Mi fu presentata dalla sorella più giovane d’un mio amico. Devo ammettere che non fui io a conquistarla, ma lei a catturarmi. Non solo! Dopo sei mesi fu sempre lei a mandarmi a spasso. E cosa ci potevo fare? Non sempre gli anelli s’infilano nel dito giusto.
Sul metro e sessanta, magrolina all’apparenza ma ben tornita, rossa e con capelli a coda, possedeva un bel sorriso, un buon carattere e qualche brufolo di troppo. Quel che la rendeva unica e singolare era il fatto che voleva far l’amore nuda e sempre nei prati. E non c’era verso di farlo diversamente.
Se il letto è il luogo preferito dai più, negli anni ho sentito che alcuni lo fanno volentieri sui tappeti, contro il tavolo della cucina, nelle vasche da bagno, negli ascensori, insomma, dove capita. Ma che si preferissero i prati a volte umidi di guazza, su zolle di terra nuda e cruda, oppure su spuntoni d’erba spesso anche secca e con una miriade d’insetti che ti corrono su e giù per il corpo, non l’avrei mai creduto se non l’avessi provato. Non ha tutti torti il grande Oscar quando dice che la natura è scomoda.
Frequentai Cristina un po’ prima d’innamorarmi di Ester. Agli appuntamenti andavo in motorino. Dovevo per forza usarlo se non volevo pedalare per chilometri e chilometri su argini, stradine di campagna, cavedagne(1), e seguire lei che mi precedeva in bici. Ed era sempre lei che sceglieva i posti dove sostare. Il più delle volte andava qualche ora prima in perlustrazione anche se, come spesso succedeva, quando c’era da gettarsi a terra, cambiava idea, e allora si doveva cercare altrove.
Sarà stato anche un periodo di goduria, ma non ero affatto sereno, vessato ogni giorno da mia madre per certe macchie verdi sugli abiti, e da Cristina che voleva a tutti i costi farmi scavalcare un muro di cinta per entrare in una villa abbandonata dove c’era un prato che, a suo dire, aveva un’erba favolosa, se non addirittura miracolosa. Eh, sì! Il nostro problema era proprio un tappeto verde.
Di solito, ci mettevamo vicino ai cigli dei sentieri o sulle sponde degli argini vicini al Po, dove l’erba era più soffice e più fresca. Se poi fra il verde c’era anche qualche fiorellino diventava ancor più matta. Si arrotolava su quei tappeti non per l’amore alla terra come provava Rossella O’Hara, ma come una puledra.
La gente di campagna sa che i cavalli che vivono allo stato brado arrotolandosi sull’erba non han bisogno di essere strigliati. Lei era convinta che la sua pelle, come quella dei cavalli, diventasse più bella. Forse non aveva tutti i torti, ma non era questo il solo motivo: sui prati provava l’orgasmo primitivo degli animali, ed è forse per questo che mi vien il sospetto che le femmine siano più bestie di noi maschietti. Per queste manie a volte la chiamavo simpaticamente la mia “Cavallina”.
Nudi come vermi, si faceva l’amore sempre con un po’ di paura. Non si temevano gli sguardi maliziosi delle ninfe, quelli compiacenti dei satiri, i sorrisi beffardi dei folletti o l’occhio severo del re degli Elfi, ma la presenza di qualche guardone o del contadino troppo curioso, come era capitato una volta.
Quel giorno, avevamo scelto una cavedagna che da un lato era fiancheggiata da un filare di salici che seguivano un fosso, e dall’altro da un campo di stoppie. In quello stesso posto c’eravamo stati anche il giorno prima. Eravamo ai primi di settembre, sul far del mezzogiorno; in cielo qualche nube e un leggero tepore accarezzava l’aria. S’era appena buttata sull’erba quando gettò un urlo tremendo. Ben diverso di quando si trovò un ramarro sul ventre. L’aveva punta una vespa. Manco a farlo apposta, proprio su una chiappa.
Come si voltò, trovai un bollino rosso con un puntino nero nel mezzo che tolsi premendo con le unghie dei pollici. Mentre con piacere succhiavo la parte dove era stata punta, avvertii una presenza estranea. Alzando gli occhi mi trovai sotto lo sguardo d’un contadino che tra i baffi mi sorrideva. Mamma mia, che spavento! Se non me la son fatta addosso quella volta non mi capiterà mai più.
Accidenti, ma quell’uomo io lo conoscevo! Per la miseria, che culo! E poi dicono che il mondo è grande.
Fu lui a rivolgermi per primo la parola:
– Professore, ma cosa sta facendo?- e m’interrogava con i suoi occhi cerulei senza nascondere la sua sorpresa.
Cristina strillò e, arrotolandosi un paio di volte, arrivò ai vestiti e:
– O mio Dio! – coprendosi con un golfino.
Era il signor Giovanni, un agricoltore sui cinquant’anni parente dei miei amici Garavelli, anch’essi agricoltori, ed era anche lo zio d’un mio ex allievo. Caspita, se lo conoscevo bene! Ma cosa faceva da quelle parti?
– L’ha punta una vespa,- risposi. Come se fossi obbligato a giustificarmi, invece di mandarlo a quel paese.
Un silenzio pesante, rotto dal ronzio degli insetti e dal canto d’un cuculo proveniente dai boschi di pioppi, incombeva su quella scena dove qualche nuvoletta bianca stava a guardare. Peggio di così non poteva andare, a meno che al posto del signor Giovanni ci fosse stato il padre di Cristina.
Impacciato nel muovermi, non sapevo come togliermi da quella situazione imbarazzante e dalla curiosità di Giovanni che indugiava sul mio uccello(2) pronto per la partenza. Lui sorrideva, lasciando intendere la soddisfazione per avermi pescato in quel frangente. Di tanto in tanto gettava sguardi su Cristina per capirne la bellezza. Fremevo e masticavo rabbia.
Dopo qualche minuto di troppo, con un fischio richiamò il suo cane da caccia e, come se non gli fosse bastato di avermi rotto le uova, fischiettando se ne andò.
Che peccato: non avergli forato la parte alta dei calzoni con pallini del 12!
(1) Sentiero tra un campo e l’altro.
(2) Pene.
Fonte: srs di Enzo Monti del 2 settembre 2013
Link: http://enzo-monti.blogspot.it/2013/09/cristina.html