La tomba di Giuseppe della Scala nel chiostro di S. Zeno
La fortuna storiografica di Giuseppe della Scala, il figlio illegittimo di Alberto I che resse il monastero zenoniano dal 1292 al 1313, è legata si può dire in modo esclusivo al duro giudizio che di lui dà Dante Alighieri nei versi notissimi di Purg. XVIII, laddove Gerardo, che fu abbate di S. Zeno in Verona al tempo del «buon Barbarossa», accomuna nella condanna Giuseppe, «mal del corpo intero/ e della mente peggio, e che mal nacque», e il padre suo Alberto, «che tosto piangerà quel monastero,/ e tristo fia d’avere avuta possa» giacché lo «ha posto in loco di suo pastor vero» sul seggio abbaziale.
Fra Otto e Novecento, alcuni validi contributi eruditi dovuti a G. Gerola e L. Rossi, a G. Biadego e a G. Da Re., hanno fornito un’ampia messe di dati documentari, riguardo a questo Scaligero, soprattutto attraverso accurati spogli del materiale archivistico di S. Zeno.
Grazie a queste ricerche i dati biografici essenziali di Giuseppe della Scala furono stabiliti in modo definitivo.
Nato verso il 1263, Giuseppe divenne all’età di vent’anni priore del monastero cittadino di S. Giorgio in Braida, a seguito di una dispensa vescovile (poi confermata da un breve di Onorio IV nel 1286) che lo proscioglieva dalla irregolarità canonica legata alla sua nascita illegittima.
Dal marzo 1292 alla morte – occorsa tra il maggio e il novembre 1313 – resse in qualità di abbate il monastero di S. Zeno; nel 1311, come ha posto in luce di recente il Brugnoli, fu anche contemporaneamente «rector ed administrator» di S. Giorgio in Braida.
In ripetute occasioni ricoprì incarichi ecclesiastici di una certa responsabilità: nel 1291 delegato pontificio per una questione inerente ad un canonicato della cattedrale di Verona, nel 1299 fu collettore della decima papale, nel 1308 fu, per mandato di Ottobono patriarca di Aquileia, visitatore del clero regolare veronese, come ha documentato il Sancassani.
La più recente sistemazione critica delle conoscenze intorno a Giuseppe della Scala è dovuta a G. Arnaldi e ad E. Chiarini, rispettivamente nelle «voci» Della Scala e Della Scala Alberto e Giuseppe dell’Enciclopedia Dantesca (1970), e si basa sulla maggior parte delle notizie sopra riferite.
Sul piano dell’accertamento dei fatti, soltanto lo Hagemann ha apportato in seguito un elemento nuovo, rendendo noto l’episodio del 1291 sopra ricordato, allorquando Giuseppe della Scala è incaricato di deliberare sulla controversia fra un chierico veronese, Gerardo di S. Giovanni in Foro, ed Alboino della Scala, suo fratellastro, relativamente al canonicato goduto dallo Scaligero.
Al di là dell’ovvia componente dinastico famigliare che operò in questa sua designazione a delegato, la circostanza serve non solo a confermare una volta di più l’inattendibilità di quel giudizio di «seminsanus» di cui Pietro di Dante gratifica Giuseppe della Scala, ma rafforza quanto già osservato dal Chiarini sulla base dei documenti del 1299 e del 1308 resi noti dal Sancassani, e cioè che «i documenti relativi al governo dell’ abate non offrono, nel loro insieme, argomenti apprezzabili alla mala fama di lui. Alcuni, da poco venuti in luce, parrebbero anzi smentirla» (p. 360).
Giuseppe della Scala era insomma abbastanza affidabile perché la Curia o il patriarca gli affidassero più volte incarichi non certo di particolare rilievo, ma comunque di normale delicatezza ed importanza.
D’altronde, e per converso, alcuni elementi pure emersi di recente conferiscono maggiore attendibilità al «truce episodio» (Chiarini) riferito da Benvenuto Rambaldi da Imola, del quale fu probabilmente protagonista Giuseppe: insofferente della pusillanimitas del fratellastro e signore Alboino, egli avrebbe sterminato non pochi esponenti dei Sambonifacio, conti di Verona, ad Isola della Scala.
Non molto plausibile, per varie ragioni, se riferita ai Sambonifacio, la strage appare invece assai più verosimile se si suppone che ne siano stati vittime i da Palazzo, l’altra famiglia comitale veronese, che ad Isola della Scala esercitò in antiquo diritti signorili e possedette beni cospicui.
L’indagine archivistica dunque, forse, non del tutto chiusa, anche se recenti sondaggi – come quello del Brugnoli sulle pergamene di S. Giorgio in Braida, dal quale ci si sarebbe potuto aspettare qualche lume sull’introduzione di Giuseppe in quel monastero – si sono rivelati deludenti. Ma a prescindere da eventuali ulteriori complementi biografici, si può sin d’ora osservare che l’intera vicenda di Giuseppe, e in particolare l’abbaziato zenoniano, va riesaminato nel quadro più ampio della politica ecclesiastica scaligera: una prospettiva che mancava completamente ai pur essenziali contributi degli eruditi otto-novecenteschi.
Lo sottolineava implicitamente già l’Arnaldi, rifiutando si di vedere nell’imposizione di Giuseppe in S. Zeno semplicemente «un atto d’imperio» volto a collocare «un prodotto mal riuscito della famiglia … in una situazione economicamente vantaggiosa, ai margini della vita politica attiva» (p. 352); e rimarcando che «d’interessamento dei Della Scala per S. Zeno è troppo costante perché ci si possa accontentare di una tale spiegazione» (ibid.), a partire dall’ abbaziato di Pietro, predecessore di Giuseppe, ritenuto un illegittimo di Mastino I ed identificato col Pietro della Scala vescovo di Verona dal 1291 al 1295.
È più che opportuno ribadire l’interesse politico dei signori di Verona per S. Zeno, in particolare con riferimento ai cospicui beni posseduti dal monastero al confine con il e nel territorio mantovano, ed ai rapporti con i Bonacolsi signori di Mantova (anche S. Giorgio in Braida, ove Giuseppe fu priore come si è detto dal 1284, aveva del resto consistenti beni a Trevenzuolo, presso il confine mantovano).
Ma è possibile anche precisare meglio i tempi e i modi dell’ articolato rapporto fra gli Scaligeri e S. Zeno in questi anni: rapporto che per ora non fu, puramente e semplicemente, di sfruttamento e di rapina. È vero infatti che un documento del 12 aprile 1282 (edito già dal Verci e noto anche al Fainelli) mostra Pietro abbate, nella chiesa di S. Andrea di Villimpenta, protestare «coram Deo et angelis suis et beato Zenone» riguardo ai beni di S. Pietro in Valle, che «sunt specialiter de camera monasterii S. Zenonis», mai infeudati a memoria d’uomo (a differenza di altri beni, da sempre concessi in feudo): proprio tali beni egli («ob timorem mortis et corporis cruciatus et metum amissionis omnium rerum suarum et publicationis omnium bonorum dicti monasterii et metum exulationis», per le minacce rivoltegli da Alberto della Scala, Zuagnino Bonacolsi podestà di Verona e Pinamonte Bonacolsi capitano del popolo di Mantova) è costretto («compellor») ad infeudare, dare e locare a Pinamonte.
Tuttavia, contemporaneamente o pochissimo dopo, si incontrano restituzioni di beni a S. Zeno effettuate – non nella zona di pianura al confine con Mantova – dal comune di Verona (1282, beni nei Lessini: certo non senza l’avallo di Alberto; 1288 e 1289, S. Vito di Negrar) ed espliciti interventi di Alberto della Scala in favore del ripristino patrimoniale dell’ente (1289). Con una mano dunque si impongono le infeudazioni politicamente importanti, con l’altra si restituisce o si fa restituire (forse già progettando – ma la cosa è ovviamente indimostrabile – un successivo più diretto controllo).
Ora, la circostanza – che ci è occorsa di recente di accertare – che il citato Pietro (abbate per un lunghissimo periodo, dal 1252 al 1291) non solo non fu uno scaligero, ma non va neppure identificato con quel «Petrus de Scala de Bergamo» che fu vescovo di Verona dal 1291 al 1295 (come ha irrefutabilmente provato W. Hagemann) contribuisce anch’ essa a mutare i termini del discorso, specialmente quando si tenga conto del fatto che anche un’ altra tradizionale opinione (secondo la quale anche il frater Bartolomeo, vescovo di Verona fra il 1278 e il 1290, sarebbe stato un Della Scala) va con ogni probabilità revocata in dubbio.
Ne viene sfumato infatti il quadro di un dominio pieno ed incontrollato di Alberto sulle istituzioni ecclesiastiche locali (sfumato, non certo annullato, giacché quell’abbate e quei vescovi, non sono certo nemici, anzi; ma non sono membri della famiglia). E ne deriva dunque un contesto nel quale le imposizioni di Giuseppe in S. Giorgio e, otto anni più tardi, in S. Zeno (in luogo del «pastor vero»: chi? forse Pietro, il predecessore? non si dimentichi che S. Zeno aveva, all’epoca, un solo altro monaco oltre l’abbate Pietro) risultano un unicum; nulla di simile risulta esser accaduto in altri enti monastici cittadini, pur controllati di fatto (come S. Maria in Organo, e forse anche S. Nazaro e Celso). Va dunque in qualche misura rivalutata la motivazione personalistica, «nepotistica» del controllo su S. Zeno; che si inserisce su, e coesiste con, quella più complessiva di carattere politico.
Come ha osservato il Castagnetti, durante l’abbaziato di Giuseppe continua sì il ripristino dei diritti del monastero e la sua risistemazione patrimoniale, già iniziata sotto Pietro, negli anni ’80; ma le concessioni di feudi a seguaci ed amici – della famiglia scaligera nel suo complesso, o in particolare di Giuseppe – si intensificano solo con l’abbaziato di quest’ultimo. L’allargamento della prospettiva giova insomma ad una riconsiderazione complessiva della vicenda di Giuseppe della Scala.
Così come le gioverebbe un’indagine più approfondita della piccola «corte» della quale egli si circonda nel ventennio di abbaziato: un ambiente che, ad una prima sommaria ricognizione, sembra ristretto ma politicamente e socialmente qualificato.
Fra gli investiti di beni del monastero (fra i quali figurano, non sorprendentemente, collaboratori di Alberto della Scala o loro famigliari: Federico Cavalli e il figlio Nicola, Bartolomeo di Bernardo Ervari, i notai Bonafino del fu Ivano «de Berinço» e Antonio «de Costregnano», quest’ultimo vicario della curia episcopale) è possibile trovare qualche amicus dell’abbate: è il caso, in limine dell’abbaziato (1292), di Pietro da Marano Vicentino, poi detto il Nano: nei decenni successivi cortigiano scaligero di lungo corso e di provata fiducia (resterà a Verona sino agli anni’ 30 del Trecento; sarà implicato in certi celebri processi viscontei, per aver compiuto sortilegi allo scopo di far morire papa Giovanni XXII). Ma queste sono cose note.
Meno o per nulla nota è invece la presenza a fianco di Giuseppe, in qualità di testimoni alle investiture feudali spesso in modo reiterato, tale da suggerire consuetudine se non continuità di residenza, di fuorusciti di varie città, oltre che ovviamente di veronesi: bolognesi di famiglie prestigiose come i Principi e i Carbonesi, ma anche cremonesi come Soncinello del fu Buoso da Dovara.
Diversi di questi personaggi sono gratificati del titolo di domicellus, ad indicare un rapporto di familiarità/dipendenza (pur nell’impossibilità di precisarne, almeno per ora, l’accezione) dall’abbate.
Annotiamo qui en passant che la presenza del da Dovara (costantemente definito domicellus) potrà forse interessare i dantisti, giacché la presenza del figlio del noto ghibellino cremonese (condannato da Dante nell’Antenora, fra i traditori della parte: Inferno XXXII) in Verona, a strettissimo contatto con Giuseppe – anch’egli duramente bollato, dai versi di Purgatorio XVII – è attestata anche negli anni 1303-4, quando l’Alighieri (che non aveva ancora scritto la prima cantica) soggiornò la prima volta a Verona, ricavando quelle impressioni negative che dovevano condurlo ai pesanti giudizi su Alboino, Alberto e Giuseppe. La circostanza, in sé certo di scarso rilievo, può essere però indizio dell’opportunità di un riesame della documentazione sulla base di nuovi interessi.
Il chiostro di San Zeno eretto ai tempi dell’abbate Giuseppe della Scala
NOTA BIBLIOGRAFICA
La presente nota riprende alcuni spunti presenti nella «voce» Della Scala Giuseppe, da me redatta per il Dizionario biografico degli italiani, in corso di stampa.
Rinviando ad essa per più complete indicazioni bibliografiche, nonché ai citati lavori di G. ARNALDI, Della Scala, in Enciclopedia dantesca, II, Roma 1970, pp. 351-54, ed E. CHIARINI, Della Scala Giuseppe e Della Scala Alberto, ibid., pp. 359-60 e 354-55 rispettivamente, segnaliamo qui i soli lavori pubblicati dopo il 1970 e citati o utilizzati nel testo (in ordine di menzione):
– P. BRUGNOLI, Priori e abati scaligeri nel monastero di S. Giorgio in Braida di Verona, «Studi storici Luigi Simeoni», XXXV (1985), pp. 67-77;
– W. HAG EMANN, Documenti sconosciuti dell’Archivio Capitolare di Verona per la storia degli Scaligeri, in Scritti in onore di mons. Giuseppe Turrini, Verona 1973, pp. 382-83, regesti n. 71-72 (per l’arbitrato del 1291);
– G. M. VARANINI, Della Scala Giuseppe, cit. (per l’episodio della strage di Isola della Scala);
– G.B. VERCI, Storia della Marca trivigiana e veronese, VII, Venezia 1787, pp. 22-23 nota 1 (per il documento del 12 aprile 1282);
– G.M. VARANINI, La Valpolicella dal Duecento al Quattrocento, s.1. 1985, pp. 143 e 147 e note (per le referenze circa la reintegrazione del patrimonio), pp. 170-71 (per Pietro abbate e per i vescovi Bartolomeo e Pietro «de Scala»), ancora pp. 143-44 (per P. Nan da Marano);
– A. CASTAGNETTI, I possessi del monastero di S. Zeno di Verona a Bardolino, «Studi medievali», s. 3 a, X, (1972), pp. 132-34 (per l’attività amministrativa di Giuseppe);
– G. M. VARANINI, La Valpolicella dal Duecento al Quattrocento, s.1. 1985, pp. 170-71 (per Pietro abbate, Pietro «de Scala» vescovo, Bartolomeo vescovo), pp. 143-144 (per l’investitura a Pietro Nan da Marano);
– ARCHIVIO DI STATO DI VERONA, Orfanotrofio femminile, Abbazia di S. Zeno Maggiore, reg. 1.3, cc. 92 e ss.; reg. 5.1., cc. 48r, 49r, 54r, 55r, 56r … (per l’entourage di Giuseppe della Scala a S. Zeno).
Fonte: srs di Gian Maria Varanini da Annuario Storico Zenoniano 1986