I Savoia erano francesi, non piemontesi
Di Gianni Cecchinato – gennaio 08, 2018
Mi permetto far conoscere un brano estratto da una risposta di Carlo Candiani a Claudio Sacilotto su FaceBook riguardo la lettera di Ettore Beggiato inviata al giornalista Aldo Cazzullo (già al centro di critiche e polemiche sul <venetismo> ospitate tempo fa sulle pagine di “Dal Veneto al Mondo”).
Il Premio Nobel Mario Vargas Llosa afferma, nell’intervista rilasciata al giornalista, che in Italia le Regioni non esistono, allora Beggiato si pone la domanda, “se non esistono le Regioni, un Veneto cosa avrebbe in comune con un Tirolese o con un Sardo o con un Siciliano o con uno della Val d’Aosta. Niente se non fosse per una lingua (imposta)”.
La risposta di Cazzullo scatena interventi che esulano un po’ dalla natura dell’idea di Beggiato. Mi sono piaciute le risposte di Carlo Candiani che meritano essere riprese per ricordare a quei Veneti, che non conoscono nel dettaglio certi retroscena che portarono all’Unità d’Italia passando per i referendum truffa o per le deportazioni. Purtroppo la storia che ci è stata insegnata, l’hanno scritta i Savoia ad unità avvenuta sia perché erano i vincitori sia perché dovevano nascondere il loro operato per rafforzare la conquista della penisola.
< Carlo Candiani risponde a Claudio Sacilotto >
Bisogna sempre ricordare un fatto fondamentale, quando si parla di unità d’Italia, che è stata fatta sotto i Savoia, che nulla hanno a che fare con i Piemontesi, soprattutto con gli ossolani, novaresi e vercellesi che sono stati sempre e storicamente sotto altro regno, in particolare prima sotto i Visconti poi sotto i Borromeo (provenienti dal Lago Maggiore) e quindi sotto il Ducato di Milano, con tutto quello che ne consegue per circa 800 anni abbondanti di storia unita come territorio.
I Visconti e poi i Borromeo governarono e possedettero le terre appartenute al re dei Longobardi Desiderio, in seguito all’imperatore Federico Barbarossa, situate intorno al lago Maggiore, che costituirono, tra il XIV° e XV secolo, lo “Stato Borromeo”, vasto più di mille chilometri quadrati, con Arona ed Angera sedi del conte e marchese. Collocato al limite nord-occidentale del ducato di Milano e confinante con la Svizzera, ricco di cave (Candoglia costruzione Duomo di Milano), ulivi, vigneti, alberi da frutta, mulini, caccia e pesca conquistò un determinante ruolo strategico per il gran numero di siti fortificati, la disponibilità di un esercito locale, il sostegno dell’aristocrazia del posto. Il vasto feudo ebbe una lunga vita e solo l’occupazione napoleonica nel 1797 riuscì a smantellarlo.
I Borromeo, però, conservarono il patrimonio immobiliare e lo conservano tutt’ora vedi Isole Borromee e Mottarone con impianti sciistici privati e strada a pagamento.
I Savoia non sono italiani e nemmeno del Nord Italia.
I Savoia sono in tutto e per tutto di origine e di stirpe francese e tali rimangono sempre e lo sono ancora oggi, in tutto per tutto, per mentalità, lingua, pensiero, cultura e modi di agire.
Non sono “italiani”, non sono piemontesi, veneti, lombardi o trentini, diciamo del Nord Italia. Sono sempre stati un ramo diciamo “sfigato”, in cerca di nobiltà, terre e visibilità. Assurti a dignità reale solo nel XVIII° secolo, la loro origine è attestata sin dalla fine del X° secolo nel territorio del Regno di Borgogna, dove venne infeudata della Contea di Savoia, elevata poi a Ducato nel XV° secolo.
Sono nati come feudatari Biancamano, attorno all’anno Mille, con le contee di Savoia di Belley e Sion al disgregarsi del regno di Borgogna (1032) si schierarono dalla parte di Corrado II° ottenendone in premio la contea di Moriana in Val d’Isère e il Chiablese. Tutte tra la Francia e la Svizzera.
I Savoia con Carlo II° tra l’altro aderirono alla Lega di Cambrai, con gli Asburgo, Luigi XII° di Francia, gli spagnoli, il papato, i Gonzaga, gli Este contro La Serenissima Repubblica di Venezia.
Solo nel tardo Cinquecento spostarono il loro interessi territoriali ed economici dalle regioni alpine verso la penisola italiana, come testimoniato dallo spostamento della capitale del ducato da Chambéry a Torino nel 1563.
I Savoia con Vittorio Amedeo II° parteciparono vittoriosamente alla guerra di successione spagnola: nel 1714, in virtù del Trattato di Utrecht, il duca ottenne la corona del Regno di Sicilia e fu incoronato re a Palermo. Nel 1720, come concordato con il trattato di Londra del 1718, Vittorio Amedeo II° lasciò il trono di Sicilia in cambio di quello di Sardegna, mantenendo il titolo regio.
Alla vigilia dell’Unità, il Regno Sabaudo guidato da Cavour comprendeva il Piemonte (con Ossola, novarese, vercellese presi dopo la caduta di Napoleone 1815), la Savoia, la Val d’Aosta, la Sardegna, la Liguria con Nizza ed una piccola parte della Lombardia con il comprensorio di Voghera, per capirci meglio l’Oltrepò Pavese.
Importante capire anche come si arrivò al Plebiscito, cioè dopo le pesanti sconfitte dei Savoia (italiani), a Custoza il 24 giugno e nelle acque di Lissa il 20 luglio 1866.
Proprio a causa delle mancate vittorie, il Veneto e parte della Lombardia non furono conquistate sul campo dall’Italia ma vennero cedute da Vienna alla Francia (l’imperatore Napoleone III aveva assunto il ruolo di mediatore) e da quest’ultima “girate” al Regno d’Italia, procedura non poco umiliante che fu accettata dal governo di Firenze, presieduto da Bettino Ricasoli, dopo non pochi tentennamenti e polemiche.
Non che all’Italia restassero molte alternative: la Prussia, una volta battuta l’Austria a Sadowa (3 luglio) che ne aveva sancito la preminenza all’interno della Confederazione tedesca, aveva raggiunto il suo obiettivo e non aveva alcun interesse a continuare la guerra.
Il governo italiano e il re Vittorio Emanuele II° avrebbero certo potuto scegliere di combattere da soli. Ma era difficile pensare di sostenere senza aiuto lo scontro con un impero che, per quanto in decadenza, era comunque molto più grande del neonato stato italiano. Quindi fu plebiscito (voluto da austriaci e francesi per dare legittimità alla cessione), con seggi in tutte le principali città del Veneto: a Venezia gli uffici elettorali rimasero aperti dalle 10 alle 17.
Il voto fu a suffragio elettorale maschile. Nel bando di convocazione alle urne si specificava che “saranno ammessi a dare il loro voto tutti i Cittadini che hanno compiuti gli anni 21, che sono domiciliati da sei mesi nel Comune e, meno le donne, non è escluso che chi subì condanna per crimine, furto o truffa”.
Il cancelliere di ferro Otto von Bismarck disse al principe ereditario Umberto:
“Voi italiani siete il popolo delle tre S: con Solferino avete preso la Lombardia, con Sadowa avete preso il Veneto, con Sedan avete preso Roma. E nessuna delle tre S è stata opera vostra“.
Aveva e ha perfettamente ragione. Carlo Cattaneo sottolineava come nel 1849 il Lombardo-Veneto, con un ottavo della popolazione, forniva da solo un terzo delle entrate fiscali dell’Impero.
“Quando scoppia la ribellione del marzo 1848, Milano segue o anticipa le altre capitali d’Europa. Non si parla per niente di Italia e nessuno parla di rivoluzione. Semplicemente Milano si ribella e si fa rispettare in nome delle libertà civili”.
Studiosi di storia economica hanno accertato, spulciando per anni archivi pubblici e privati e rapporti delle camere di commercio venete, che dal 1818 in poi Vienna attuò una politica doganale che mise le industrie cotoniere e laniere lombarde e venete alla mercé della concorrenza dei panni della Boemia e della Moravia, peraltro smaccatamente favoriti anche in materia di forniture militari. Insomma è la stessa solfa da sempre.
Il Lombardo-Veneto era una delle aree più avanzate e illuminate del regno, si voleva solo un po’ più di autonomia da Vienna e per nulla finire sotto i Savoia (sempre osteggiati da Cattaneo e non solo), ma peggio ancora evitare di finire nelle mani della Chiesa.
Ricordando che nelle zone insubri della Lombardia non c’è il rito cattolico-romano, ma ambrosiano.
“In tutte le regioni malgovernate d’Italia si fanno plebisciti entusiasti dell’unificazione d’Italia: in Lombardia non si fa nulla. Non sono stati i Lombardi ha volere una Italia unita; se i Piemontesi erano più poveri e arretrati di loro, perchè desiderarli quali nuovi padroni? Indire un plebiscito in Lombardia sarebbe stato pericoloso. “Siamo i più ricchi dell’Impero” scriveva Carlo Cattaneo “non vedo perchè ne dovremmo uscire”.
Ricordando anche che per Garibaldi “i Veneti non si erano sollevati per conto proprio, neppure nelle campagne dove sarebbe stato facile farlo”. Ricordando sempre che il Re di Sardegna Carlo Alberto di Savoia, a rivolte praticamente rientrate il 23 marzo 1848, dichiarò guerra all’Austria. Fu il Regno di Sardegna ad attaccare per primo l’Impero austriaco e fu sconfitto, perdendo guerra, soldi e territori.
Gli episodi determinanti della prima e seconda campagna furono la battaglia di Custoza e la battaglia di Novara. Con lombardi, veneti, trentini spesso contrapposti negli schieramenti, molti inquadrati regolarmente nelle truppe imperiali austroungariche.
Bisogna sempre ricordare che all’inizio della guerra il Regno di Sardegna fu appoggiato da Granducato di Toscana, dallo Stato Pontificio e dal Regno delle Due Sicilie che però si ritirarono quasi subito senza combattere. Volontari dell’esercito pontificio e di quello napoletano si unirono tuttavia agli altri volontari italiani e combatterono contro l’Austria. Il papa si ritirò dal conflitto praticamente dopo 15 giorni poiché l’impero austriaco aveva minacciato uno scisma, con conseguenti perdite di terreni, rendite e soldi.
“SI, vuol dire essere italiano ed adempire al voto dell’Italia. NO, vuol dire restare veneto e contraddire al voto dell’Italia”
Di sicuro il plebiscito del 1866 venne preceduto da una vera campagna di stampa intimidatoria dei fogli cittadini, preoccupatissimi per l’influenza che il clero manteneva nelle zone rurali.
Sulla libertà del voto e sulla segretezza dello stesso ci illumina la lettura di Malo 1866 di Silvio Eupani: “Le autorità comunali avevano preparato e distribuito dei biglietti col SI e col NO di colore diverso; inoltre, ogni elettore, presentandosi ai componenti del seggio, pronunciava il proprio nome e consegnava il biglietto al presidente che lo depositava nell’urna”.
Non venne garantito l’anonimato, si votava con urne ben distinte e con le scritte SI e NO, dove depositare le schede. La votazione avveniva in sale con i militari e con le armi spianate.
Votò circa il 30% della popolazione ammessa, tra cui soggetti che non ne avevano titolo, per esempio i soldati “italiani” di stanza in Veneto, votarono ladri e mariuoli vari che avevano appena ottenuto uno “svuotacarceri”.
E soprattutto, i dati resi noti non possono corrispondere ai voti reali. I risultati ufficiali il referendum del 21 e 22 ottobre 1866, che parlano di 647.246 voti favorevoli e solo 69 voti contrari.
Nella lapide del Palazzo Ducale si parla di “Pel SI voti 641.758”, “Pel NO voti 69”, “Nulli 273”.
Alvise Zorzi in “Venezia austriaca” (pag. 151) parla di “SI 647.246”, “NO 69”, Denis Mack Smith “Storia d’Italia 1861-69” parla di “SI 641.000”, “NO 69”.
Di fronte a (l’equivalente del 99,9%), chi conosce cosa sia l’errore statistico sa che l’annessione del Veneto all’Italia fu costruita solo su un imbroglio. Una percentuale del 99% che non fu ottenuta neppure dai regimi come quelli di Stalin e Hitler, neppure in Bulgaria ai tempi del PCI, forse nemmeno si ottiene oggi in Corea del Nord.
Di particolare interesse, le citazioni riportate in un volume di Bozzini, dove si ritrova la citazione della Gazzetta di Verona del 17 ottobre 1866: “SI, vuol dire essere italiano ed adempire al voto dell’Italia. NO, vuol dire restare veneto e contraddire al voto dell’Italia”.
Una sottolineatura di straordinaria importanza, perchè era ben chiaro e si era capito che una cosa erano i veneti (e i lombardi) e un’altra gli italiani e che gli interessi degli uni raramente e storicamente coincidevano con gli interessi degli altri. Anzi spesso e volentieri andavano a cozzare.
Una cosa che del resto aveva ben capito Napoleone Bonaparte quando consigliava al figliastro di non ascoltare chi gli suggeriva di dare a Venezia un po’ più di autonomia, invitandolo, invece, a mandare “degli italiani a Venezia e dei Veneziani in Italia.”
Sono parecchi anni ormai che è un rifiorire di letteratura revisionista del Risorgimento dice le stesse cose (ed anche peggio) E’ sufficiente leggere: Lorenzo Del Boca (Maledetti Savoia, 1998 – Indietro Savoia! Storia controcorrente del Risorgimento italiano, 2003 – Polentoni. Come e perché il Nord è stato tradito, 2011 – Risorgimento disonorato, 2011), Michele Topa, Gigi di Fiore, Angela Pellicciari, Denis Mack Smith, Lucy Riall, Martin Clark e molti altri ancora….
Basta semplicemente leggere “Il Gattopardo” di Tomasi di Lampedusa o anche vederne il film di Visconti per rendersi conto di cosa sia successo veramente in quell “operazione democratica”. ……
Qua non si tratta di vivere il presente come se fossimo nel passato.
Caso mai è il passato che è causa dei danni presenti. E si è fatto di tutto per nasconderlo, creando una storia artefatta ad hoc.
I documenti ufficiali, i libri di testo, i sussidiari sono una cosa. Li scrive chi vince, chi è più forte. Poi c’è la storia vera, e solo negli ultimi 70 anni abbiamo potuto raccontarne delle belle. Pensiamo per esempio solo a quanto sono state negate le foibe e l’esodo degli istriano-dalmati. Che non comparivano nei libri di scuola, non potevano essere citate, raccontate. Sono stati boicottati libri, film e quant’altro, ancora oggi.
Conoscere il passato per vivere meglio il presente certo. Serve anche a correggere gli errori fatti antecedentemente.
Quando una nazione perde il contatto col suo passato, con le sue radici, quando perde l’orgoglio della sua storia, della sua cultura e della sua lingua, decade rapidamente, smette di pensare, di creare e svanisce.
I Paesi scandinavi per esempio non traducono più nulla nella loro lingua, leggono tutto direttamente in inglese. Cosa diversa i paesi baltici che hanno ritrovato la loro identità nel 1991, e ne vanno fieri e fanno di tutto per mantenerla viva. Molte grandi imprese italiane ormai usano solo l’inglese e hanno perso il contatto con il proprio territorio, con le radici della loro creatività. Nel mercato globale tutto si assomiglia: i centri commerciali, i prodotti venduti, i programmi televisivi, i divi, i modi di vivere. Arriva tutto gia pensato, catalogato, digerito, omogeneizzato.
Eppure nel corso della storia più che millenaria ci sono stati popoli che hanno evitato di essere totalmente asserviti, cancellati.
Oggi sono gli anglosassoni che dominano il mondo. Ma anche la cultura greco-romana è durata quasi un millennio. Quella cinese ha attraversato crisi gravissime ma è sempre riemersa.
Il popolo ebraico che ne ha passate di tutte, pur essendo disperso in tutto il mondo e parlando tutte le lingue, ha saputo conservare le proprie tradizioni, la propria identità e la capacita di pensare, di giudicare, di decidere. Solo chi conserva fortissima la propria identità è in condizione di affrontare il mondo globalizzato, di muoversi e di manovrare in esso senza farsi schiacciare.
Fonte: srs di Gianni Cecchinato, da Dal Veneto al mondo del 8 gennaio 2018
Link: https://dalvenetoalmondoblog.blogspot.it/2018/01/i-savoia-erano-francesi-non-piemontesi.html