Mi manca, mi manca qualcosa. Ah, già! voi avete pensato subito a qualche rotella. È probabile. Mi manca però un racconto che li riunisca un po’ tutti quanti e che si accordi con il primo che parla di mia madre. Ho trovato! Con la scusa di descrivere un episodio che ha come protagonista un mio amico, colgo l’occasione per parlare un po’ di me.
Guerra permettendo, ricordo d’essere stato per qualche mese all’asilo: quello che c’è in fondo a Via Volturno. Ve lo immaginate un selvaggio campagnolo in grembiulino azzurro, colletto bianco e con un cestino di vimini per la merenda? Ebbene, quello ero io. E già lì, mi tolsero braghette e mutandine e mi diedero una scaldata da farmi passare la voglia di sedermi. Più che il male, fu la rabbia che la maestra avesse fatto vedere il mio pistolino (1) alle bambine.
Sempre a causa della guerra, le aule delle prime classi elementari erano state sistemate nei locali del chiostro della chiesa di Sant’Ilario; ne ricordo le porte con le loro maniglie d’ottone dove un giorno m’attaccai e scalciai perché non volevo essere espulso dalla maestra Fornari.
Come si smise di battere i tacchi e di fare il saluto fascista, si ritornò nella vecchia sede: la Bissolati. Finalmente una scuola con aule e corridoi e che, in tempo di guerra, era stata adibita a ospedale. Bello il posto, ma triste il ricordo del maestro Bergomi. Oltre ad avermi allungato per bene le orecchie, con due ceffoni mi fece passare il resto della giornata dietro alla lavagna. Lui aveva messo mio fratello Vito su un alto mobile che fungeva da libreria e, in difesa del mio sangue, io uscii dai banchi e gli sferrai un calcione negli stinchi.
Le scuole Medie furono un vero disastro. Oltre a essere bocciato, facevo talmente tribolare in casa che per due anni, in seconda e terza media, mi misero in collegio: nel collegio vescovile Sfondrati, a seicento metri da casa.
Una volta riuscii a fuggire, ma a pochi passi da casa venni ripreso dall’economo del collegio, il signor Claudio. Che di signore aveva ben poco, visto che ci metteva in riga con delle sonore sberle. Ma ci pensate? Insieme ai figli dei contadini ero con Lanzoni l’unico cittadino. I suoi genitori erano presi dal commercio, essendo i proprietari del Fulmine, il più grande negozio d’abbigliamento di allora, i miei erano stufi di suonarmele. Caro papà, dovevi darmene di più. Forse le sberle non raddrizzano, ma di sicuro fanno riflettere.
Finita la terza media, andai in vacanza con mia madre a Pesaro. E lì, cominciai a perdere i capelli a ciocche. Di ritorno a casa i miei cari amici, per il fatto che fossi un contestatore e che mi pelassi, incominciarono a chiamarmi Calvino. Se qualcuno, passando da Cremona, dovesse chiedere a qualche vecchiotto di Calvino, anche se è passato quasi mezzo secolo, può star sicuro che avrà la conferma che di me si ricordano ancora.
Mia madre addolorata e preoccupata di questa mia improvvisa caduta di capelli, dopo un po’ di tempo, mi fece visitare da un dermatologo. Quel giovane meridionale stabilì ch’ero esaurito e che avevo bisogno di punture di ricostituenti. Figuriamoci! già ero un torello. Invece di tre seghe al giorno, me ne facevo quattro.
Un paio d’anni dopo, altra visita da un altro dermatologo. Un vero luminare! Quell’anziano dottore di Parma m’avrebbe fatto ricrescere i capelli con quaranta applicazioni di ultravioletti e quaranta stimolazioni elettriche. Quarantamila lire era il costo di questi trattamenti. Felice d’aver trovato chi mi avrebbe fatto rifiorire una bella chioma, mi consegnai con ventimila lire di anticipo e iniziai la cura.
Mamma mia, che successo! Dopo venti applicazioni di ultravioletti, ero abbronzato come avessi trascorso una stagione al mare. Avete presente il getto doccia? Orbene, dai fori per l’acqua uscivano invece scariche elettriche che mi martoriavano il capo. Una vera tortura! Già ero scemo, e con quelle applicazioni lo divenni ancor di più.
Visti i risultati, a metà cura mi presentai al medico per giustificare la mia rinuncia a proseguire. Assumendo un’espressione addolorata:
– Dottore, non ne posso proprio più! E mi tolga una curiosità: come mai lei s’impegna a farmi ricrescere i capelli quando della stessa cura ne avrebbe bisogno pure lei?
– Caro, ragazzo, io son vecchio, e poi ho perso i capelli a causa dell’elmetto portato per tre anni di guerra. Vedi: tu sei come questo senatore romano, accarezzando una testa d’uomo in marmo con capelli corti alla Cesare e leggermente calvo, e che faceva bella mostra di sé sulla sua scrivania.
– Può darsi che lei abbia ragione nel dire che la mia è una malattia anche se non è alopecia. Ma io non posso diventar matto per una semplice calvizie arrivata anzi tempo. E poi, quei quattro peli biondi in più che lei ha notato, non giustificano queste mie sofferenze.
Ci lasciammo in santa pace. Dei due, ve l’assicuro, ero il più contento. Era finito quel tormento e mi tenevo il mio bel soprannome di Calvino. Una volta sola questo epiteto m’infastidì: il giorno che Pamela alla stazione di Pizzighettone, con una voce da carrettiere, mi salutò gridando “Calvooo!”
Pamela oppure Pami erano i due diminutivi di come chiamavamo Epaminonda. Un botolo più piccolo di me, grassottello, con la faccia di luna piena, sempre sorridente: un caro amico dell’oratorio. Giocava al pallone in porta, dove sulle palle alte non ci arrivava mai. Anche per questo m’era simpatico.
Di lunedì mattina, un po’ prima delle sette, prendevo il treno per andare a Pavia all’università. Un bel dì, me lo trovai che faceva il capostazione a Pizzighettone, un paese sull’Adda a meno di trenta chilometri dalla città, e che era, dopo Cavatigozzi, la seconda fermata. Come mi vide, esplodendo di gioia mi gridò Calvooo! Con una voce grossolana e sgraziata, paragonabile solo a quella d’un vaccaro.
Stavo parlando con una raffinata e bellissima compagna d’università, di cui ne ero anche innamorato. Rabbrividii! Lo salutai con una mano, allargai le braccia, e alla mia vicina:
– Non pensar male, quello è il mio amico più raffinato. – e sorridendo aggiunsi – Difficile averne di peggio.
Giuro che gli avrei ficcato quel suo fischietto di capostazione, sapete bene dove.
Per un paio d’anni lo sopportai, anche se facevo di tutto per evitarlo.
Quindici anni fa, da mio fratello mi feci indicare dove abitava. Andai a trovarlo: volevo sapere l’indirizzo di Leo, quello spilungone che ho citato nel racconto Mago Sabino e Rucheton. Questo mio vecchio amico, dopo il diploma di geometra, era andato a lavorare all’estero e non l’avevo più rivisto.
Chiamai Pamela al citofono. Voleva sapere chi fossi, gli risposi ch’ero un amico.
– Ma dimmi chi sei?
– Non posso, rovinerei la sorpresa.
– Ma…
– Senti: se ti chiamo per soprannome vuol dire che ti conosco. Sbrigati, e vieni giù!
– Mi metto i calzoni della tuta e scendo.
Arrivò sospettoso all’ingresso del condominio, dietro a lui, l’ombra della moglie. Mi riconobbe e, quando ormai del suo “Calvooo” non me ne importava più un fico, con il tono mellifluo della lusinga:
– Ma che sorpresa! … È il dottor Monti!
Non sono stato all’altezza: non l’ho accoppato.
- Piccolo pene.
Fonte: srs di Enzo Monti del 12 giugno 2017
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