di Gianni Sartori – 26/04/2017
Fonte: Gianni Sartori
Avvertenza: questo non è, assolutamente, un articolo di informazione sull’inquinamento da PFASS che sta impregnando le acque e i corpi del Veneto. Soltanto un necrologio, un amaro amarcord condito di qualche considerazione su come funziona il capitalismo, quello del nord-est in particolare. Per gli aspetti tecnici potete attingere alle puntuali denunce pubblicate da qualche anno a questa parte su Quaderni Vicentini. In tempi non sospetti, quando invece un noto quotidiano locale ignorava o minimizzava la grave situazione che si andava delineando.
Non è nemmeno un invito a intervenire per rimediare. Da tempo ho la convinzione che cercare di fermare il degrado ambientale sia quasi impossibile. Nel Veneto senza “quasi”. Qui la catastrofe è ormai completa, per quanto subdola e inavvertita. Il territorio veneto e ancor più quello vicentino (un’autentica “poltiglia urbana diffusa” da manuale) hanno raggiunto livelli di contaminazione e cementificazione tali che soltanto un’apocalisse di ampia portata potrebbe, forse, porvi rimedio. Ripristinando in parte quell’ordine naturale che oggi come oggi appare irrimediabilmente stravolto.
Prendiamo atto comunque che se pur molto tardivamente, la questione PFASS ha assunto rilevanza non solo locale ma anche regionale (vedi la richiesta di analizzare l’acqua “potabile” nelle scuole in provincia di Rovigo). Ma per quanto riguarda la “sfilata degli ipocriti” (i sindaci vicentini che hanno manifestato a Lonigo contro l’inquinamento da PFASS) direi che si commenta da sola. Dov’erano le istituzioni in tutti questi decenni (almeno 4, dagli anni settanta) mentre la RIMAR prima e la MITENI (cambia il nome, ma l’azienda fisicamente è sempre la stessa) poi versavano schifezze direttamente nelle nostre acque e indirettamente nel nostro sangue?
Solo una facile “profezia”. E’ probabile che tra una decina d’anni altri sindaci sfileranno nel Basso Vicentino (magari, azzardo, in quel di Albettone, uno dei tratti più riempiti da scarti di fonderia e altre schifezze) per esprimere una tardiva e altrettanto ipocrita indignazione per l’inquinamento prodotto dai rifiuti tossici (metalli pesanti) ammucchiati a tonnellate sotto la A31.
Non dovendo preoccuparmi di fornire numeri e dati sull’inquinamento prodotto dalla exRimar, ora Miteni (ampiamente disponibili in rete), attingo a qualche ricordo personale*riesumando speranze e delusioni di quando, ormai 40 anni fa, forse si sarebbe ancora potuto arginare la marea tossica non più strisciante, ma ora dilagante.
Un accenno soltanto all’apprezzabile richiesta (per quanto simbolica e fuori tempo massimo, a mio avviso) avanzata da qualche oppositore di “parametri certi sulla soglia di inquinanti presenti nelle acque con cui si abbeverano gli animali e si irrigano i campi, così come è doveroso da parte del Governo dare una risposta immediata per fare fronte alla crisi che per ovvie ragioni rischia di precipitare su chi lavora di agricoltura, soprattutto considerando il fatto che l’inquinamento da Pfass ha contaminato anche la catena alimentare, come risulta da una serie di prime analisi effettuate dall’Istituto Superiore di Sanità in alcune zone del Veneto. Sia sul siero umano che su alcuni alimenti come uova e pesci emerge infatti la presenza di contaminazione, come abbiamo sottolineato in una risoluzione indirizzata al Governo a dicembre.”
Una presa di posizione modesta, scontata, ma sempre meglio che niente.
D’altra parte: l’avete voluto il capitalismo? E allora godetevelo, cazzo!
AMARCORD
Metà anni settanta. Qualche anno prima avevo (coerentemente o sconsideratamente…non l’ho ancora capito) rinunciato al posto statale da insegnante elementare, pur avendo vinto il concorso. La scelta (comunque sofferta per un giovane proletario figlio di proletari, con scarse alternative) veniva dopo aver scoperto che l’assunzione comportava un giuramento (allo Stato delle stragi? Mai!). Ero quindi tornato allo scaricamento e stivaggio di camion alla Domenichelli, in notturna, alternando con saltuari lavori da operaio (tra le altre, la Veneta-Piombo di Alte-Ceccato: tutta salute!).
Finendo poi inchiodato per qualche anno alla fresa, nel “retrobottega” di una microazienda artigiana con orari prolungati.
Fu durante un breve periodo di transizione di circa 20 giorni (transitavo da operaio in una microazienda a commesso in una libreria) che tornai a scaricare con una delle due o tre famigerate “cooperative” **di facchinaggio esistenti in città. Questo mi consentiva, paradossalmente, di staccare dal lavoro in orari decenti (tra le cinque e le sei di sera), mentre prima in genere finivo verso le 19,30-20. Una possibilità per frequentare Radio Vicenza, all’epoca gestita da amici e compagni di area libertaria, in particolare Rino Refosco e Rosy. Doveva essere la fine del 1976 , mi pare. Lo deduco dal fatto che quasi ogni sera qualcuno dedicava una canzone (in particolare “Ma chi ha detto che non c’è?” di Manfredi) al compagno Claudio Muraro da poco arrestato (nel 1976) e ancora detenuto a Vicenza, prima di finire nel “circuito dei camosci” delle carceri speciali (a Pianosa, mi pare).
Dalla radio veniva denunciata con ostinazione la recente scoperta che la RIMAR (“Ricerche-Marzotto”) scaricava fetide sostanze nelle acque correnti dell’Alto Vicentino. In particolare quelle della Poscola, un nome a cui ero sentimentalmente legato. Nasceva infatti dall’omonima grotta situata a Priabona, un “aperitivo” prima del Buso della Rana.
Denuncia dopo denuncia, non mancarono velati consigli di “lasciar perdere, non mettersi contro qualcuno troppo grande per voi…”. Se non vere e proprie minacce, quasi.
Tutto qui, per quanto mi riguarda. Tornai quindi ai miei soliti orari e le mie frequentazioni calarono sensibilmente (o forse per scazzi personali e comunque “avevo altro da fare”).
E pensare che in anni non sospetti avevo avuto anche modo di visitarla, la RIMAR intendo. Doveva essere verso la fine del 1967 o l’inizio del 1968, sicuramente prima del 19 aprile e della storica rivolta operaia (a cui, casualmente, mi capitò di assistere, ma ve lo racconto un’altra volta, magari per il 50°) con abbattimento della statua del feudatario locale.
Mi capitava allora di andare qualche pomeriggio a Valdagno in autostop per frequentare la piscina comunale aperta in periodo invernale. Un tardo pomeriggio stavo giusto rientrando a Vicenza quando un macchinone si fermò in risposta al mio pollice levato. Salgo e il signore dopo un po’ si presenta. Era uno dei fratelli Marzotto, nientemeno. Evidentemente metteva in pratica i principi paternalistici su cui si fondava la dinastia.
Il clima doveva già aver cominciato a surriscaldarsi (quello sociale, non si parlava ancora dei cambiamenti climatici) perché il borghese che gentilmente si prestava a farmi da autista commentò alcuni recenti episodi di contestazione al consumismo sostenendo (vado a memoria, sono passati 50 anni) che per la “felicità” della gente era indispensabile che tutti potessero godere di auto, frigoriferi e lavatrici. Poi, caso mai, si poteva pensare…non ricordo a cosa, sinceramente.
Dato che non dovevo sembrare molto convinto di questo elogio della merce, mi propose una visita alla sua fabbrica d’avanguardia che sorgeva lungo il percorso. Fu così che mi affidò a un tecnico per una visita guidata della RIMAR. Poco convinto il tecnico, poco convinto anch’io che temevo di non trovare un altro passaggio prima di notte, la visita fu alquanto frettolosa e mi rimase soltanto la sensazione di un leggero bruciore alle mucose respiratorie. Per chi non è del posto, segnalo che la già denominata Rimar oggi si chiama Miteni, dopo aver cambiato due-tre volte nome, consiglio di amministrazione e in parte proprietà.
Tutto qui. Ricordo solo che un’altra volta presi un passaggio dall’altro Marzotto, il fratello in politica nel PLI. Evidentemente ci tenevano a mostrarsi generosi con le masse popolari appiedate.
Ma dopo il 19 aprile le cose cambiarono, evidentemente e non mi capitò più l’onore di un autista chiamato Marzotto. In compenso, nel febbraio 1969 (all’epoca dell’occupazione della fabbrica) tornai a Vicenza con la grandissima compagna, partigiana e giornalista dell’Unità, Tina Merlin (ma questa è un’altra storia).
Gianni Sartori
* nota 1: “Preserva i tuoi ricordi, è tutto quello che ti resta” P. Simon (cito a memoria)
** nota 2 : “famigerate” perché, come scoprii a mie spese, oltre a praticare una forma mascherata di caporalato, non versavano mai alcun contributo, nonostante richiedessero la consegna del libretto di lavoro. Perché? In caso di incidente potevano sempre dire di averti assunto proprio quel giorno e di non aver ancora compilato le “carte”.
Una nota polemica anche per alcuni “compagni”. Ricordo benissimo che per gli amici di Potere Operaio la mia scelta era stata classificata da “lumpenproletariat”. Detto da loro, di estrazione medio e piccolo-borghese pareva un complimento. Questo nella prima metà degli anni settanta. Dopo, nella seconda metà dei settanta, quando erano già diventati quelli di AutOp, le cose cambiarono con la scoperta dell’”operaio sociale”. Addirittura a Scienze Politiche di Padova si organizzarono corsi e seminari sulle cooperative di facchinaggio. Ma non ne ricordo uno che fosse uno di costoro (devo far nomi?) che sia venuto una sola volta a scaricare camion. Avevo invece condiviso spesso tali attività ricreative con il già citato compagno anarchico Claudio Muraro (fratello della filosofa Luisa Muraro, quella dell’Erba Voglio e della Signora del gioco) sia alla Domenichelli che alla Olimpico-traslochi.
Fonte: srs di Gianni Sartori, da Arianna Editrice del 26 maggio 2017
Link: https://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=58801