolati e sofisticati.
«Il mio pasto ideale è frugale e genuino: vorrei che un pomodoro fosse un pomodoro, che la pasta fosse di una farina degna – dice – Mi stanno a cuore piatti ingenui ma di alto valore immaginativo, come il pancotto, che le nostre povere nonne preparavano con le croste di pane e di formaggio, magari una cipolla, per farne uno dei piatti più squisiti della cucina naturale ».
Giorgio Gioco, conoscendone i gusti, preparerà oggi per Olmi un piatto che, già dal nome, è tutto un programma: la zuppa del contadino dalle maniche arrotolate. Una definizione che ben si addice a questo veneto-bergamasco di 80 anni, amante della campagna, che ancora ama sporcarsi le mani con il suo arnese preferito, la macchina da presa.
Alessio Corazza
Fonte: da il Corriere del Veneto it, del 22 novembre 2011