Dopo un paio d’anni dalla morte di mio padre, si vendette il negozio di tabaccheria. Mio fratello e mamma s’impegnarono a condurre il negozio d’ottica, mentre io, nonostante avessi superato solo il biennio d’ingegneria, ottenni la cattedra completa d’insegnante in Matematica e Fisica presso l’Istituto Tecnico per Ragionieri e Geometri della mia città.
Possedevo una 500 e un Moby: un ciclomotore francese leggermente più piccolo del nostro Ciao che faceva sbavare le ragazze e i ragazzi di quel periodo. Godevo dello stipendio, delle mance di mia madre e, pur non essendo una meraviglia, dell’ammirazione e della simpatia di qualche bella fanciulla. L’unico cruccio erano un paio di classi femminili dell’Istituto di Ragioneria. Oh, ma non mettiamola giù troppo dura! C’era anche da divertirsi, con le mani a posto, s’intende.
Vi ricordo che per insegnanti, tutori e chi può esercitare una qualche influenza sulle minori, la legge maggiora di due anni l’età di questa area protetta. Non che fossi preoccupato per questo. Dovevo star piuttosto attento a che non mi sfuggissero parole fuori luogo e a difendermi dalle malizie delle mie giovani allieve. Alcune erano ancora bambine, la maggior parte, uscite dalla pubertà, erano già donne fatte, e quindi più difficili da gestire.
Problemi mestruali, innamoramenti quotidiani, vestiti alla moda e fanatismo per i Beatles erano gli argomenti preferiti. Fin qui nulla di male. Più grave era il fatto che alcune non volessero indossare il grembiule bianco da portare in classe: imbruttiva. E allora dovevo spiegare che il grembiule non serviva tanto a loro, quanto a me, per proteggermi da scollature e curve pericolose. E non vi dico quante volte buttavo gli occhi al soffitto per non indugiare su meravigliosi panorami inviolati che venivano dai primi banchi. Lo san bene le donne che sedute le gonne si accorciano, come pure lo sapevano le ragazzine, soprattutto a quei tempi quando non s’usavano ancora i jeans.
Se non ne capitava una al giorno poco ci mancava. Ogni scusa era buona. Si rideva spesso, ma dovevo far attenzione a pesare bene ogni parola. La malizia era sempre alla porta. Pensate un po’ che un giorno a una piccolina che faticava ad arrivare alla lavagna posta dietro alla cattedra, tra le risate venne dai banchi l’invito:
– Ma dai, non far tanto la smorfiosa! Fatti prendere in braccio dal professore!
L’episodio però che vi voglio raccontare si riferisce a un mio folgorante ripensamento e a una altrettanto fortunata e precipitosa marcia indietro.
Un bel mattino, mentre tenevo una lezione di Matematica nella seconda classe di Ragioneria, non m’accorsi dell’ora tarda. Stava per scoccare la fine delle lezioni. Purtroppo non mi resi conto della stanchezza e svogliatezza delle mie allieve. Forse loro s’aspettavano già il suono della campanella, mentre io ero impegnato a finire in fretta un esercizio alla lavagna. Dopo aver scritto un paio di righe, mi voltai per vedere se la classe mi seguiva. Scorsi che l’allieva nel terzo banco della fila di mezzo stava giocando con i capelli di quella davanti. Cercava di arricciarli con una matita. Ritornai a scrivere, ma voltandomi di nuovo la trovai che si divertiva ancora. I nostri occhi s’incrociarono, con un gesto e con una smorfia le feci intendere di smettere e di prestare più attenzione.
Alla terza volta m’infiammai e la rabbia mi fece perdere i lumi. Spezzai il gesso e a vene ingrossate:
– Senti, ricciolina! La pianti di fare dei boccoli a quell’oca che hai davanti?… Eppure con un brutta occhiata ti avevo già colta sul fatto. – e gonfiando ancor più le gote e scandendo bene le parole – Hai una pallida idea dove ti posso ficcare quella maledetta matita?
Ottenni un silenzio che non avevo mai avuto. E davanti a occhi sgranati:
– Te la ficco nel … nel naso! – pronunciando quell’ultima parola come fosse la fine d’un rantolo.
Ancora un attimo di sorpresa e, subito dopo, dall’ultimo banco venne il primo applauso.
Fonte: srs di Enzo Monti del 23 gennaio 2015
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