Nell’Odissea, Omero dice che Giove ha dato le sventure agli uomini affinché abbiano di che cantare.
A me basta poco: uno sguardo compiacente, un sorriso, tre parole, un pettegolezzo per poter mettere giù qualcosa. Non sarà un canto, ma neppure una lagna. A che serve scrivere delle disgrazie quando ogni giorno ne arrivano a vagoni?
Dopo il racconto fattomi dal commesso della pellicceria è come se avessi vinto cinquanta euro al gratta e vinci o se avessi bevuto al bar un paio di calici di champagne. E se poi questa storia mi riesce di metterla in modo decente sulle pagine bianche, volo allora tra le nuvole, e la sua storia diventa la mia: è come se l’avessi vissuta io.
Di primo pomeriggio e alla fine degli anni Settanta, avevo in negozio Alberto: un quarantenne, alto, atletico, dai modi gentili e dal soldo facile. Era venuto a ritirare un occhiale da sole a cui avevo sostituito una lente quando entrò Gigi, un mingherlino insignificante in divisa da commesso e che lavorava nella più nota pellicceria della città. I due si salutarono: Gigi con un’aria deferente, l’altro con quel distacco con cui si tiene lontano un seccatore.
Come Alberto uscì dal negozio, spinto dalla curiosità Gigi mi chiese: