by Gianni Sartoridel 11/01/2019
Chiamatela resa, chiamatela scelta consapevole, chiamatela come vi pare… ma dalla definitiva rinuncia alle armi di ETA non sembra sortire granché. O almeno per gli etarras prigionieri. Basta fare un confronto con quanto era avvenuto nel secolo scorso prima in Sudafrica e poi in Irlanda, dove almeno le porte delle celle si erano aperte e gli ex combattenti avevano potuto rientrare a casa loro.
Ma non in Spagna. Sarà la cultura cattolica dell’espiazione, sarà che lo Stato spagnolo è geneticamente fascista e vendicativo… non so. Resta il fatto che l’idea di lasciarli crepare dietro le sbarre (a guerra finita, ricordo) a Madrid pare non dispiacere.
In prigione il tempo passa lentamente, ma passa. E si invecchia.
Per questo le condizioni di salute dei prigionieri sono andate via via peggiorando. Al punto che molti di loro sono in pericolo di vita. Una percentuale, quella di chi è afflitto da malanni fisici o psichici, notevolmente aumentata negli ultimi anni. Con conseguenze immaginabili.
Senza retrocedere troppo nel tempo (i casi sarebbero decine), l’anno scorso nel carcere di Puerto si era suicidato Xabier Rey (rappresentante sindacale del LAB, sottoposto a tortura), mentre a Badajoz, in giugno, era morto Kepa del Hoyo (a causa di una precedente crisi cardiaca non adeguatamente diagnosticata né tantomeno curata).
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