Grecia: civili uccisi per rappresaglia
Come si sa, i sogni muoiono all’alba. I falsi miti, invece, che a differenza dei sogni possono servire a qualcosa, sono più duri a morire.
E infatti, fra le maledizioni che ci accompagnano e che puntualmente si ripresentano quando ci si vuole impedire di ragionare, c’è il vecchio, stantio, insopportabile mito del fante italiano buono e generoso che, a differenza dell’odioso e crudele nemico, sarebbe sempre un modello di umanità, ricco di buoni sentimenti e ottime intenzioni. Insomma, l’avrete capito, la solita solfa dell’italiano brava gente.
Purtroppo, invece, la storia del nostro esercito (come del resto la storia di tutti gli eserciti) è piena di episodi che definire infami e vergognosi è un eufemismo.
Dall’Unità di Italia in poi, se si esclude il macello della prima guerra mondiale, l’unica combattuta sul suolo italico nelle terre “irredente”, i nostri soldati hanno continuamente varcato i patrii confini per aggredire popoli e nazioni che non ci avevano neppure dichiarato guerra. E il fatto che dopo l’aggressione l’esercito dovesse quasi sempre rientrare precipitosamente (quando ce la faceva) con le pive nel sacco, lasciando marcire moltitudini di caduti sui campi di battaglia, non toglie nulla alla brutalità dei suoi “interventi”, anche perché, quasi ovunque, sia pure con maggiore o minore frequenza e intensità, si è reso responsabile di crimini di guerra rivolti contro le popolazioni civili.
E questo in tutte le fasi dello stato unitario, l’altro ieri con la monarchia liberale, ieri sotto il fascismo, oggi imperante la democrazia repubblicana.
Ed è evidentemente per questo che, con esemplare coerenza, in tutte le epoche e occasioni, il potere, chiamati a raccolta i suoi corifei, ha dato fiato alle trombe della retorica per coprirsi le vergogne, usando come efficace foglia di fico il mito del “bravo italiano”, sicuro che con il solleticare l’orgoglio nazionale e la presunzione di essere migliori degli altri, si poteva mettere la sordina all’indignazione o a fastidiosi sensi di colpa.
Ma se si usasse di più l’arte della memoria, ci renderemmo conto che l’infamia del militarismo e dei suoi frutti ha colpito duro anche fra i bravi italiani.
A pochi anni dal raggiungimento dell’Unità, perseguita in nome dell’indipendenza dallo straniero e dell’autodeterminazione dei popoli, l’Italia cerca di far assaggiare ad altri la politica di potenza subita precedentemente, dando il via a una impressionante serie di aggressioni militari. Anche se i risultati sono le disfatte che sappiamo, nulla toglie alla gravità delle intenzioni con le quali ci si mosse.
Si comincia con la prima guerra d’Africa, che, fra il 1885 e il 1896, vede l’esercito impegnato nella conquista di Eritrea e Abissinia. Una dura campagna costellata dalle “inevitabili” rappresaglie contro i civili, e interrotta solo dalla disastrosa sconfitta di Adua.
Passati quindici anni, le voglie africane dei governanti, solleticate dal disfacimento dell’impero ottomano, riportano l’esercito sulle coste libiche, alla conquista di Tripoli “bel suol d’amore”.
Nonostante l’opposizione popolare (ben sintetizzata dal nostro Augusto Masetti), le cose vanno un po’ meglio e la Libia diviene la prima colonia. Naturalmente le truppe devono affrontare la guerriglia della resistenza (banditi? terroristi?) la cui repressione porta alla morte e alla prigionia di decine e decine di migliaia di persone. Solo recentemente si è cominciato a parlare delle disumane condizioni in cui vennero lasciati morire come mosche i capi della resistenza nel confino di Lipari.
Terminata la prima guerra mondiale, non sazi del macello appena conclusosi, si invade l’Albania facendone un protettorato. Non è che il prodromo della politica di aggressione del fascismo, che fra i suoi primi atti porta le truppe in Libia, per la conquista dei territori ribelli. La bonomia che ci contraddistinse è testimoniata dall’amore che tuttora i libici portano al civilizzatore romano. E dal fatto che rimane un tabù, nella nostra democrazia, documentare le porcherie a cui si ricorse per piegare la resistenza di quel popolo.
Fatti fuori i libici, si cerca di vendicare l’onta di Adua invadendo l’Etiopia. Già in altra occasione abbiamo avuto modo di parlarne, per cui non serve ricordare l’uso indiscriminato dei gas tossici contro i civili (oggi si chiamano armi di distruzione di massa), il massacro di migliaia di cittadini dopo il fallito attentato a Graziani, la vergogna dello sterminio sistematico dei religiosi copti, rei di infiammare la resistenza.
L’anno dopo, nel 1937, altre truppe accorrono in Spagna in aiuto dei macellai di Francisco Franco. Ci comportiamo talmente bene, che gli stessi fascisti spagnoli devono porre freno alle “esuberanze” degli uomini guidati da Arconvaldo Bonaccorsi.
Passano due anni e si invade l’Albania, e ancora una volta si piega la resistenza degli aggrediti con la distruzione di interi paesi.
Poi si “pugnala alle spalle”, come disse l’opinione pubblica mondiale, la Francia, già piegata dall’invasione nazista.
A breve seguono l’aggressione alla Grecia, l’invasione della Jugoslavia, la campagna di Russia, la terza guerra d’Africa che si concluderà nel disastro di El Alamein.
Una lunga serie di guerre di “conquista”, dunque, segnate, in particolare nei Balcani, dall’attacco contro le popolazioni civili. La vicenda delle foibe carniche, di cui si è tornati a parlare, non rappresenta che il contraltare barbaro della barbara presenza delle nostre truppe in Croazia e Slovenia.
Ma già, questa è acqua passata. Oggi, in regime democratico e scomparso il mostro comunista, il nostro compito sulla scena internazionale diventa quello di esportare libertà e democrazia ovunque si renda necessario. O meglio, ovunque risiedano gli interessi dell’amico americano.
Da italiani brava gente ci trasformiamo in peacekeepers, le aggressioni alla Serbia, alla Somalia, all’Iraq, all’Afganistan, cambiano nome e diventano operazioni umanitarie, guerre preventive, libertà durature. Il bombardamento delle città, le operazioni di polizia, i rastrellamenti, con un colpo di bacchetta magica, si trasformano nella rassicurante presenza dei nostri bravi soldati e carabinieri impegnati a impedire agli adulti di farsi male da soli e a distribuire caramelle e palloncini ai bambini.
E ancora una volta ci si rovescia addosso l’apparato propagandistico del sistema: l’intervista alla fidanzata del caporale, le dichiarazioni orgogliose del generale, l’encomio solenne del Martino di turno, la barbara crudeltà del nemico, l’affetto che ci portano le popolazioni invase, l’ammirazione degli altri contingenti, la stima del presidente americano per il nostro “buon lavoro”… Insomma, la solita roba necessaria a nascondere sotto la maschera del buonismo democratico l’aggressione a mano armata contro paesi che non si sono mai sognati di dichiararci guerra.
Ma questo gioco mistificatorio a volte, e capiterà sempre più spesso, si rompe di fronte alla tragicità della situazione reale. Come in questi giorni a Nassirya, dove, per fronteggiare l’inevitabile rivolta degli iracheni contro le truppe di occupazione italiane, non si è esitato a far fuoco indiscriminatamente, uccidendo anche pericolosissimi donne e bambini. Questo macello (di cui, guarda caso, in epoca di totale sovraesposizione mediatica, non ci è giunta neppure un’immagine), non vuol dire comunque che siamo peggio di altri, ma solo che per qualsiasi esercito di occupazione, fatto o meno di brava gente, (e qui sta la disumanità di questa come di tutte le guerre) la rappresaglia e l’aggressione contro i civili sono strumenti indispensabili per mantenere sottomessi gli aggrediti.
Del resto, se non fosse questa la volontà vera per la quale siamo andati ad uccidere e farci uccidere in Iraq, come non dare ragione a quello sceicco di Nassirya che, con finta ingenuità, ha recentemente affermato: “Gli italiani si presentano come forza di pace? Ma allora perché non ritirano l’esercito e non mandano organizzazioni umanitarie civili? Le accoglieremmo a braccia aperte”. Forse la risposta è che noi italiani siamo talmente brava gente che siamo anche disposti a uccidere e farci uccidere… per il bene altrui.
Fonte: da Umanità Nova, numero 14 del 25 aprile 2004, Anno 84.