P R I M A P A R T E : LA VICENDA STORICA DEI CAZARI
“In Cazaria pecore, miele ed Ebrei si trovano in grande abbondanza”.
Ce lo dice Al-Muqaddasi, geografo arabo del X secolo nella sua “Descrizione per la conoscenza delle regioni”, parlando di una regione, a nord del Caucaso, estranea a qualsiasi girovogare nomadico degli Ebrei storici, e di un popolo, i Cazari, la cui lingua e cultura turche rendono improponibile qualsiasi apparentamento etnico con essi, tribù perdute comprese, stavolta davvero inutilizzabili per eventuali operazioni di equilibrismo etnico-geografico.
Va poi detto che nel X secolo gli Arabi si avvantaggiano di conoscenze ormai inaccessibili per gli Europei, per esempio sanno che nel VI secolo, prima dell’islamizzazione, lo Yemen è stato governato da una dinastia non di etnia giudaica, ma che adottò l’ebraismo come religione di stato, e che anche in Etiopia l’ebraismo fu più volte, durante il primo millennio della sua cristianizzazione, sul punto di sostituire il cristianesimo come religione di stato, e forse per qualche tempo vi riuscì pure, sebbene la cosa sia stata poi abilmente occultata dalle fonti abissine cristiane. Quindi, in un musulmano del X secolo non destava alcuna particolare meraviglia ritrovare sul trono di un regno importante una dinastia che professava la religione ebraica.
Un altro validissimo testimone del X secolo ci viene in aiuto, nientemeno che un imperatore bizantino, e non tra i meno illustri. Nel “De caerimoniis aulae byzantinae” il dottissimo, benché alquanto pedante, Costantino VII Porfirogenito (913-959) ci dice che, se per le missive al papa di Roma ed all’imperatore d’Occidente bastava un sigillo d’oro del valore di due solidi, per quelle al kakhan cazaro ne occorreva uno da tre solidi, a testimonianza del peso diplomatico del regno cazaro (e questo benché nel X secolo fosse ormai, come vedremo più avanti, in pieno declino).
Ma allora chi sono questi Cazari tanto potenti da incutere rispetto nel vicario di Dio in terra?
Ancora testimonianze. Il nordafricano Ibn-Said Al-maghribi: “Hanno carnagione bianca, occhi azzurri, capelli fluenti, prevalentemente rossastri, corporatura robusta e temperamento freddo. L’aspetto generale è selvaggio”. Il georgiano Abo di Tiflis: “Uomini barbari, con facce orrende e maniere da bestie selvagge, bevitori di sangue”.
Una cronaca armena anonima: “…facce larghe, insolenti e senza ciglia, dai lunghi capelli che ricadono come quelli delle donne”.
Ancora un arabo, Al Istakhri: “Non assomigliano affatto ai Turchi. Hanno i capelli neri e si distinguono in Kara-Kazar (Cazari Neri) con la carnagione scura tendente al nero come se fossero una specie di Indiani, e Ak-Kazar (Cazari Bianchi), tra i quali trovansi individui di sorprendente bellezza”.
Dunque, testimonianze discordanti che però, nel loro contraddirsi, ci dicono che siamo di fronte ad una confederazione tribale di composita formazione etnica, secondo un modello brevettato secoli prima dagli Unni e che sarà portato alla massima perfezione da Gingiz Khan. Un nucleo dominante formato dalla tribù di un capo carismatico e dal “cerchio magico” di altre tribù alla prima più strettamente legate da vincoli etnici, o parentali per alleanze matrimoniali tra esponenti delle famiglie dei khan, o perché trattasi di tribù precedentemente dominanti, ma scalzate dal capo di un’ex-tribù vassalla ad un certo punto divenuto tanto autorevole da capovolgere i rapporti di forza, ma con l’accortezza di mantenere l’alleanza con l’ex-tribù dominante, in modo da avvalersi in proprio del suo antico prestigio politico e della preesistente rete di alleanze e vassallaggi. Poi, in cerchi concentrici che si allontanano sempre più dal centro, una galassia di tribù rese vassalle e tributarie, spesso di primo e secondo grado (nel senso che le prime, oltre al o invece del proprio tributo, hanno l’incarico di riscuotere quello di tribù ancora più lontane dal centro della confederazione, che poi girano al kakhan), con una varietà etnica che giustifica l’ambiguità delle descrizioni sopra citate, dove, attorno ad un nucleo generalmente turco da poco arrivato dalle steppe centroasiatiche, si coagulano etnie turche già insistenti da tempo sul territorio, ma anche iraniche, slave, finniche e, nel caso dei Cazari, forse perfino scandinave. Con la distinzione tra Neri e Bianchi che, più che a caratteristiche etniche, corrisponde al grado maggiore o minore di vicinanza al centro della confederazione.
Nomadi, dunque, come rivela la radice turca “gaz = errare”, comune anche al russo kasak (usato secoli dopo per definire una classe sociale, i Cosacchi, ma anche un altro popolo nomade, i Kazaki), al magiaro “huszar = ussaro, ossia cavaliere nomade”, e perfino al tedesco “ketzer = eretico, anche ebreo” (indizio interessante, quest’ultimo, per la questione dell’origine degli ashkenaziti, che si affronterà più avanti). E Turchi, con certezza, sia pure nel senso più linguistico che strettamente etnico della parola, visto il delineato carattere composito del formarsi delle etnie turcofone.
I Cazari probabilmente sono una delle tante tribù centroasiatiche che si spostano nel V secolo verso occidente come vassalli degli Unni (nel racconto di Prisco, ambasciatore di Teodosio II presso Attila nel 448, sono citati per la prima volta in tale veste), per poi, al declinare della potenza di questi, stabilirsi a nord del Caucaso verso il 550 (come attestato nella cronaca siriana dello PseudoZaccaria il Retore) come vassalli, stavolta, del regno Turkut (etimo che compare adesso per la prima volta, nel senso di “forti, valorosi”) fondato dai Turchi Oghuz (Turchi occidentali, o Turchi propriamente detti, che si separano adesso, spostandosi verso occidente, dai Turchi orientali, o Uiguri, di cui saranno vassalli, tra i tanti, anche, al loro apparire nella storia, i Mongoli). Il loro specifico compito consiste nel razziare i regni caucasici di Armenia e Georgia, dividendo il bottino in una parte per sé ed un’altra per i loro signori ad est del Caspio.
Intorno al 650 il declino del regno Turkut consente ai Cazari l’inizio di una politica di potenza davvero autonoma. Al solito cliché delle incursioni caucasiche aggiungono l’espansione a nord attraverso il controllo delle regioni commercialmente vitali della costa nord del mar Nero e dei bassi corsi del Don e soprattutto del Volga (al cui sbocco nel Caspio collocheranno la loro nuova capitale, Itil, guardacaso nello stesso posto che sarà scelto secoli dopo dai Mongoli dell’Orda d’Oro per la loro capitale), dopo aver sbaragliato nel 641 la concorrenza di un altro popolo turcofono, i Bulgari, costretti a dividersi in un ramo settentrionale, i Bulgari del medio Volga, che continueranno ad esser nemici dei Cazari, ma senza particolare successo, ed ancor oggi vivono nella regione parlando un dialetto turco, ed un ramo meridionale, che, cacciato dall’Ucraina, emigra verso i Balcani, dando vita al potente primo impero bulgaro e finendo con l’aspirare addirittura al trono di Bisanzio, dopo essersi fatti cristiani ed aver acquisito la lingua delle tribù slave ivi sottomesse.
I Cazari, ormai padroni incontrastati della regione a nord del Mar Nero e del Mar Caspio, strategicamente e commercialmente vitale, entrano nel gioco delle grandi potenze dell’epoca, dove alla Persia, nel ruolo di tradizionale nemico di Bisanzio, si va sostituendo il califfato arabo prima di Damasco (Omayyadi), poi di Baghdad (Abbasidi).
Già nel 627 si ha notizia di un’alleanza antipersiana tra Eraclio ed il khan cazaro Ziebel, peraltro tutt’altro che affidabile, visto che usò i suoi 40.000 cavalieri per saccheggiare, come al solito, la Georgia, che pure era alleata di Bisanzio. Restano comunque un importante antemurale che protegge il fianco nord della civiltà bizantina dall’attacco di altre tribù più primitive (i Cazari sono comunque sulla via dell’acculturamento agli elementi basici dell’esistenza di un’entità politica organizzata, lasciandosi alle spalle il puro nomadismo di razzia, tra l’altro non più conveniente ora che son loro ad avere il controllo delle vie di comunicazione della regione nordcaucasica). E comunque son costretti a schierarsi contro gli Arabi, non per aiutare Bisanzio, ma per proteggere se stessi dalla marea islamica che deborda oltre il Caucaso.
La prima guerra arabo-cazara (642-652) si conclude con una rovinosa sconfitta per gli Arabi, ricacciati oltre i passi caucasici dopo una battaglia in cui i Cazari, tutt’altro che semplici cavalieri della steppa, si dimostrano perfettamente aggiornati allo stato dell’arte nell’uso di catapulte e balestre da assedio. Poi, dopo una fase in cui la pressione principale araba si esercita direttamente su Bisanzio, più volte assediata, si ha la seconda guerra arabo-cazara (722-737), in cui un khanato cazaro ormai divenuto grande potenza si permette di portare la guerra oltre il Caucaso (vittoria di Ardabîl nel 730), fino a Mosul e Diyarbakir, a pochi giorni di cavallo da Damasco, la capitale omayyade. Non manca la reazione araba, con contro avanzata a nord del Caucaso, conquista delle importanti città di Balanjar e Samandar ed apparente vittoria finale, col khan cazaro costretto a chiedere la pace ed a convertirsi all’islam davanti al futuro ultimo califfo omayyade Marwan II. Ma è troppo tardi perché gli Arabi possano cogliere il frutto della loro vittoria dilagando a nord del Mar Nero, perché Marwan è costretto a tornare in patria da quella rivolta che alla fine porterà alla sostituzione della sua dinastia, la Omayyade, con quella Abbaside (che attuerà una politica meno espansiva), ed il khan cazaro potrà tranquillamente abiurare la sua conversione di comodo all’islam.
Volendo trarre un bilancio del lungo conflitto arabo-cazaro, possiamo concordare con quanti (tra gli altri, i russi M.I.Artamonov e D.Obolensky, e lo statunitense D.M.Dunlop) valutano il ruolo dei Cazari, benché ancora legati alla loro religione ancestrale fondata sul culto delle forze naturali, come fondamentale nella difesa del fianco orientale della cristianità dall’avanzata islamica, avendo evitato l’aggiramento da nord di Bisanzio, ed almeno equivalente al ruolo delle armate franche nella difesa, negli stessi anni (Poitiers è del 732) del fianco occidentale (anzi, forse, benché, meno celebrato, più “pesante” sul piano militare, visto che le battaglie sul fronte caucasico probabilmente videro coinvolto un numero di combattenti ben superiore a quelle sul fronte pirenaico), e sicuramente ben più efficace di quello svolto dalla Cina Tang che, pur all’apogeo della sua potenza, col disastro di Talas del 751 di fatto consegna all’islam l’Asia centrale.
Dell’importanza del ruolo dei Cazari, anche come spina nel fianco dei Bulgari, erano invece ben consapevoli gli imperatori bizantini, che non facevano mancare donativi e proposte di alleanza, coinvolgendoli anche nelle lotte interne tra i vari candidati al trono, soprattutto all’epoca del funesto regno di Giustiniano II Rinotmeto(“naso tagliato”, 685-711, sinistro personaggio che portò forse il livello morale di Bisanzio al livello più basso della sua secolare storia) e della lotta coi suoi aspiranti usurpatori, Leonzio, Tiberio III e Filippico Bardanes, quest’ultimo di fatto messo sul trono dalle armate cazare. Ruolo che crescerà ancor più di importanza con la dinastia isaurica, il cui fondatore, il grande Leone III (717-741), non disdegnerà di scegliere per suo figlio Costantino V Copronimo (“nome di sterco”, spregiativo affibbiatogli dagli iconoduli, 741-775), erede al trono, una moglie che è figlia del kakhan cazaro, per l’occasione fattasi cristiana col nome di Irene, e che partorirà il futuro Leone IV detto appunto il Cazaro (775-780).
E qui siamo allo snodo cruciale. Il khanato cazaro ormai, oltre che una grande potenza, è un paese non più barbaro, ma avviato verso uno sviluppo civile almeno paragonabile a quello di paesi di antica cultura come l’Armenia, ma il suo tipo di organizzazione costituzionale e la sua religione sono ancora quelli dei nomadi della steppa. Un kakhan elettivo, sia pure tra i figli del kakhan uscente, ed un vicekhan, il kakhan beg, capo militare che ne bilancia il potere, forse retaggio di antichi espedienti volti a mediare i conflitti tra tribù di più antica tradizione politica ed altre in fase di crescita militare, assorbendo nella struttura di potere preesistente il khan della tribù emergente nella maniera più indolore possibile. Il cesaropapismo bizantino fornirebbe ben altro modello, ma implicherebbe la conversione della classe dirigente cazara al cristianesimo. In una data incerta, ma che molti retrodatano al momento di debolezza cazara nel momento dell’avanzata araba durante la seconda guerra arabo-cazara, verso il 740, quindi appena prima dell’effimera conversione all’islam e poco dopo il matrimonio di Irene la cazara con Costantino V (al quale si saranno di certo accompagnati tentativi diplomatici di conversione al cristianesimo), il khan Bulan si sarebbe invece convertito all’ebraismo insieme a tutta la classe dirigente del suo popolo.
Sentiamo il racconto di Al-Bakhri, storico arabo dell’XI secolo(“Il libro dei reami e delle strade”):
“La ragione della conversione del re dei Cazari, che prima era pagano, è la seguente. Egli aveva adottato il cristianesimo. Poi ne riconobbe la falsità e discusse la questione, che lo turbava parecchio, con uno dei suoi alti funzionari. Quest’ultimo gli disse: “O sire, coloro che sono in possesso delle sacre scritture si dividono in tre gruppi. Convocateli e chiedete loro di esporre il loro credo, poi seguite quello che è in possesso della verità”. Così egli mandò a chiamare un vescovo tra i cristiani. Presso il re era già un ebreo, abile nell’argomentare, che lo impegnò in una discussione, chiedendo al vescovo: “Che cosa dici di Mosè, figlio di Amran, e della Torah che gli fu rivelata?”. Il vescovo rispose: “Mosè e un profeta e la Torah dice il vero”. Allora l’ebreo, rivolto al re: “Egli ha ammesso la verità del mio credo. Ora chiedigli in che cosa crede lui”. Il re glielo chiese ed egli rispose: “Io dico che Gesù il Messia è il figlio di Maria, egli è il Verbo, ed egli ha rivelato i misteri in nome di Dio”. Allora l’ebreo disse al re dei cazari: “Egli predica una dottrina che non conosco, mentre accetta le mie posizioni”. Ma il vescovo non fu abbastanza abile nel produrre delle prove. Allora il re mandò a chiamare un musulmano, e gli venne mandato un uomo dotto, abile e preparato alla disputa. Ma l’ebreo pagò qualcuno che lo avvelenò per strada ed egli morì. E l’ebreo riuscì a conquistare il re alla sua fede, cosicché questi abbracciò il giudaismo”.
Storia che, a parte alcune malignità dovute alla non neutralità del narratore, nel complesso è credibile. Duelli e “trielli” dialettici tra esponenti di varie religioni fanno parte del costume turco-mongolo prima di sceglierne una (famoso quello che organizzerà Gingiz Khan). Credibile il riferimento ad una precedente effimera conversione al cristianesimo (riferimento al momento della missione diplomatica bizantina volta a combinare il matrimonio tra il futuro Costantino V e Irene la Cazara?), come pure quello all’omicidio dell’inviato musulmano, magari però dopo l’abiura, da parte del khan cazaro, dell’altrettanto effimera conversione all’islam (di certo, quando si sparse la voce che il califfo Marwan non se la passava più tanto bene, i prelati musulmani da lui lasciati a custodire la fragile fede dei neoconvertiti non devono aver passato un buon momento).
Ma ancor più interessante il passo in cui ci dice che “presso il re era già un ebreo”. Questo ci fa pensare che a Itil fosse già presente, e ben influente, una comunità ebraica, alimentata dalle periodiche persecuzioni in area bizantina ed attirata dalla tradizionale tolleranza religiosa turca e dalle possibilità offerte dalle vie commerciali sotto controllo cazaro.
Reinterpretando la storia, possiamo ragionevolmente ritenere che il khan cazaro scelse il giudaismo per motivi politici. Da un lato trattavasi della religione coi libri più antichi, riconosciuti come veri anche dalle altre due religioni, assicurando al khanato cazaro l’accesso nel club dei paesi civilizzati attraverso un cammino non attaccabile sul piano del prestigio fondato sulla profondità temporale di una tradizione, dall’altro gli garantiva il mantenimento dell’indipendenza religiosa, e quindi anche culturale e politica, rispetto ai sovrani di Bisanzio e di Bagdad, coi quali il dialogo restava tra pari. Infine, accettando il giudaismo, ma adattandolo alla tradizionale tolleranza turca (le fonti dei racconti di viaggio confermano, per tutta la durata della vicenda storica cazara, l’assenza di persecuzioni religiose ed il pluralismo etnico-religioso presente in Cazaria), la classe dirigente cazara si lascia alle spalle la squalificante taccia di paganesimo, ma permettendo alle classi subordinate ed alle tribù satelliti di continuare a seguire lo sciamanesimo tradizionale, senza che venga quindi minata la compattezza della confederazione tribale.
Tra le altre fonti che confermano la storia, salvo dettagli circa le modalità “logiche” del “triello” dialettico (sia il cristiano che il musulmano avrebbero confermato che, tra quella ebraica e quella musulmana, per il primo, e tra quella ebraica e quella cristiana, per il secondo, la più vicina alla verità restava sempre, secondo la logica del minimo comun denominatore, la religione ebraica), la più interessante è la cosiddetta “Corrispondenza cazara”, databile fra il 954 ed il 961, quindi già verso la fine della vicenda storica del regno cazaro, e consistente in una richiesta di informazioni, con relativa risposta, sulla veridicità e sulla storia di un regno dove la religione ufficiale era il giudaismo, inviata a Giuseppe, khan cazaro, dal dottissimo medico ebreo Hasdai bin Shraprut, ministro delle finanze e poi degli esteri del califfo omayyade di Cordova Abd-al-Rahman III, quindi interessato politicamente, al di là dei pur innegabili interessi culturali, a cercare eventuali alleati, anche non musulmani (Bizantini cristiani, Cazari ebrei) contro il mortale nemico, il califfo abbaside di Baghdad.
A dare credibilità alla corrispondenza epistolare contribuiscono, oltre alla citazione in altre fonti di poco successive, le enormi differenze tra lo stile elegante e colto della lettera spagnola, proveniente dalla città la cui comunità ebraica rappresentava forse, all’epoca, il fior fiore della cultura rabbinica, perfettamente integrata nel dialogo con musulmani e cristiani, e lo stile arcaico, pretenzioso, ma in realtà impacciato, della risposta cazara, da cui traspare tutto il provincialismo di una cultura ebraica attardata nel suo isolamento (paragonabile, per fare un raffronto col cristianesimo, a quello copto abissino), con l’ammissione da parte di Giuseppe dell’inadeguatezza culturale dei rabbini del suo regno e la richiesta al dotto ispanico di inviarne altri più aggiornati sugli sviluppi recenti del ritualismo giudaico (la richiesta non avrà esito per il declino, di lì a pochi anni, del regno cazaro).
Oltre ad elencarci una serie di predecessori dai nomi indiscutibilmente veterotestamentari (Obadiah, Hiskia, Manasseh, Chanukah, Isaac, un secondo Manasseh, Nissi, Menahem, Beniamin e finalmente Aaron, padre dello stesso Giuseppe), Giuseppe ci racconta che, all’epoca della frettolosa primissima conversione, fatta, come abbiamo visto, più per opportunismo politico che per vocazione religiosa, dell’ebraismo era stata recepita una versione semplificata basata solo sulla Torah, e che solo un paio di generazioni dopo, richiamando dalle comunità ebraiche mediorientali rabbini più colti, sarebbe stato recepito il complesso degli insegnamenti talmudici elaborati dall’interpretazione delle scuole rabbiniche.
Tutto ciò, tra l’altro, rappresenta una singolare coincidenza col fatto che, nel Medio Evo, a lungo allignò in Crimea la comunità dei Caraiti (oggi residuale solo in Lituania, e, in numeri ancor minori, tra Polonia e Ucraina occidentale), di lingua turca con elementi ebraici, e di religione giudaica ma rifiutando il Talmud: difficile dimostrarlo, ma certo è suggestiva l’ipotesi che siano discendenti di Cazari ebrei rimasti fermi alla prima forma semplificata in cui il loro popolo recepì il giudaismo, forse introdotta da rabbini provenienti dalla Persia, nelle cui comunità ebraiche, in effetti, nell’VIII secolo il caraismo è prevalente.
Infine, nella lettera di Giuseppe traspare la preoccupazione per la minaccia arrecata al suo regno dalla pressione dei Rus, popolo sorto dalla fusione del substrato etnico slavo e contadino della regione delle foreste e dei grandi fiumi a nord-ovest del dominio cazaro, con l’elemento guerriero e mercantile costituito dai Variaghi, Vichinghi di origine svedese, insediatisi nella regione inizialmente forse come vassalli dei Cazari incaricati di riscuotere il tributo delle tribù slave, come sembra far capire una cronaca coeva tedesca (“Annali Bertiniani”) parlando di un’ambasciata nell’839 presso Ludovico il Pio da parte di alcuni Rus che si dicevano inviati dal loro re Cacano, nome che, per assonanza, fa pensare al kakhan cazaro, ma poi messisi in proprio fino a creare un proprio regno a Kiev (859-862) che sottrarrà ai Cazari il controllo dei bacini del Dnepr e del Dnestr, tagliandoli fuori sia dalla regione del basso Danubio, sia dai porti occidentali sul Mar Nero, e ben presto, insieme all’irrompere da est di un nuovo invasore turcofono nomade sottrattosi al vassallaggio cazaro, i Peceneghi, metterà sotto pressione i Magiari del basso Don (emigrati secoli prime dalle ancestrali terre dell’alto Volga, e trasformatisi, a contatto coi popoli turcofoni, da allevatori di renne ad allevatori di cavalli, pur conservando la parlata finnica), vassalli dei Cazari, costringendoli a defezionare dall’alleanza di lunga tradizione coi Cazari per tentare la sorte, nell’896, al di là dei Carpazi, dove, guidati dal capo Arpad, fonderanno la moderna Ungheria.
Interessante l’origine del nuovo nome che i Magiari riceveranno dagli Slavi, ossia Onoguri(da cui Ungari), in alto slavo “dieci frecce”, che ci conferma quanto ci racconta ancora Costantino Porfirogenito (“De administrando imperio”), riguardo ad una federazione tra le sette tribù di cui tradizionalmente si componeva il popolo magiaro, e le tre tribù dei Kavari (o Kabari), Cazari rimasti fedeli ad un misto di sciamanesimo tradizionale nella base e, nel gruppo dirigente, di quell’ebraismo “rozzo” che abbiamo visto esser stata la prima forma di ebraismo adottata dai Cazari.
Quando la leadership cazara, un paio di generazioni dopo (verso l’800?), ne adottò la forma più “civilizzata”, quanti erano più legati alle durezze della vita nomadica e guerriera tradizionale dovettero vedere nelle rigide prescrizioni rituali talmudiche un ostacolo alla continuazione della stessa (trovandone riscontro, nel corso del IX secolo, nel graduale declino militare cazaro al cospetto degli ex-vassalli Rus e Peceneghi), per cui optarono per porsi alla guida degli alleati ancora fedeli, i Magiari, in una nuova avventura di conquista.
Importante dunque notare il ruolo di comando avuto da un relativamente piccolo nucleo di Cazari turcofoni di religione ebraica, benché di una forma primitiva, nella fondazione di quell’Ungheria che sempre sarà, insieme alla Polonia, uno dei due grandi “polmoni” ebraici dell’Europa centro-orientale.
Intanto i Rus, nell’860, appena un anno dopo la fondazione di Kiev, erano arrivati sotto le mura di Costantinopoli, cogliendo di sorpresa i Bizantini molto più di quanto avessero fatto gli Arabi nei due secoli precedenti. Il trauma ispira in essi un repentino cambio di strategia diplomatica, ponendo al centro dell’attenzione i Rus in luogo dei Cazari, come nemico da controllare e portare gradualmente dalla propria parte con deterrenti militari alternati a blandizie fatte di giochi di alleanze, tentativi di conversione (che avranno il loro esito definitivo col battesimo di Vladimir, principe di Kiev, nel 989) ed offerte di apparentamento matrimoniale.
Il cambio del cavallo su cui puntare alla lunga avrà esiti negativi, ché i Rus, malgrado il loro valore guerriero, non acquisiranno mai una apprezzabile valentìa nella guerra a cavallo, tale da poterne fare un valido antemurale nei confronti dei popoli nomadi turcofoni, in grado di stabilizzare, come avevano fatto i Cazari nel VII-VIII-IX secolo, la via commerciale dalla Crimea all’attuale Kazakistan (non è un caso che, per ottenere questo risultato, bisognerà aspettare il XIII secolo, proprio con la nascita del khanato mongolo dell’Orda d’Oro sulle ceneri della prima Russia di Kiev).
Ma, per ora, nel X secolo, i Rus sembrano in piena ascesa, tanto che nel 912-913, e poi ancora nel 943, violano il blocco cazaro della foce del Volga ed entrano nel Caspio, saccheggiandone le coste senza far distinzione tra potentati musulmani, ebrei o cristiani, tanto da spingere il khan cazaro (il Giuseppe della Corrispondenza cazara, ormai di fatto abbandonato al suo destino da Bisanzio) a cercare improbabili alleati islamici a sud del Caspio.
Ma ormai la sorte del khanato è segnata, l’ultima spallata la dà Svjatoslav di Kiev, che nel 965 prende Sarkel, alla foce del Don, di fatto assumendo il controllo della Crimea, mentre un’altra orda vichinga saccheggia Itil, la capitale cazara alla foce del Volga. Il più è fatto, anche se, a dimostrazione di una forza cazara ancora rispettabile, sarà necessaria un’alleanza bizantino-variaga per riportare un’ulteriore vittoria, nel 1016, sull’ultimo khan cazaro di cui si abbia notizia, Georgios Tzul (nome cristiano, segno di abiura dell’ebraismo nel disperato tentativo di recuperare le grazie di Bisanzio?).
A questo punto sul loro destino scende la notte, anche perché il loro ex-dominio ricade presto nella barbarie, coi Rus, come si è detto, che, incapaci di reggere la pressione dei Turchi nomadi, lo abbandonano prima ai Peceneghi, poi ai Kipciaq, tribù di ceppo ghuz anche nota come Polovci (in russo), Kun (in magiaro) o Kumani (in greco), mentre un’altra tribù ghuz, i Selgiuchidi, anch’essi probabilmente ex-vassalli dei Cazari, iniziano la loro fortunata discesa verso il Medio Oriente. Rivelatore di un’influenza culturale destinata a non estinguersi rapidamente, è il fatto che uno dei quattro figli del fondatore dinastico Selgiuk (cresciuto alla corte cazara, dove il padre, Ducqaq, arrivò ad essere comandante generale dell’esercito) si chiamasse Israel, ed un nipote Daud (Davide), nomi ebraici, mentre il fatto che pure il khan kipciaq Kobiak chiamasse i figli Isacco e Daniele potrebbe rivelare un tentativo, non riuscito, di far propria la prestigiosa eredità culturale cazara.
Un’ultima notizia sui cazari, ad ulteriore conforme della presenza, a nord del Caspio e del mar Nero, nei secoli tra il VII ed il X, di un’importante entità statale di etnia turca e religione giudaica, ce la dà nel 1247 Giovanni da Pian del Carpine, quando, narrando nella sua “Historia Mongolorum” quanto visto nel corso del suo viaggio diplomatico (1245-47) alla corte del Gran Khan mongolo Güyük, nipote di Gingiz, ci conferma di aver ancora incontrato, a nord del Caucaso, dei “Cazari che praticano la religione giudaica”.
Poi, restano solo le tracce offerte dal folclore popolare, quello delle leggende degli Ebrei occidentali, che conservano traccia di un regno di “Ebrei rossi” (un riferimento alla pigmentazione mongolica della pelle dei Cazari?), le cui gesta belliche ed indipendenza politica erano esaltate con l’ammirazione ed il rimpianto dovuti ad un’antica età dell’oro, e quelle delle leggende russe, narrate nelle byline, canti epici popolari in cui si parla spesso di Zemlja Zidovskaja (Paese degli Ebrei) e di Zidovin bogatyr (eroi ebrei), dominatori delle steppe che sono descritti come formidabili avversari vinti a fatica dal principe-santo Vladimir.
Etnicamente, oggi l’ultima traccia vivente dei Cazari viene individuata nei Ciuvasci , popolo turcofono di un milione e mezzo di anime, oggi di fede prevalentemente ortodossa, stanziato nella regione di Kazan, sul Volga (peraltro, da una parte dei glottologi invece apparentato ai Bulgari del Volga, pure turcofoni), il cui nome significa “miti, docili”. Una fine ingloriosa per un popolo guerriero che si era guadagnato i tre solidi d’oro nelle missive di Costantino Porfirogenito. Sempre che il vero destino del popolo cazaro non vada cercato ad occidente, nella formazione del ramo principale dell’ebraismo moderno, gli Askenaziti, e quindi nella nascita del moderno stato di Israele, argomento la cui trattazione è materia della seconda parte di questo articolo.
S E C O N D A P A R T E : IL DIBATTITO SULL’ORIGINE DEGLI ASKENAZITI
La ricostruzione fatta dalla storiografia tradizionale, ebraica e non, divide gli Ebrei della diaspora in due ceppi distinti per riti, lingua e tradizioni, ma non per l’origine etnica, sempre da ricercarsi nella popolazione semitica mediorientale di fede giudaica : un primo ceppo è quello dei Sefarditi, giunti sin dall’antichità in Spagna (Sepharad in ebraico) forse attraverso il Nordafrica, parlanti un dialetto ispano-ebraico, il ladino, e, dopo l’espulsione dalla penisola iberica alla fine del XV secolo, emigrati in Italia, Balcani, Fiandre, Germania, Francia, Inghilterra (in alcuni di questi Paesi ripopolando colonie ebraiche rimaste spopolate a causa delle persecuzioni medievali); un secondo ceppo si insedia in Italia già in epoca romana, alimentando una importante immigrazione, ancora in epoca romana, verso l’area renana, dove, a seguito della germanizzazione dell’area con le invasioni barbariche, si sarebbe originata la comunità degli Askenaziti, parlanti yiddish, un tedesco arcaico, che poi sarebbero emigrati in massa verso l’Europa orientale a seguito delle persecuzioni subite in occidente.
La tesi alternativa, minoritaria (S.W.Baron, “Storia sociale e religiosa degli Ebrei”, New York 1957, e soprattutto A.Koestler, “La tredicesima tribù”, Londra 1976, ebreo ungherese militante comunista, combattente antifranchista, nel dopoguerra rifugiato in Inghilterra a seguito della sua rottura col comunismo stalinista, nel complesso soggetto difficilmente tacciabile di revisionismo antisionista), ma ripresa recentemente anche dalla nuova storiografia israeliana, il cui obiettivo è proprio quello di un revisionismo di tanti aspetti consolidati del comune sapere sugli Ebrei, ma fatto dall’interno della cultura ebraica (leggasi, ad esempio, Shlomo Sand, “L’invenzione del popolo ebraico”, 2010, e “Come ho smesso di essere ebreo”, 2013), è che i Cazari non scomparvero nel nulla, bensì restarono nei loro antichi territori a nord del Caspio e del Mar Nero, conservando anche il loro tipo di ebraismo, per poi espandersi, precedendo o accompagnando l’avanzata dei Peceneghi, dei Kipciaq, e soprattutto dei Mongoli, all’interno delle regioni slave dell’Europa orientale, contribuendo all’edificazione delle grandi comunità ebraiche di quest’area.
Il punto sta proprio qui. L’ipotesi più credibile è che queste grandi comunità si formarono con apporti sia da ovest che da est, ma dalla determinazione della proporzione di questi apporti dipende quella sull’origine etnica degli Ebrei (semiti immigrati in Europa ma comunque sempre in gran parte discendenti dagli abitanti della nazione israelitica antica, o turchi convertiti al giudaismo, quindi, in maggioranza, non aventi niente a che fare geneticamente con gli Israeliti storici, salvo piccoli apporti di elementi colti della classe rabbinica, culturalmente qualificanti, ma etnicamente non decisivi?).
Sì perché gli Askenaziti hanno sempre rappresentato la stragrande maggioranza degli Ebrei (95%), per cui stabilire chi essi siano, significa stabilire anche chi sono gli Ebrei (un’etnia? e che etnia? o “solo” una comunità religiosa e culturale?), con tutti i risvolti delicati connessi alla nascita di Israele, in quanto, per i suoi fautori, già deprivati delle armi della comunanza linguistica e della coesione territoriale, all’epoca base fondamentale di qualsiasi nazionalismo, la comunanza di sangue originatasi nell’antico Israele e mantenutasi nei tanti secoli di migrazioni, divenne un feticcio intangibile, tanto più in un’epoca, la fine del XIX secolo e l’inizio del successivo, in cui i valori razionalistici e positivistici dominanti in politica e cultura avrebbero relegato al rango di reperto antiquario medievaleggiante qualsiasi pretesa di fondare un nuovo stato sulla base di una mera comunanza cultural-religiosa.
Oltre che alla storiografia israeliana tradizionale, la tesi cazara sull’origine degli askenaziti crea problemi, paradossalmente, anche all’antisemitismo nazista (se gli Ebrei non sono semiti, tutto il castello antisemita costruito dal nazismo finisce per rivelarsi in tutto il suo esser ridicolo perfino ai suoi sostenitori, in sostanza un abbaglio ancor più idiota di quanto già non appaia in caso di appartenenza semitica degli Ebrei) ed alla storiografia russa, cioè della nazione meglio attrezzata, per eredità storica verso entrambi, per studiare i rapporti tra Cazari ed Ashkenaziti. Sia in epoca zarista che in epoca sovietica, la storiografia tradizionale russa ha sempre minimizzato l’apporto, nella formazione del popolo e della cultura russa, di elementi esterni, ed in particolare turcofoni, evidentemente ancora sull’onda lunga della reazione antitatara dell’epoca di Ivan il Terribile, mitizzando la prima Russia, quella di Kiev, e la sua intrinseca “slavità” (minimizzando, in questo caso, il fondamentale impulso originario proveniente dai Variaghi scandinavi).
Illuminante la reprimenda ufficiale con cui perfino la Pravda, in un articolo del 1952, censurò la “Storia dei Cazari” del già citato M.I.Artamonov (che sarà pubblicata infatti solo dieci anni dopo e con molti cambiamenti imposti), per aver egli “minimizzato gli albori dello sviluppo e della cultura del popolo russo”, “ripreso una sua teoria che aveva già avanzato in un libro del 1937, secondo la quale l’antica città di Kiev avrebbe subito in modo notevole l’influenza del popolo cazaro, che egli dipinge come un popolo progredito caduto vittima delle aspirazioni aggressive dei Russi”. “Il regno cazaro, che rappresentava una primitiva fusione di tribù diverse, non ebbe alcun ruolo positivo nella nascita dello stato degli slavi orientali.
Antiche fonti testimoniano che la nascita di uno stato tra gli slavi orientali è precedente a ogni testimonianza sui Cazari. Il regno cazaro, lungi dal promuovere lo sviluppo dell’antico stato russo, ritardò il progresso delle tribù slave orientali. I materiali rinvenuti dai nostri archeologi stanno a dimostrare l’alto livello della cultura dell’antica Russia. Solo deformando la verità storica e trascurando i fatti si può parlare di superiorità della cultura cazara.
L’idealizzazione della cultura cazara riflette probabilmente la sopravvivenza della visione errata degli storici borghesi che minimizzavano lo sviluppo autoctono del popolo russo. L’erroneità di questo concetto è evidente, ed esso non può essere accettato dalla storiografia sovietica”. Quando la politica, ed il politichese, si mettono di traverso alla ricerca storica, viene sempre il sospetto che quella ricerca stesse andando dalla parte giusta.
Ma proviamo a dipanare la matassa degli indizi. Mi astengo dall’entrare in qualsiasi discorso relativo alla definizione dei caratteri antropometrici atti a definire il tipo ebraico, chi ha tentato di farlo, se in buona fede (non è il caso dell’antropologia nazista), è sempre arrivato alla soluzione che non esiste, troppe essendo le commistioni coi popoli incontrati dagli Ebrei durante le loro peregrinazioni (ricordo che gli Ebrei sono diventati un gruppo chiuso ad apporti esterni solo con l’affermarsi della “cultura” del ghetto, tra XIV e XVIII secolo, prima semmai il problema, per le autorità cristiane, era reprimerne il proselitismo attraverso il quale, tra l’altro, sangue non semita entrava nella componente ebraica originaria).
Per fare un esempio banale, il “naso semita” potrebbe essere anche, se accettiamo la tesi cazara, un “naso caucasico” (Armeni e Georgiani sono noti per le loro notevoli “pinne” nasali), quel Caucaso, appunto, che fu a lungo meta privilegiata delle scorrerie cazare in cerca di un bottino fatto anche di donne il cui patrimonio genetico, nasone incluso, potrebbe esser entrato anche per questa via nel corredo genetico askenazita.
Anche il ricorso ai lemmi lessicali non è decisivo, offrendo argomenti per entrambe le tesi. Ad esempio, si è già vista la singolare assonanza con kazar del termine tedesco ketzer, usato per indicare chi “erra” nel proprio cammino, tanto geografico che di fede, in entrambi i casi idoneo all’uso che ne fu fatto per indicare gli Ebrei, girovaghi eretici. Quanto al termine Ashkenaz, vero che nella letteratura rabbinica medievale indica la Germania, ma vero anche che, in vari passi biblici (Genesi 10, 3, Cronache 1, 6, Geremia 51, 27), indica un popolo che vive nella regione caucasica, presso il monte Ararat.
La natura di dialetto tedesco medievale dello yiddish, sia pure scritto in caratteri ebraici e con apporti lessicali slavi e semiti, sembra essere argomento decisivo a favore della tesi “occidentale” sull’origine askenazita.
Opinioni autorevoli, però, come il Mieses (“La lingua yiddisch”, Berlino-Vienna, 1924), vi vedono contatti non tanto con la Renania, presunta aerea di formazione del nucleo askenazita nella storiografia tradizionale, ma semmai coi dialetti dell’area austro-bavarese, e qui siamo “pericolosamente” vicini a quell’Ungheria alla cui formazione contribuirono in maniera rilevante, come si è detto nella prima parte, i Kabari, frazione cazara, quindi turcofona, di forte tradizione militare e di religione giudaica semplificata dalla non adozione della cultura rabbinica basata sul Talmud (nel 1154, ad un secolo e mezzo dalla migrazione magiaro-kabara, il cronista bizantino Giovanni Cinnamo ci parla di cavalieri di fede ebraica combattenti ancora al suo tempo nell’esercito ungherese, e riesce difficile pensare, invece che a discendenti di Ebrei turcofoni ex-nomadi delle steppe, a discendenti di Ebrei semiti di cultura urbana arrivati sul limes danubiano fin dall’epoca romana e poi convertitisi non si sa come alla cultura fondata sul cavallo).
Molte fonti confermano il prestigio per secoli mantenuto in Ungheria nell’esercito e nella politica, e quindi si può anche pensare ad un’acculturazione mista, ivi avvenuta, tra una maggioranza di ebrei di discendenza cazara ed una minoranza di veri Ebrei semiti di ascendenza sudgermanica, forti però di una cultura rabbinica più evoluta e quindi in grado di imporsi, sul piano religioso e culturale, al primitivo ebraismo degli altri (anche in campo cattolico, in Ungheria e Polonia si assiste ad un notevole afflusso di prelati dall’ovest più acculturato, in particolare dalla Germania, nei primi tempi della cristianizzazione).
Un’ipotesi alternativa è che il primo incontro dei Cazari con un dialetto tedesco sia avvenuto già nel VII secolo, al momento del loro primo insediamento in Ucraina, regno dei Goti dal III al VI secolo, prima del loro trasferirsi in occidente, lasciandosi alle spalle elementi che, almeno in Crimea, continuarono a parlare un dialetto tedesco addirittura fino al XVI secolo.
L’yiddish, pertanto, potrebbe esser nato in Crimea e poi, con le migrazioni ad ovest degli Ebrei cazari, potrebbe aver raggiunto dal XV secolo l’Europa centro-orientale. Oppure l’yiddish potrebbe non esser nato né in Renania, né in Crimea, bensì proprio direttamente in quell’area della Grande Polonia (quindi le attuali Polonia centro-orientale, Lituania, Bielorussia ed Ucraina occidentale), che ne è sempre stata l’area di massima affermazione. Infatti in quest’area, nei secoli (XIV-XVII) di espansione della Grande Polonia verso il mar Nero, essa attira ad ovest tutte quelle comunità che vogliono sottrarsi alla pressione fiscale ed alle scorrerie turco-tatare.
Nello stesso tempo però, anzi già a partire dagli inizi, nell’XI secolo, dell’acculturazione europea della Polonia (e lo stesso discorso potrebbe farsi per la Boemia e per l’area della Grande Ungheria, includente anche Slovacchia, Transilvania, Croazia), si assiste all’immigrazione ad est di un numero consistente di Tedeschi che, incentivati dalle dinastie locali, desiderose di modernizzare l’economia dei loro Paesi, forniscono l’intero ceto urbano (la città, nell’Europa orientale, è un’invenzione tedesca), apportando le loro più avanzate conoscenze nei settori dell’edilizia, dell’artigianato, del commercio, della finanza.
La lingua franca dell’economia cittadina, in Polonia e nei Paesi vicini, diventa il tedesco, e chi viene da est e si inurba, come è il caso degli Ebrei di origine cazara, deve apprenderlo per cogliere opportunità di lavoro, mischiandolo con parole apprese dal substrato slavo ed altre davvero ebraiche apprese dagli esponenti di quella classe rabbinica occidentale, più progredita tanto nell’economicamente preziosa acculturazione germanica come nella culturalmente prestigiosa conoscenza dell’ebraismo talmudico, a cui si sarà di certo fatto ricorso per chiamare ad est rabbini cui affidare le nuove sinagoghe costruite nelle città orientali (quindi seguendo in pratica lo stesso modello utilizzato dai cristiani).
Ecco dunque una possibile spiegazione della nascita dell’yiddish che, fondandola su ragioni sia economiche che religiose, concilia una probabile prevalenza numerica di Ebrei occidentali di origine semitica nell’ambito dell’èlite rabbinica con un’altrettanto probabile schiacciante maggioranza di Ebrei non semiti di origine cazara nelle grandi comunità giudaiche delle città dell’Europa orientale.
L’aspetto numerico, infatti, è un altro elemento che contraddice l’origine della maggioranza degli Askenaziti dall’Europa occidentale, dove sono sempre stati in numero talmente ridotto da non poter mantenere grandi flussi migratori verso est.
Ad esempio, al momento della loro espulsione dall’Inghilterra (1290), gli Ebrei inglesi si stima fossero solo 2500, e del resto sempre pochissimi erano stati, essendovi arrivati solo nel 1066 su invito di Guglielmo Il Conquistatore.
Anche la Francia, dopo l’espulsione degli Ebrei decretata da Filippo il Bello nel 1306, diventa di fatto area degiudaizzata (come l’Inghilterra, sarà “ripopolata” nel secolo XVI da sefarditi spagnoli), ma, anche qui, gli Ebrei non dovevano esser molti, se non si ha alcuna notizia di afflussi nelle vicine, importanti, comunità ebraiche della Renania. Importanti?
A propositi del massacro crociato del 1096 a danno di tutti gli Ebrei di Magonza e Worms che non abiurarono, fonti ebraiche, quindi semmai approssimate per eccesso, parlano di 2000 morti in tutto, che quindi, fatti salvi pochi possibili fuggiaschi, era il modesto ammontare delle due comunità giudaiche più importanti della Renania (la terza era a Spira). Inoltre, sempre le fonti ebraiche, in occasione delle varie successive crociate di passaggio in Renania, col solito corollario di stragi di Ebrei, parlano solo di fughe da una città all’altra della Renania, mai di migrazioni massicce verso l’Europa orientale, che, peraltro, avrebbero dovuto lasciare qualche traccia del loro passaggio attraverso la Germania centro-orientale, che invece è sempre stata un deserto ebraico, del tutto priva di quelle piccole comunità ebraiche, relitte lungo il percorso , che ci si aspetterebbe di trovare.
Infine, l’aspetto sociale. Solo in Europa orientale si assiste al caso di Ebrei che si occupano di agricoltura, in veste di contadini ma anche, nel Regno d’Ungheria, in quella di proprietari terrieri, forse perché discendenti di famiglie appartenenti a quella nobiltà militare kabaro-ebraica che abbiamo visto protagonista della nascita del regno stesso, che si riciclano nel ruolo di grandi latifondisti e poi, gradualmente, si convertiranno al cristianesimo quando, soprattutto a partire dal XIV secolo, essere ebrei taglia fuori, anche in Ungheria, dalla carriera politica.
Ma ancora più eloquente è il fenomeno tutto polacco-lituano dello “shtetl” (termine yiddish reso in polacco con “miastecko”), vera e propria piccola città rurale abitata solo da Ebrei e volontariamente, essendone essi stessi i fondatori, sia pure col consenso dell’autorità politica locale (quindi ben altra cosa rispetto al ghetto, frammento di reclusione coatta in una città di gentili).
Nello shtetl, le cui prime tracce risalgono molto indietro fino al XIII secolo, si tengono fiere di bestiame, vi si concentrano le più svariate attività artigianali, c’è una sinagoga, una scuola, si possono ascoltare cantastorie girovaghi tra uno shtetl e l’altro.
In particolare, gli Ebrei degli shtetl acquisiscono di fatto il monopolio del commercio del legname in Polonia e si specializzano nella costruzione di un tipico carro a cavalli (“ba’al galah”, “signore del carro, perfezione del carro”, tanto di successo da entrare nella lingua russa come “balagula”) che dominerà il trasporto delle mercanzie nelle pianure russo-polacche fino al XIX secolo.
Lo scenario cittadino e le attività svolte dagli Ebrei (potrei citare anche il commercio delle pellicce e la gestione di mulini e locande) sono del tutto estranei alla tradizione degli Ebrei dell’Europa occidentale.
Difficile pensare che un’eventuale migrazione in Europa orientale di Ebrei provenienti dalla Germania possa aver trasformato un popolo di orafi, commercianti di tessuti e banchieri in uno di locandieri, contadini, falegnami e commercianti di pellicce. Più facile pensare di aver trovato nello shtetl l’anello di congiunzione, nella migrazione da est che, secondo la teoria cazara, sarebbe alla base della nascita degli Askenaziti, tra le città-mercato della Cazaria e gli insediamenti ebraici nelle città polacche, cuore della cultura askenazita.
Fonte: da Riflessistorici del 20 febbraio 2016