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Gli ebrei del tempo della Bibbia, credevano nell’al di là?
In ebraico non esiste neppure questa espressione. (Il termine ‘olam non ha il senso dell’eternità, ma di “tempo lontanissimo” riferito sia al passato che al futuro.
La morte per gli ebrei era la fine di tutto: non esiste l’al di là: tutti, buoni e cattivi, dopo morti si scende nello “Sheol“, cioè in quella che secondo la concezione mitologica della terra dell’epoca, era considerata una enorme caverna sotterranea, dove ridotti a larve, ad ombre, ci si nutre di polvere.
Questo era tutto quel che si credeva in Israele al riguardo dell’al di là: tutti, buoni e cattivi, quando si muore si riceve la stessa sorte: nella caverna sotterranea come spettri a mangiare polvere: “i morti non vivranno più, le ombre non risorgeranno” (Is 26,14).
Quando l’influsso della filosofia greca iniziò a farsi sentire pure in Israele, e cominciarono a divulgarsi le dottrine sull’immortalità dell’anima, verso il 200 a.C. un “predicatore” (è questo il significato del termine ebraico Qoèlet [l’ecclesiaste] che dà il titolo al suo libro), scrisse per contestare vivacemente queste idee:
“La sorte degli uomini e quella delle bestie è la stessa; come muoiono queste muoiono quelli; c’è un solo soffio vitale per tutti. Non esiste superiorità dell’uomo rispetto alle bestie, perché tutto è vanità. Tutti sono diretti verso la medesima dimora: tutto e’ venuto dalla polvere e tutto ritorna nella polvere.” (Qo 3,19-21);
E ancora:
“Vi è una sorte unica per tutti, per il giusto e l’empio, per il puro e l’impuro, il buono e per il malvagio. Questo è il male in tutto ciò che avviene sotto il sole: una medesima sorte tocca a tutti” (Qo 9,2-3).
Visione pessimista che tocca il suo culmine quando proclama che è “meglio un cane vivo che un leone morto. I vivi sanno che moriranno, ma i morti non sanno nulla; non c’è più salario per loro, perché il loro ricordo svanisce. Il loro amore, il loro odio e la loro invidia, tutto ormai è finito” (9,4-6);
“Tutto ciò che devi fare, fallo finché ne sei in grado, perché non ci sarà più nulla giù nello sheol, dove stai per andare” (Qo 9,10).
Questo era quanto pensava “il predicatore” duecento anni prima di Gesù. (C’è da chiedersi quanti cristiani hanno un’idea simile della vita dell’al di là… si lascia tutto, amori, interessi, affetti, e si vive come anime beate e disincarnate in un mondo senza colori…)
Non esistendo quindi un “al di là”, la retribuzione per il bene e il male compiuto avveniva su questa terra. Il bene era compensato con una lunga vita, abbondanza di figli, prosperità. Il male veniva punito con vita breve, sterilità e miseria, e la colpa dei padri veniva punita nei figli fino alla quarta generazione, secondo la teologia del libro del Deuteronomio: “Io “Yahvé tuo Dio sono un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione per quanti mi odiano” (Dt 5,9), poi corretta all’interno dello stesso libro: “Non si metteranno a morte i padri per una colpa dei figli, né si metteranno a morte i figli per una colpa dei padri; ognuno sarà messo a morte per il proprio peccato” (Dt 24,16):
Il profeta Ezechiele contesta questa visione della vita ed afferma che Dio retribuisce sempre e subito le azioni dell’uomo e che ognuno è responsabile del suo agire: “Colui che ha peccato e non altri deve morire; il figlio non sconta l’iniquità del padre, né il padre l’iniquità del figlio. Al giusto sarà accreditata la sua giustizia e al malvagio la sua malvagità” (Ez 18,20).
Quindi “ad ognuno il suo”.
Teologia, questa del profeta Ezechiele, semplice ed accettabile, ma contraddetta dalla realtà che non si presenta così. Per questo nella polemica interviene un autore, che è rimasto sconosciuto, il quale scrive il “Libro di Giobbe” proprio per contestare questa idea teologica dove si afferma che il buono è premiato ed il malvagio punito, e presenta un uomo pio e buono al quale capitano tutte le disgrazie di questo mondo (compresa quella d’amici che lo vanno a consolare ed offrire i loro “buoni consigli”) per dimostrare che non è vero che i buoni vengono premiati.
A tirar fuori dal vicolo cieco in cui queste dispute teologiche avevano condotto, sarà un anonimo autore del II secolo, il quale per dare coraggio ai martiri della persecuzione religiosa del terribile Antioco Epifane introduce un nuovo, rivoluzionario elemento, quello di un ritorno alla vita dei morti per il giudizio finale. Resurrezione però limitata ai giusti del popolo giudaico: “Molti di quanti dormono nella polvere si desteranno: gli uni alla vita eterna, gli altri all’ignominia perpetua” (Dn 12,1-2).
E’ la prima volta che nella Bibbia compare il termine “vita eterna“. Alla vita eterna, cioè per sempre, l’autore contrappone una “ignominia perpetua”, cioè una disfatta definitiva, irreversibile, il fallimento definitivo (l’espressione “ignominia o sconfitta perpetua” [ebr. herpat ‘olam], si trova nel salmo 78,66, senza alcun senso di sopravvivenza eterna (in Isaia 66,24 si menzionano i “cadaveri” non degli esseri risuscitati che soffrono).
Fuori della bibbia ebraica, si trova l’idea di resurrezione nel Secondo Libro dei Maccabei (160 a.C.?). Nel famoso racconto dell’atroce martirio della madre e dei suoi sette figli, viene espressa una fede per la resurrezione ad una “vita nuova ed eterna” (II Mac 7,9) per i martiri, vita però che viene esclusa per i persecutori: “per te la risurrezione non sarà per la vita” (II Mac 7,14): è la morte eterna, cioè definitiva.
Quel che da queste ipotesi teologiche si ricava è che la fede nella resurrezione dei morti è una conseguenza della fede nel Dio Creatore: la resurrezione viene intesa come una nuova creazione dell’uomo intero.
Queste nuove teorie però non verranno accettate, anzi verranno condannate come eretiche e rifiutate dalla gerarchia allora al potere, il gruppo dei Sadducei in quanto non contenuta nei primi cinque libri della Bibbia. (“In quello stesso giorno vennero a lui dei sadducei, i quali affermano che non c’è resurrezione” Mt 22,23), ma se ne approprieranno i “Farisei”.
Laici pii impegnati ad osservare fedelmente la Legge in tutti i suoi dettagli, elaborano per primi in maniera sistematica, la dottrina della resurrezione dei giusti. Il premio o la punizione per l’uomo vengono posticipati a dopo la morte per cui il giusto ritornerà alla vita e il malvagio rimarrà nello “Sheol”.
L’idea di resurrezione dei giusti proposta dai Farisei, viene limitata a Israele. Ne sono esclusi i pagani, i cafoni e quanti vengono seppelliti fuori della Terra Santa. Poi – riflettendo ulteriormente – questo gruppo religioso affermerà che risorgono pure i pagani, ma per essere presentati di fronte al tribunale del giudizio: chi avrà osservato la Legge di Dio verrà ammesso nel “giardino dell’eden” (il paradiso)
Il termine paradiso deriva dal medio-iranico pardez, che significa: giardino, parco. Traduce l’ebraico gan (giardino). Nella Bibbia dei LXX il termine traduce prevalentemente “giardino”). Nei vangeli si trova una sola volta in Lc 23,42, quando Gesù rivolgendosi al ladrone l’assicura di entrare con lui nella vita definitiva. Mai nei vangeli Gesù parla di “paradiso” per indicare la realtà che spetta all’uomo oltre la morte. Gesù parla sempre e unicamente di una vita capace di superare la morte e che per questo si chiama “eterna“. Nel resto del NT solo due volte: 2 Cor 12,4 dove Paolo afferma che “fu rapito in paradiso e udì parole indicibili” e in Ap 2,7: “Al vincitore darò da mangiare dall’albero della vita, che ta nel paradiso di Dio”.
I malvagi verranno gettati nella “Geenna” (“valle del figlio di Hinnom”), è un burrone a sud di Gerusalemme, dove c’erano altari (tofet) nei quale venivano sacrificati i bambini in onore del dio Molok: “Hanno costruito l’altare di Tofet, nella valle di Ben-Hinnon, per bruciare nel fuoco i figli e le figlie” (Ger 7,31).
Per stroncare questo culto, la valle venne trasformata in immondezzaio di Gerusalemme, sperando che gli ebrei, che avevano l’orrore di tutto ciò che era sporco e quindi impuro, smettessero di praticare questi sacrifici umani. Col tempo questa valle divenne simbolo di punizione per i malvagi dopo morte, come leggiamo nel Talmud:
“Il Santo -che benedetto sia- condanna i malvagi nella Geenna per 12 mesi. Prima li affligge col prurito, quindi col fuoco ed infine con la neve. Dopo 12 mesi i loro corpi sono distrutti, le loro anime sono bruciate e sparpagliate dal vento sotto le piante dei piedi dei giusti…” (Sanh.29b; Tos.Sanh.13,4-5).
Nell’ebraismo non esisteva e non esiste una idea di una pena eterna da scontare dopo la morte. Ma, dopo 12 mesi c’è l’annientamento della persona (anche oggi gli ebrei pregano per undici mesi per il defunto, dopodiché o è nella vita eterna e non ha bisogno di preghiere, oppure è morto per sempre e le preghiere sono inutili).
Gesù poi prenderà l’immagine della geenna come metafora per indicare la distruzione totale della persona che non accoglie il dono di una vita più forte della morte.
Al rifiuto della vita per sempre corrisponde la morte per sempre. E’ questo il significato del monito che corre lungo tutto il vangelo da parte di Gesù di cambiare atteggiamento altrimenti la fine è nella Geenna, cioè nell’immondezzaio.
Nei vangeli non solo non si parla mai d'”inferno“, ma non esiste neppure la parola. Nei vangeli si parla di chasma(Baratro) Lc 16,26; di abyssos (Abisso) Lc 8,31, di Ade (ebr. Sheol) Mt 11,23; 16,18; Lc 10,15; 16,23; (il regno sotto terra, che, secondo la mitologia greca, alla ripartizione del mondo tra i tre figli di Cronos (Zeus, Poseidone e Ade), era toccato al terzo figlio, lo spietato Ade), e di Geenna (Mt 5,22.29.30: 10,28; 18,9; 23,15-33; Mc 9,43.45.47; Lc 12,5).
Tutte immagini che hanno ben poco o nulla da vedere con quella che intendiamo per inferno, cioè un luogo di supplizi eterni popolato da diavoli tremendi.
Agli inizi dell’era cristiana, sotto l’influsso di idee ellenistiche, l’immagine del mondo aveva cominciato a modificarsi: l’immagine dell’universo a tre piani (cielo, terra, mondo sotterraneo) venne sostituita dalla terra circondata da sfere planetarie: la regione celeste, al di sopra della luna era riservata agli dei e quella al di sotto della luna agli spiriti degli uomini e alle potenze demoniache. (Il “descensus ad inferna” compare per la prima volta in una professione di fede verso la metà del secolo V, nella cosiddetta quarta formula di Sirmio del 359, opera del siro Marco di Aretusa).
Gesù prenderà pure l’idea farisaica della resurrezione (ma cambiandone sostanzialmente il contenuto) per parlare agli ebrei, che potevano capire questa categoria teologica (cfr. Mc. 8,31; 9,31;10,34.). Ai pagani, Gesù non parlerà mai di risurrezione, ma di una vita capace di superare la morte fisica: “…chi perde la propria vita per causa mia e del Vangelo la conserverà…” (Mc 8,35),
La vita eterna che Gesù offre, si chiama così non per la sua durata indefinita, ma per la qualita’: la sua durata senza fine e’ conseguenza della qualita’, e Gesù ne parla al presente. Non parla di una “vita” del futuro, come di un premio da conseguire dopo la morte se ci siamo comportati bene nella vita, ma di una qualità di vita che è a disposizione subito per quanti accettano lui ed il suo messaggio e con lui e come lui collaborano alla trasformazione di questo mondo. Gesù lo dice: “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue HA la vita eterna” (Gv 6,54).
N.B: (sia chiaro che non è un invito a “fare la comunione” ma, nutrendosi del pane che da Gesù, avere i suoi stessi sentimenti nei confronti degli altri… “Fate questo in memoria di me…” (1 Cor 11,24), non significa partecipare ad un rito commemorativo, ma mettere nella nostra vita gli stessi sentimenti che spinsero Gesù a donarsi totalmente per gli altri…)
Una vita di una qualità tale che quando si incontrerà colla morte la scavalcherà: “se uno osserva la mia parola non morira’ mai” (Gv 8,51). Gesù assicura che chi vive come lui è vissuto, cioè facendo sempre del bene, non farà l’esperienza del morire.
Secondo Gesù è la persona intera che continua a vivere, non un “qualcosa” di questa. La permanenza della VITA attraverso la MORTE è quel che si chiama risurrezione.
L’anima non è qualcosa che l’uomo ha, bensì qualcosa che egli è.
Gesù nei vangeli non parla mai di anima, concetto sconosciuto nell’ebraismo. Questo dell’anima è una idea che il cristianesimo ha preso poi a prestito dalla filosofia greca, ma che è assente nell’ebraismo. Il termine greco psyké, non significa altro che la vita della persona. Non esiste, secondo il pensiero ebraico, una realtà nell’uomo contrapposta al corpo. (Del resto nel “Credo” abbiamo sempre professato di credere nella “resurrezione dei morti” e non nell’immortalità dell’anima…) Quindi anima nel senso di persona, come comunemente si esprime parlando: “Una parrocchia di duemila “anime” “Un’anima in pena…”
La fede nella continuità di tutta la persona oltrepassata la soglia della morte, è tanto forte e radicata nelle prime comunità cristiane che verrà sempre ostacolata qualunque ipotesi di sopravvivenza dell’anima.
I primi cristiani contrappongono alla fede ellenistica dell’ immortalità dell’anima, la fede cristiana della risurrezione della carne.
La teoria platonico-ellenistica dell’immortalità dell’anima è considerata dai Padri della Chiesa una dottrina empia e sacrilega che doveva più di ogni altra essere combattuta ed abolita.
La fede nella risurrezione della carne era così tanto specifica che divenne la parola d’ordine del Cristianesimo. Chi credeva invece all’immortalità dell’anima mostrava di essere estraneo al cristianesimo.
Così si legge in Giustino: “Se doveste incontrarvi con coloro che si fanno chiamare cristiani… e che affermano che non vi è alcuna risurrezione dei morti, ma che le loro anime saranno accolte in cielo già al momento della morte, non considerateli cristiani” (Dial. 80,4). “L’anima non può dirsi immortale” aggiunge ancora Giustino (ib. 5,1). Sempre riguardo il concetto di resurrezione/immortalità dell’anima è illuminante il pensiero di Teofilo secondo il quale “l’uomo per sua natura non è né mortale né immortale, ma è creato con la possibilità di dirigersi nei due sensi” (Ad Autol. II, 27).
Pertanto nel messaggio di Gesù per vita che continua dopo la morte non si deve intendere la sopravvivenza di un’anima, ma la persona stessa che continua la sua esistenza in una diversa dimensione in una continua crescita e trasformazione di se stessa verso la piena realizzazione, come recita il prefazio per la messa dei defunti: “La vita non viene tolta, ma trasformata…”
Credo che questo faccia parte dell’esperienza della vita, almeno ad un certo stadio di essa. Arriva un punto della vita nel quale l’armonica crescita tra il corpo, la parte biologica e quella spirituale o morale subisce una metamorfosi. Mentre finora erano cresciute in maniera armonica graduale, allo sviluppo del corpo si accompagnava anche lo sviluppo dell’intelletto, della morale, della spiritualità, di quello che rende una persona tale, arriva un punto della vita in cui la parte biologica, raggiunto il suo apice inizia un graduale declino, e questo coincide proprio mentre la parte che chiamiamo “spirituale” sembra essere al massimo della sua potenza. Mentre quest’ultima continuerà a crescere, l’altra proseguirà il suo inevitabile declino. Mentre la maturità di pensiero si consoliderà e nella misura che darà frutti crescerà, il corpo inizia il suo lento cedimento.
San Paolo esprime stupendamente questo concetto:
“Per questo non ci scoraggiamo, ma anche se il nostro uomo esteriore si va disfacendo, quello interiore si rinnova di giorno in giorno.” (2 Cor 4,16).
All’inevitabile disfacimento della parte biologica, corrisponde la pienezza della maturità, alla morte delle cellule la vita indistruttibile… Quindi morte non più come distruzione ma trasformazione o realizzazione della persona accolta a far parte della pienezza di quel Dio che ha per essi preparato “quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo…” (1 Cor 2,9)
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Fonte: srs di P. Alberto Maggi OSM, da Studi Biblici – Appunti -2009-