Il deputato austriaco CESARE BATTISTI, di Trento, tradì il Tirolo dei suoi avi e il parlamento di Vienna scrivendo il 22 ottobre del 1914 a Roma, al Ministero della Guerra, quando il Regno d’Italia era ancora neutrale. In quella lettera si legge:
«Per il caso di guerra con l’Austria mi metto a completa disposizione del Ministero della Guerra, chiedendo di essere arruolato nell’esercito regolare…», firmandosi «Dott. C. Battisti, Deputato al Parlamento Austriaco per la Città di Trento».
Venti mesi più tardi venne tradito dai suoi superiori del Regio Esercito Italiano che lo lasciano andare in prima linea, perfettamente consapevoli dei rischi della trincea e di cosa gli poteva accadere se, come poi gli avvenne, fosse stato preso prigioniero dagli austriaci.
Sarebbe bastato un semplice ordine per tenere Battisti fra le solide mura di Forte San Procolo a Verona. Ma quell’ordine non venne dato. Anzi.
Forse perché si comprese che il tenente Battisti, intuita l’offensiva che portò gli austriaci ad occupare Asiago, stava diventando un testimone troppo scomodo nel caso di una inchiesta della magistratura militare che poteva coinvolgere quanti avevano colpevolmente sottovalutato la portata dell’evento militare.
Era il febbraio del 1916 e a Verona, al comando della Prima Armata, si cominciava, «ad aver sentore dell’intensificarsi dei lavori nemici, che dovevano culminare nell’offensiva del maggio successivo» come si legge nelle pubblicazioni del generale Tullio Marchetti, il famoso irredentista di Bolbeno.
E proprio attorno a quelle prime informazioni raccolte da Battisti sull’offensiva scatenata a maggio e passata alla storia come Strafe-Expedition, si evidenziò uno sciagurato errore.
Non esisteva nell’Esercito Italiano un ufficio informazioni organizzato unitariamente. Si aggiunge che per invidie personali o mire di carriera, poteva avvenire che le informazioni, anche le più serie, raccolte dagli uffici periferici, venissero trascurate, addirittura occultate facendo in modo che non giungessero al Comando d’Armata né al Comando Supremo. Dal canto suo, il generale Roberto Brusati, comandante dell’Armata, «male rassegnandosi al compito puramente difensivo, che a torto giudicava troppo modesto, tentò sempre di spingersi avanti alla ricerca di facili e insignificanti successi, fine a se stessi del tutto in disarmonia con la missione strategica assegnata all’Armata». Come si legge in «Pagine Polemiche» [pagina 162] scritto da Cadorna.
«Si aggiunge che per invidie personali o mire di carriera» – e questo lo scrive Tullio Marchetti – «poteva avvenire che le informazioni anche le più serie, raccolte dagli uffici capillari, venissero trascurate e non giungessero neppure al generale comandante dell’Armata, nonché al Comando Supremo». Insomma, le informazioni raccolte da Battisti nel forte di San Procolo dagli interrogatori di disertori e prigionieri in vena di parlare, non giunsero tempestivamente al generale Roberto Brusati, comandante della Prima Armata che presidiava anche la zona degli Altipiani.
Il 10 aprile del 1916, in attesa dell’offensiva austriaca che venne scatenata il 15 maggio, Battisti suggerì di bombardare Trento «con dirigibili ed aeroplani per colpire gli edifici militari e gli immensi depositi di munizioni e provviste che gli austriaci vi concentravano» in preparazione della Strafe-Expedition.
Cesare Battisti preparò una carta topografica della città, differenziando a vivaci colori la zona monumentale dalle quattro di importanza militare. Il comando della Prima Armata era contrario al bombardamento della città mentre Battisti «si era riballato a quei criteri, credendo invece necessari, e non deprecati dalla popolazione trentina, certi bombardamenti».
Battisti calcò la mano definendo «immensi» i depositi di munizioni che, comunque, erano notevoli; il bombardamento venne compiuto da un dirigibile decollato da Villafranca; le bombe gettate ovviamente alla rinfusa dopo un difficilissimo volo in mezzo ad una bufera di neve, causarono danni insignificanti, decapitarono il busto di Verdi in Piazza Dante (sorprendente coincidenza: nella Milano ancora austriaca, nei giorni del Risorgimento il grido di Viva Verdi significava Viva Vittorio Emanuele Re d’Italia) e colpirono il palazzo dove oggi ci sono gli uffici della Provincia, ma Luigi Cadorna, il comandante supremo dell’Esercito italiano continuò a escludere la possibilità dell’offensiva austriaca anche perché gli Altipiani, dopo un inverno durissimo, erano coperti da metri e metri di neve.
Solo Cesare Battisti era sicuro che l’offensiva nella sua città natale fosse imminente e il 9 aprile, scrivendo all’irredentista Giovanni Pedrotti, spiegava: «Molta attesa per l’offensiva austriaca sul fronte trentino, che pare verosimile ed imminente. Come a Verdun c’è il Kronprinz, qui ci sarà l’Ereditario! Ma sarà accolto a dovere…».
Il 22 aprile Battisti scriveva alla moglie, l’italiana Ernesta Bittanti: «Fra pochi giorni si attende la grande offensiva austriaca nel nostro Trentino».
Ma il generale Cadorna pensava diversamente, come viene riportato nel libro «Pagine Polemiche» [pagina 127] del 1946: «guidato dal principio fondamentale dell’arte della guerra, di attribuire al nemico divisamenti logici e razionali e non propositi stolti e fallaci, non credevo ad una offensiva austriaca nel Trentino».
La contraddizione di Cadorna era evidente quando affermava di essere a conoscenza «di sintomi concreti di truppe nemiche verso il Trentino fino dagli ultimi giorni di marzo… delineandosi maggiormente le probabilità offensive» per dimostrare che «il non credere non lo avesse minimamente distolto dal provvedere in tutto e per tutto come se credesse» possibile l’offensiva.
A guerra finita, Cadorna conferma di non aver creduto nell’offensiva austriaca, attribuisce poi a Brusati la colpevole sottovalutazione dell’evento che costò centomila morti italiani la maggior parte soldati costretti a combattere per non finire fucilati.
L’offensiva austriaca portò l’esercito dell’imperatore Francesco Giuseppe ad un soffio da una vittoria che poteva costringere l’Italia ad arrendersi.
Cesare Battisti fu il principale testimone di quegli avvenimenti, delle negazioni del Comando Supremo, del siluramento del generale Brusati, delle cause che avevano portato l’Esercito d’Austria sul territorio del Regno d’Italia, del costo di migliaia di vite umane.
Battisti stava diventando un testimonio scomodo, magari pericoloso per quanti non gli avevano creduto mentre i giornali italiani cominciavano a domandarsi sul perché di quella sconfitta.
Si poteva profilare un’inchiesta della magistratura militare? Difficile dirlo. Più facile pensare che quando Battisti decise di tornare al fronte, nessuno dei suoi superiori – e sarebbe bastato un semplice ordine verbale – lo trattenne a Verona.
E Battisti verrà poi catturato dai suoi connazionali, tirolesi di lingua italiana come lui, soldati fedeli alla Patria – che ovviamente non era quella italiana.
Battisti invece combatteva per una patria adottata e che non gli impedì di morire.
Fonte: da facebook Trento e Tirolo del 16 gennaio 2019
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