Che fortuna! riuscire a dominare la voglia matta di mettere le mani su qualche bel culo di donna.
E con l’andar del tempo, ho notato che questa foia è comune a tanti uomini, se non addirittura a tutti.
A fine maggio del Settantacinque, con mia moglie andai in vacanza per una settimana a Capri. Avevo accettato l’invito di Gian Maria e di sua moglie Ida. Andare a riposarsi e a prendere un po’ di sole facendo qualche tuffo nelle limpide acque della nostra più bella isola, non era cosa di tutti i giorni. E chissà quando mi sarebbe capitato un’altra volta!
I partecipanti erano press’a poco della mia stessa età, dai trenta ai quarant’anni, ed erano tutti impiegati alla IBM, essendo stata la ditta che aveva organizzato quella breve vacanza. Mi fu facile legare con loro: quando si parte, si lasciano i grattacapi a casa e ci si va con una gran voglia di divertirsi. Contrassi amicizia con Ezio e Bravi, entrambi vivaci e scatenati quanto me. E nonostante mia moglie mi fosse sempre alle costole, già con loro ne avevo combinate più d’una.
Verso le dieci d’un bel mattino, la compagnia salì su un pulmino per andare ai Faraglioni. Eravamo talmente appiccicati che non si riusciva a respirare. Bravi, che quel giorno era particolarmente allegro, lungo tutta la strada aveva storpiato la canzone di Harry Belafonte “ Banana Boat”. Ne aveva cambiato le parole e, intonandosi a quel “talami banana”, cantava a squarcia gola quella del “ frutarol”(1). In preda all’euforia, per far salire sull’automezzo Leda, la moglie di Ezio, l’aveva aiutata spingendola con una mano sul fondo schiena. In pulmino, alla mia sinistra avevo Bravi e alla destra Ezio, io ero nel bel mezzo tenuto in piedi da loro due. Abbassando lo sguardo vidi che la mano di Bravi era ancora sul culo di Leda. Ma era un vizio o ci aveva preso gusto?
Lo giustificai pensando a “come si fa”, dico io, “a non toccare quel ben di Dio?”
Rialzai il capo, e subito dopo lo riabbassai: la mano di Bravi era sempre sullo stesso punto d’appoggio e lo stava accarezzando. Alzando leggermente il capo, volsi lo sguardo verso Ezio che era preso dal panorama.
Quell’eterno scapolone di Bravi s’era preso quella confidenza, non sembrava né turbato né eccitato: palpava il sedere con disinvoltura come ne fosse il legittimo e consacrato proprietario. Ritornando con lo sguardo su Ezio, lo trovai intento a osservare la mano. S’accorse che lo guardavo e, dopo un cenno a un sorriso e a una spallucciata, s’abbassò verso di me e sottovoce come per farmi una confidenza:
– Lassa che i se goda!
“ Ma come? Gli palpano la moglie, e lui mi dice lassa che i …” fu il mio primo pensiero. Ma riflettendoci bene, e considerando che aveva detto i al plurale al posto di el al singolare, probabilmente pensava che la moglie credesse che la mano fosse la sua e non quella di quel furbetto di Bravi.
Nei giorni successivi, li tenni sott’occhio tutti e tre per cercare di capire se l’episodio avesse creato dissapori. Purtroppo, anche se mi sarebbe piaciuto qualche screzio, tutto filò liscio come l’olio e, d’altra parte, non potevo andar a chiedere spiegazioni per non intorbidire le acque. E ogni volta che ripensavo a quell’episodio, consideravo la saggezza di Ezio di lasciar perdere e di non aver dato importanza al fatto.
Un giorno, avvenne che più o meno la stessa cosa capitò anche a me.
Nei primi anni dell’Ottanta, fui invitato dai miei amici Montignani a una festa di carnevale. Non fu una gran festa, anche perché ci furono tanti sciocchi che non erano in maschera, nonostante sulla locandina, a chiare lettere, ci fosse scritto che era di rigore per i partecipanti l’essere mascherati. Chi non si vuole mascherare perché lo trova poco dignitoso o si vergogna, è meglio che se ne stia a casa. E mi meraviglio perché non vengano respinti all’entrata. Già, siamo in Italia! e ciascuno fa ciò che vuole per onorare la libertà di rispettare regole e leggi.
In un capannone fuori città, organizzato dai ferrovieri o da qualche altra associazione di poveri lavoratori, alla modica cifra di trentamila lira, su lunghe tavolate e seduti su panche ci servirono un primo, un secondo, galani(2) , e oltre al vino a volontà, una mascherina, una trombetta, coriandoli e stelle filanti, dandoci poi la possibilità di fare tre salti.
In quella bolgia di duecento persone, mia moglie era vestita da zingara con trucco vistoso e grandi orecchini a cerchio; io portavo un saio da fraticello confezionatomi da Lucia, moglie di Montignani.
A tavola, avevo alle spalle un settantenne che aveva incominciato ad attaccar bottone con noi e che, dagli sguardi e dai sorrisi, ammirava sfacciatamente mia moglie. Io andavo in giro per i tavoli a confessare le signore. Per dare la soluzione, le costringevo a prendere in mano il cordone del mio saio come suggeriva una vecchia e ben nota canzone profana che inizia con: “Chi bussa al mio convento con quest’acqua e questo vento?” E le donne sorridevano quando dicevo che le assolvevo per aver peccato più di desideri che aver soddisfatto alle loro voglie. Non c’era bisogno di risposte, visto che con i loro sorrisi mi davano ragione.
Venne il momento d’andare al ballo. C’eravamo appena alzati da tavola, quando l’anziano ammiratore di Teresa come un gatto mi saltò davanti e, mentre si usciva dai tavoli verso la pista, mise le mani sul culo a mia moglie.
Masticavo rabbia. Solo dopo tre balli con questo novello spasimante venne da me Teresa che seccata:
– Adesso balli solo con me! L’ometto va oltre la creanza; non ne posso più: mi stringe talmente tanto che mi toglie il respiro.
Non dissi nulla. Prendermela con quel vecchio l’avrei mortificato per niente, e se poi l’avessi confessato a mia moglie, oltre a trasformare un simpatico e focoso ammiratore in un fastidioso seccatore, ci sarebbe rimasta male. Alla delusione sarebbe subentrata la rabbia di non potersi sfogare. Non valeva la pena di rovinarle la serata.
Durante il ballo allungai anch’io le mani.
– Ma cosa ti sei messa?
– Il busto come portano le zingare spagnole e una guaina. Perché?
Non sapendo come giustificarmi, le dissi:
– Se qualcuno ti dovesse toccare il cecè (3) ti troverebbe soda, direi di marmo.
– E perché qualcuno dovrebbe toccarmelo? Ma scusa un po’: per aver quarantatré anni è forse troppo flaccido?
Ricordandomi della lezione di Ezio: che c’è più carattere e saggezza nello starsene zitti che nel parlare, eludendo la domanda, cercai di distrarla. Con una piroetta la portai fuori tempo. Poi, per non farla cadere la ressi, la strinsi, e le diedi un bacio.
(1) Fruttivendolo.
(2) Frittelle di carnevale.
(3) Sedere.
Fonte: srs di Enzo Monti di sabato 1 marzo 2014
Link: http://enzo-monti.blogspot.it/2014/03/giu-le-mani-dal-culo.html