L’ultimo libro di Angelo Del Boca
IL FALSO MITO DEGLI “ITALIANI BRAVA GENTE” CRIMINI ED IMPRESE DELITTUOSE DEGLI ITALIANI IN PATRIA E ALL’ESTERO IN 150 ANNI DI STORIA NAZIONALE
“Gli italiani sono diventati peggiori dei tedeschi”. Questa è solo una delle tante testimonianze raccolte durante l’occupazione delle truppe italiane in Slovenia, tra l’aprile del 1941 ed il settembre del 1943. Era contenuta in un rapporto “riservatissimo” di un funzionario civile indirizzato all’alto commissario per la provincia di Lubiana. Nell’arco appena di due anni, nel solo territorio di Lubiana, furono almeno 1000 gli ostaggi fucilati dall’esercito italiano, 8000 le persone eliminate, 3000 le case incendiate e 800 i villaggi completamente devastati, 35.000 i deportati in Italia nei campi di concentramento, tra loro moltissime donne e bambini. Nel solo lager di Arbe perirono di fame in più di 4500. Sono le cifre spaventose e crudeli di un tentata “bonifica etnica” che ha visto protagonista il nostro paese, documentata da Angelo Del Boca nel suo ultimo libro “Italiani, Brava gente?” (Neri Pozza Editore, 318 pagine, 16 euro).
LA GUERRA AL “BRIGANTAGGIO”
La ricerca di Del Boca, il maggior storico del colonialismo italiano, spaziando in 150 anni di storia nazionale, dal processo di unificazione alla seconda guerra mondiale, ha preso in esame solo alcune fra le più gravi imprese delittuose compiute dagli italiani in patria e all’estero. Il quadro che ne emerge dimostra come il nostro popolo si sia comportato in modo brutale, esattamente come altri popoli in circostanze analoghe. Sotto accusa il falso mito dell’italiano “buono”, una sorta di “artificio ipocrita”, dietro il quale si sono consumate, ma anche nascoste infamie di ogni tipo.
Indicando fonti ed una ricchissima bibliografia, questo “viaggio allucinante”, dopo un’ampia introduzione sul difficile cammino degli italiani verso l’unità del paese, inizia proprio da casa nostra, dalla cosiddetta guerra al “brigantaggio”. Una pagina poco studiata e soprattutto colpevolmente misconosciuta, forse per non intaccare altri miti risorgimentali.
Il movimento di rivolta ebbe inizio subito dopo l’unificazione, nel 1861 in Basilicata. Animato da bande entro cui erano confluiti migliaia di soldati dell’esercito borbonico, accanto a “braccianti senza terra e paesani che rifiutavano la leva obbligatoria e gli inasprimenti fiscali”, si estese rapidamente alle altre regioni del sud. Per reprimerlo furono inviati più di centomila soldati, al comando del generale Enrico Cialdini, “terrorizzando le popolazioni che davano rifugio ai fuorilegge e spesso incendiando i loro villaggi e le loro masserie, e procedendo infine a fucilazioni senza processo o con sbrigative sentenze emesse sul campo dai tribunali militari”. Le esecuzioni dei “briganti” avvenivano solitamente “nella piazza principale dei paesi dinnanzi a folle atterrite”.
A Pontelandolfo e a Casalduni, in provincia di Benevento, il 14 agosto 1861, per rappresaglia dopo uno scontro che vide soccombere un ufficiale e 44 soldati, furono massacrati centinaia di inermi, molti, tra loro, quelli bruciati vivi, stuprate le donne, saccheggiata la chiesa. Di Pontelandolfo, abitato da seimila anime, non rimase in piedi che qualche casa. L’ordine era stato perentorio: “di quei due paesi non rimanga più pietra sopra pietra”. Per quelle stragi non ci fu alcun processo.
Le statistiche sulle vittime di questa campagna, che si protrasse fino al 1865 ed in qualche regione fino al 1870, risultano ancora oggi “scarse e sicuramente incomplete”.
Una stima ritenuta attendibile parla comunque di 9.863 fucilati, 10.604 feriti e 13.629 arrestati. Fu in realtà, dice Del Boca, “una guerra di tipo coloniale, che anticipò, per inaudite violenze e il disprezzo degli avversari, quelle poi combattute in Africa”. Una specie di apprendistato.
IN AFRICA ORIENTALE
L’Italia sbarcò in Africa con propri corpi di spedizione negli ultimi decenni dell’ottocento. La prima impresa porta la data del febbraio 1885 con l’invio dei primi contingenti per prendere possesso del porto di Massaua in Eritrea. Successivamente nell’ottobre del 1911 prese il via la campagna per la conquista della Libia.
Non ci fu alcuna “missione civilizzatrice” ma solo una brutale segregazione delle popolazioni locali, costrette al lavoro forzato e a subire il sistematico saccheggio delle proprie ricchezze. In Eritrea furono allestiti campi di detenzione per migliaia di oppositori, tra gli altri il famigerato penitenziario di Nocra, ma anche tollerata la tratta degli schiavi, i cui scambi venivano registrati con tanto di marche da bollo italiane.
In Libia furono erette forche ovunque. Migliaia le sentenze capitali arbitrariamente eseguite ed innumerevoli le rappresaglie. La deportazione di libici in Italia nelle isole Tremiti rappresentò una delle pagine più vergognose di questa oppressione coloniale, all’origine di centinaia di decessi anche fra vecchi e bambini. In un rapporto di un tenente colonnello al proprio generale si arrivò anche in quegli anni a scrivere di distinti ufficiali che raccontavano orgogliosi di “arabi trovati feriti gravemente inondati di benzina e bruciati”, di altri “gettati in pozzi e chiusi dentro”, di “fucilati senza alcuna ragione che quella di un feroce capriccio”.
In Libia, Eritrea, Somalia ed Etiopia intere regioni furono messe a ferro e fuoco. Si bombardarono i civili e si deportarono, come nel caso della cirenaica, intere popolazioni, costringendo migliaia di persone a marce forzate di oltre mille chilometri, imprigionando in campi di concentramento, allestiti in territori torridi e malsani, oltre 90 mila persone. Nella lunga guerra di aggressione all’Etiopia furono utilizzati gas e micidiali armi chimiche, proibite dalla convenzione di Ginevra. Tonnellate e tonnellate di bombe per l’aeronautica caricate ad iprite e granate per l’artiglieria piene di arsine. In questo quadro anche la strage di duemila preti e diaconi assassinati nella città conventuale di Debra Libanòs, a seguito di un attentato, ad Addis Abeba, al “viceré d’Etiopia” Rodolfo Graziani, che scatenò la “più furiosa e sanguinosa caccia al nero che il continente africano avesse mai visto”. Tre giorni in cui si massacrarono, secondo fonti etiopiche, circa 30.000 persone.
UNA STIRPE DI CRUDELI GUERRIERI
“Le responsabilità di questi brutali comportamenti” – asserisce Del Boca – “vanno soprattutto addebitate a minoranze che perseguivano, spesso a imitazione di progetti stranieri e coevi, programmi di espansione imperialistica e, all’interno del paese, l’edificazione di uno Stato forte, in grado di competere con le nazioni vicine e persino di esportarvi la propria dottrina”.
Una chiave di lettura che rimanda alla storia delle nostre classi dirigenti, alle sue ottuse caste militari, ai suoi criminali di guerra, come Luigi Cadorna, il “macellaio”, tra i principali responsabili del sacrificio, nel primo conflitto mondiale, di quasi 800.000 soldati, fra morti, feriti e prigionieri, mandati allo sbaraglio in ripetute quanto insensate “spallate” sul fronte dell’Isonzo.
Rimanda soprattutto alla responsabilità di chi favorì l’ascesa del fascismo e di Benito Mussolini, il delirante cultore della “trasformazione di una popolazione, come quella italiana, ancora prevalentemente contadina e complessivamente mite, in una stirpe di crudeli guerrieri”.
Le centinaia di foto rinvenute nelle tasche dei soldati italiani fatti prigionieri dagli etiopi, in posa e sorridenti davanti a patiboli con cadaveri ancora penzolanti o reggendo teste mozzate, con sul volto il disprezzo tipico dei razzisti, sono ancora lì a dimostrare quanti orrori abbia potuto produrre questa tentata mutazione antropologica.
Anche la cosiddetta “resa dei conti” che, anni dopo, accompagnò la caduta della RSI, riporta al lungo accumulo di violenza prodottasi nel ventennio fascista. Si “riannoda” come reazione “al manganello, alla pistola, al pugnale, alla bomba a mano, ossia agli strumenti delle squadracce antemarcia”, ai 600 giorni di Salò e alla ”pubblica esibizione dei corpi degli impiccati e dei fucilati” nelle repressioni antipartigiane, alla vergogna degli ebrei italiani consegnati ai tedeschi e caricati sui treni diretti ai campi di sterminio. Una violenza che ha finito per “ritorcersi” su chi l’ha praticata. Anche se “non risulta” – sottolinea opportunamente Del Boca – “che la Resistenza abbia avuto le sue ‘ville tristi’ o che abbia praticato la tortura”.
Le cifre, finalmente basate non su fantasiose esagerazioni e strumentalizzazioni di parte, ma su dati ufficiali, attendibili e comparabili, indicano in poco più di 9 mila i caduti di parte “repubblichina” in questo periodo, a fronte dei 4.000 partigiani, uccisi solo tra il 25 aprile e il primo maggio, “ossia il 10 per cento delle perdite dell’intera guerra di liberazione”.
IL FILO NERO
Ma questo filo nero, intessuto di infamie di ogni tipo, non si è spezzato neanche dopo. L’Italia è stato il paese che pur subendo, nella seconda guerra mondiale, oltre 400 stragi da parte dall’esercito tedesco in fuga, affiancato in questa carneficina da SS e fascisti, con almeno 15 mila vittime fra la popolazione civile, ha deciso scientemente di occultare, attraverso decisioni governative, tutta la documentazione relativa ai responsabili, garantendo agli aguzzini un’assoluta impunità. E’ la stessa nazione che ha negato ai governi della Jugoslavia, Albania e Grecia, la lunga lista dei propri criminali di guerra. L’unico paese in Europa occidentale che ha conosciuto nel dopoguerra un feroce terrorismo stragista di marca fascista, con centinaia di vittime innocenti, nel contesto di ripetuti tentativi di eversione dell’ordine democratico con il coinvolgimento di ampi settori dello Stato, non riuscendo mai ad ottenere giustizia nella aule dei suoi tribunali.
Il mito degli “italiani brava gente” ne esce, in conclusione, in frantumi. Un popolo, il nostro, né migliore né peggiore di tanti altri.
Un ultima annotazione. Il libro di Angelo Del Boca meriterebbe certamente di essere adottato come testo nelle scuole medie superiori, oltre che inserito nei corsi per gli studi universitari. Non è il solo lavoro pregevole di questi anni su aspetti poco conosciuti o travisati della storia del nostro paese. Citiamo, fra gli altri, “Italiani senza onore” di Costantino Di Sante (Ombre Corte Edizioni), “Operazione ‘Foibe’. Tra storia e mito” di Claudia Cernigoi (Kappa Vu Edizioni) e “Un campo di concentramento fascista. Gonars 1942-1943” di Alessandra Kersevan (Kappa Vu Edizioni). Ciò fa ben sperare.
Fonte: srs di SAVERIO FERRARI da Redazione Osservatorio Democratico, redazione; Milano, 28 novembre 2005
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