Con il termine brigantaggio si è soliti definire una forma del banditismo caratterizzata da azioni violente a scopo di rapina ed estorsione, mentre in altre circostanze esso assume risvolti insurrezionalisti su fondo politi sociale.
Sebbene il fenomeno abbia origini remote che si perdono nella notte dei tempi, e nei vari periodi storici e territori diversi, nella storiografia italiana, questo termine si riferisce generalmente alle bande armate che erano presenti nel Mezzogiorno d’Italia tra la fine del XVIII secolo e il primo decennio successivo alla proclamazione del Regno d’Italia.
L’attività del brigantaggio assunse connotati politici e anche religiosi solo all’inizio del XIX° secolo, con le sollevazioni sanfediste antifrancesi. Fu duramente repressa all’epoca del Regno di Napoli e durante l’occupazione napoleonica, borbonica e risorgimentale, allorquando, dopo essersi ulteriormente evoluta, si oppose alle truppe del neonato Stato Italiano.
In questa fase storica, sia all’interno che al di fuori di queste bande e mossi anche da motivazioni di natura sociale e politica, agivano gruppi di braccianti ed ex militari borbonici.
Con il termine brigante si descrive generalmente una persona la cui attività è al di fuori della legge (contra legem). Spesso venivano definiti briganti, in senso dispregiativo, i combattenti ed i rivoltosi in particolari situazioni sociali e politiche. L’origine della parola non è ancora chiara e diverse sono le ipotesi formulate.
Il brigantaggio sin dalla sua genesi aveva – ed ha tuttora – come causa di fondo la miseria. Oltre a mera forma di banditismo (soprattutto nel Medioevo), il fenomeno ha spesso assunto connotati di vera e propria rivolta popolare. In età moderna, furono coinvolti vari strati sociali, con connessioni e complicità tra signori e banditi, investendo indifferentemente zone urbane e rurali.
Il brigantaggio iniziò così a presentare una forza tale da vincere quella dello stesso Stato, incapace ancora di mediare tra i diversi ceti. Francesco Saverio Sipari, che fu tra i primi a considerare anche l’origine sociale del fenomeno, nel 1863 scrisse: «il brigantaggio non è che miseria, è miseria estrema, disperata» e, anticipando anche analoghe osservazioni di Giustino Fortunato, riteneva che il brigantaggio potesse esaurirsi con la “rottura” dell’isolamento delle regioni meridionali, che era dato dall’assenza di una rete infrastrutturale adeguata, di strade e di ferrovie, e con l’affrancamento dai canoni del Tavoliere. Francesco Saverio Nitticonsiderava il brigantaggio (in particolare nel Meridione) un fenomeno complesso, che poteva assumere i connotati di banditismo comune, di reazione alla fame e alle ingiustizie o di rivolta di natura politica. Egli riteneva che il brigante, in gran parte dei casi, si rivelava un paladino del popolo e simbolo di rivoluzione proletaria:
« Per le plebi meridionali il brigante fu assai spesso il vendicatore e il benefattore: qualche volta fu la giustizia stessa. Le rivolte dei briganti, coscienti o incoscienti, nel maggior numero dei casi ebbero il carattere di vere e selvagge rivolte proletarie. Ciò spiega quello che ad altri e a me e accaduto tante volte di constatare; il popolo delle campagne meridionali non conosce assai spesso nemmeno i nomi dei fondatori dell’unità italiana, ma ricorda con ammirazione i nomi dell’abate Cesare e di Angelo Duca e dei loro più recenti imitatori. »
(Francesco Saverio Nitti).
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Giustino Fortunato lo considerò «un movimento spontaneo, storicamente rinnovantesi ad ogni agitazione, ad ogni cambiamento politico, perché sostanzialmente di indole primitiva e selvaggia, frutto del secolare abbrutimento di miseria e di ignoranza delle nostre plebi rurali».
Accanto alla miseria, alcuni identificano il brigantaggio come un fenomeno di resistenza, soprattutto in epoca risorgimentale. Il deputato liberale Giuseppe Ferrari disse:«I reazionari delle Due Sicilie si battono sotto un vessillo nazionale, voi potete chiamarli briganti, ma i padri e gli Avoli di questi hanno per ben due volte ristabiliti i Borboni sul trono di Napoli.».
Tuttavia il fenomeno era ben presente anche in altri stati preunitari all’alba dell’unità d’Italia, tra cui lo Stato Pontificio in cui ancor oggi si ricorda la figura de “il Passatore“, il Lombardo-Veneto con Carcini, il Regno di Sardegna con Giuseppe Mayno e Giovanni Tolu.
Anche nella Lessinia del passato il fenomeno del brigantaggio è stato per secoli una vera e propria piaga sociale ed alcune zone impervie dei nostri monti, come ad esempio la val Squaranto (“el vajo della pissaròta”), ne sono praticamente state infestate; tanto che il fenomeno del brigantaggio e del banditismo è stato presente sino ai primi anni ’30 allorché il regime fascista, guidato dall’ideologia Mussoliniana, riuscì definitivamente a debellarlo anche sui nostri monti Lessinia. Per secoli si sono avute sui nostri monti delle figure leggendarie di alcuni briganti tra i quali ad esempio la figura del brigante Francesco Falasco o del “brigante Tomasìn” (Tommaso Comerlati) che erano dei veri e propri spietati briganti.
Il fenomeno del brigantaggio si ebbe anche nel Veneto e l’area della Bassa Mantovana, in particolare nelle province di Padova, Venezia, Rovigo e Mantova ove vi furono scorrerie di gruppi di briganti, che si riunirono in piccole bande composte da disertori dell’esercito austriaco, del precedente esercito del Regno italico e persone in condizioni di indigenza. A seguito dell’accentuarsi di attività’ criminali nei pressi di Este le autorità austriache istituirono due sezioni venete e lombarde del tribunale statario, che dal giugno 1850 al giugno 1853 svolsero 1400 processi, emettendo «1.144 sentenze di morte di cui 409 eseguite».
IL BRIGANTAGGIO NELLA LESSINIA DEL PASSATO.
In certi luoghi della Lessinia, soprattutto nelle radure della Valpantena, era molto facile tenere d’occhio la lenta ascesa o discesa dei carrettieri o delle carovane che con il loro incedere conducevano le merci da e verso la città di Verona. I carretti erano carichi delle merci destinate alla vendita o al ritorno di quelle acquistate, oppure i carrettieri portavano con sé il denaro della vendita o dell’acquisto della merce, per cui essi costituivano un appetibile bottino per i briganti.
E’ appunto per depredare queste facili prede che in certi punti, più o meno prestabiliti, avvenivano gli agguati e gli assalti. Raramente si giungeva all’omicidio, anche se non mancano le cronache dell’epoca che narrano di vere e proprie rivolte dei carrettieri che, stanchi delle vessazioni e delle aggressioni dei briganti, si sono difesi a colpi “de s’ciopo – fucile – tirandoghene do carduno da le spese o lassandoghe la menega”.
In alcuni periodi di particolare esasperazione per i continui assalti e le ovvie reazioni degli assaliti si era persino giunti al conseguimento di una sorta di tacito accordo tra i briganti ed i carrettieri ove, al fine di scongiurare inutili spargimenti di sangue da entrambe le parti, si era instaurata una consuetudine “contra legem” nella quale i carrettieri cedevano, a titolo di pedaggio, una parte del carico ed i briganti si impegnavano a non attuare assalti. Si narra di episodi simili ad esempio anche nella valle di Squaranto, zona che in passato era particolarmente infestata dai briganti.
Alcune zone dell’Alta Valpantena, dell’Alta Valpolicella e soprattutto della Val Squaranto erano la meta preferita dei briganti in quanto particolarmente impervie e ricche di nascondigli. Così pure alcune zone reclutavano, sin dalla giovane età, i briganti, probabilmente a seguito delle misere condizioni di vita. Correva ad esempio in passato il detto che “ In tel paese de San Michel de Verona, tera de briganti, te piante on tera i fasol e cresse i briganti” . o ”ladri de fioi”, per far intendere che la zona di S. Michele Extra, fuori porta di Verona, era una zona particolarmente prolifica di briganti del passato.
I briganti, nell’immaginario collettivo, anche sui nostri monti Lessini, venivano quasi sempre concepiti come soggetti leggendari, ritenuti spesso dotati di poteri magici in quanto imprendibili e si narrava di loro patti col Diavolo, per aver venduto l’anima, il che mischiava realtà, superstizione e leggenda.
E’ nell’ambito di tale convinzione popolare che nacquero ad esempio le figure leggendarie del brigante Francesco Falasco o del “brigante Tomasìn” (al secolo Tommaso Comerlati).
Ma aldilà del romanticismo e dell’alone di mistero e fascino con cui spesso si dipingeva la figura del brigante si trattava pur sempre di spietati criminali, di fannulloni o sfaccendati, che di fatto con le ruberie e l’assassinio vivevano alle spalle degli altri.
Per cui, almeno nel veronese, tutto il resto viaggia solo nell’immaginario collettivo mitizzato e privo di fondamenti reali, se non in qualche caso ben documentato e ben lontano da quel brigantaggio che caratterizzò la storia del centro-sud Italia nell’Ottocento.
LA VITA DEL BRIGANTE
La strada, il luogo dove tendere gli agguati e saccheggiare le vittime, era quindi il luogo in cui il brigante viveva e svolgeva la sua attività parassitaria.
In tempi più recenti l’amministrazione della Serenissima decise di redigere un elenco delle strade per il Veronese; nacque così il “Campion” delle strade del territorio veronese che venne ultimato nell’anno 1589. Si tratta in sostanza di un prezioso documento, conservato presso l’Archivio di Stato di Verona, che mostra la mappatura della viabilità del passato e ne delinea le strade di percorribilità, ivi incluse quelle verso la Lessinia.
Su questo stradario del nostro passato vengono delineati in mappatura i tracciati delle strade che solcavano la Lessinia; luogo ove era fiorente il commercio della lana e del ghiaccio; del legname e del formaggio. Ma su di esse viaggiavano anche i vescovi per portare a termine le loro visite pastorali e quindi queste strade servivano anche allo spostamento dei prelati per le loro visite pastorali ed in una nota del 12 febbraio 1836, depositata presso l’Archivio comunale di Selva di Progno, ecclesiastico in visita pastorale scrisse che : «Le strade son tutte disastrose, scabrose, erte e quasi impraticabili, pericolose alle bestie e alla gente ancora». Si trattava cioè di una lamentela della piaga del brigantaggio che infestava anche le valli e le strade della Lessinia del passato.
Si trova traccia di questo fenomeno anche nei registri dei tribunali, ove si narra di fatti realmente accaduti in cui si palesano episodi rapine, furti e sequestri ad opera di briganti lungo le strade della Lessinia.
In un documento dell’epoca si narra ad esempio di un episodio di furto lungo l’antica strada che collega la città di Verona con Bosco Chiesanuova e nella sentenza del 20 gennaio 1872 venne comminata la pena di due anni di carcere e alle spese processuali a tale Giuseppe dalla Riva, veronese dell’età di ventisette, fabbro ferraio di professione, recidivo, per aver sottratto a Leso Andrea, commerciante, un sacco contenente stoffe per un valore di 50 lire. La strada costituisce cioè il luogo ove si consuma il delitto del brigante.
LA LEGGENDARIA FIGURA DI FRANCESCO FALASCO.
Grezzana – uno dei rifugi del leggendario brigante lessinico Francesco Falasco.
Tra Grezzana e Stallavena si possono ancora vedere i resti del castello edificato nel XII secolo dalla famiglia Turrisendi e divenuto rifugio, intorno al 1600, di Francesco Falasco.
Francesco Falasco era stato un piccolo possidente locale, messosi a servizio della famiglia Cozza, diventando un “bravo” suo malgrado. A quei tempi era frequente che alcune famiglie nobili con diritti feudali, mantenessero al soldo alcuni uomini chiamati “bravi” o “buli” che eseguivano i loro ordini.
Francesco Falasco non va confuso con Paolo Bianchi di Bregantin (detto “il Falasco” in memoria delle leggende del luogo). Quest’ultimo era un brigante con lo pseudonimo di Francesco Falasco; egli era considerato «uomo di fama obbrobriosa, farabutto e spietato assassino»; si racconta che con la sua banda commise un’infinità di delitti, alcuni dei quali commissionati dai signorotti della Valpantena. Siamo verso la fine del XVII secolo e numerose bande di briganti, oltre ad assaltare i viandanti per rubare loro quanto avevano, operavano per eseguire vendette personali di alcuni nobili. La tradizione popolare racconta che i contatti tra famiglie nobili e la banda “Falasco” erano tenuti da un certo Piedelungo, cantastorie, nano, ben accetto anche da altre famiglie.
La leggenda narra che con il suo aiuto il conte Provolo (della famiglia Giusti), organizzò il rapimento di Angiolina, figlia di messer Lonardi, ragazza di cui si era invaghito senza essere corrisposto. Secondo la leggenda fu proprio Piedelungo a far incontrare il conte e la banda Falasco nel loro rifugio per ideare il piano. Un bel giorno, quindi, il conte Provolo, entrato con i briganti in casa di messer Lonardi, rapì la figlia Angiolina fuggendo poi verso Ferrara, lontano dalla Serenissima.
Ex-voto datato 1675. Un tangibile segno per la “grazia ricevuta” dalla bella Angiolina Leonardi, salvatasi senza aver subito violenza alcuna nel drammatico rapimento organizzato dal conte Provolo Giusti di Santa Maria in Stelle, ed eseguito da Francesco Falasco e la sua banda..
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L’intento del conte era di sposare Angiolina di nascosto e forzatamente. Si narra che Angiolina fosse già segretamente fidanzata con il marchese Sagramoso, il quale, venuto a conoscenza dell’accaduto, cominciò ad indagare seguendo le tracce lasciate dalla banda. Nel frattempo anche il cantastorie Piedelungo, sentendosi in colpa, si mise alla ricerca della ragazza; giunto a Ferrara, dove si teneva nascosta Angiolina, andò a parlare con il Cardinal Legato (che governava la città) il quale fece il possibile per liberare la poveretta. Pochi giorni dopo l’arresto del conte Provolo, i banditori della Serenissima proclamarono la distruzione del Palazzo Giusti di Santa Maria in Stelle. La banda fuggì, ma Falasco venne fermato ed impiccato sotto le mura di Verona mentre cercava di rientrare in città per compiere un’altra sua bravata.
I BRIGANTI NEL RICORDO DEGLI ANZIANI
Nell’Alta Valpantena, il vaio sottostante Cappella Fasani veniva chiamato il Vajo dei Ladri. Secondo le testimonianze orali: «Quando passavano i carrettieri che facevano ritorno dalla città, dopo aver venduto i carichi di legna, spesso venivano derubati dai briganti». La strada di cui parla un abitante del luogo venne costruita dal Genio Militare durante la Prima Guerra Mondiale, quando la viabilità prese quella nuova direzione, spostando anche i punti di appostamento dei briganti. In merito ai luoghi di appostamento i testimoni riportano che oltre al luogo su citato v’era anche il Ponte delle Cavasse (che si trova tra Lugo e Stallavena); entrambi i punti sono passaggi obbligatori che non permettevano al viandante (soprattutto se stava conducendo un carro) di poter cambiare strada evitando l’assalto.
Dura vita quella del carrettiere, che doveva lasciare la casa alle due del mattino per raggiungere la città in tempo utile per il mercato cittadino, ove poter vendere il carico di legna. Sulla strada del ritorno, poi, la notte, poteva essere assaltato più volte e quindi rendere vana quella giornata di lavoro e quelle precedenti per la raccolta del legname.
Nei ricordi degli anziani si trova anche un certo brigante Allegro che era più feroce degli altri e pertanto più temuto; come capita spesso in queste circostanze, in merito a simili figure, la storia diviene leggenda ed è difficile distinguere l’una cosa dall’altra.
Il fenomeno del brigantaggio continuò in Lessinia fino agli anni ’30-’40 del secolo scorso, ovvero fintantoché c’era l’uso domestico della legna, e i carrettieri andavano a venderla in città.
La stanchezza dei montanari per le continue vessazioni e soprusi li indusse in alcuni casi a reagire. Gli informatori ricordano ancora quando tre boscaioli si appostarono in un luogo nascosto coi s-ciòpi (fucili) ed uccisero un brigante. Si occupò della cosa un brigadiere che esaminata la situazione disse: «Son andato in tal posto e m’han dito che stava ben morto, e son ndà n’un altro posto e m’han dito la stessa cosa, ho provato in un terzo e m’han dito la stessa cosa. Quindi se sta ben a lori sta ben anca a me».
Questa, che può apparire una sorta di legge del taglione, era una delle rappresentazioni dell’aspra realtà di un tempo.
Anche se fin qui abbiamo parlato in riferimento al tema in termini forse condizionati dalla leggenda del Brigante Falasco, di briganti e brigantaggio gli informatori non si riferiscono mai in tal modo, ma parlano piuttosto di ladri e ladroni, riportandoci ad una realtà forse meno romantica ma più affine alle realistiche condizioni dell’epoca.
Il tempo non ha modificato di molto i luoghi dove i briganti si appostavano per i loro agguati, e procedendo per la strada che conduce da Verona ad Erbezzo sono ancora ben visibili quei punti dai quali ci si può immaginare uscissero allo scoperto i rapinatori.
Può sembrare strano, ai nostri giorni, pensare che fino a settant’anni fa luoghi come la Lessinia e l’alta Valpantena (20 Km circa dalla città) esistessero aree così fuori dalla civiltà dove c’erano briganti e amministrazione privata della giustizia; ma se lo rapportiamo alla realtà del tempo lo possiamo ben comprendere: basti considerare che nelle aree rurali in genere, fino agli anni ’40, quando iniziò a svilupparsi la meccanizzazione del lavoro, alcuni aspetti della vita sociale non erano cambiati molto rispetto al Medio Evo.
SI VA PERDENDO IL RICORDO DI CIÒ CHE POTEVA ACCADERE FINO ALL’INIZIO DELLA PRIMA GUERRA MONDIALE SULLE STRADE DEL VERONESE. NATURALMENTE NON SU TUTTE, MA SU QUELLE CHE PORTANO DAL CENTRO CITTÀ VERSO LA MONTAGNA.
In certi punti, lungo i tornanti, era abbastanza facile seguire la lenta ascesa dei carrettieri che con carretto e cavallo o asino tornavano dalla città, spesso stanchi ed assonnati, per la sveglia antelucana. Portavano con sé o merce di scambio o le scarse lire guadagnate, dopo aver portato al mercato quella poca verdura o frutta che potevano raccogliere nei poveri orti improvvisati lungo i versanti scoscesi della montagna.
E così, in certi punti più o meno prestabiliti, venivano accolti con i fucili – quasi mai usati per uccidere – e costretti a consegnare quanto avevano con loro.
Certe strade, in modo particolare dell’Alta Valpantena o dell’Alta Valpolicella, erano note perché, si diceva, “c’erano i briganti” appostati.
Ma non solo verso la montagna. Ad esempio anche le varie strade e stradine che dal lago di Garda portano verso Calmasino, o verso altri paesi dell’interno, soffrivano dello stesso male. Gli “ortolani”, come spesso venivano chiamati, vendevano la loro mercanzia, di solito frutta e verdura di stagione, e verso sera ritornavano a casa, raccontando talvolta i loro incontri poco desiderati.
E quello di cui si parla oggi è più che altro passato nel mito.
I briganti, nell’immaginario collettivo, erano sempre personaggi come il leggendario Falasco, mentre invece si trattava spesso, da quanto è possibile arguire dalle notizie di quel tempo, specie dal quotidiano L’Arena, di poveri esseri umani che si davano al cosiddetto brigantaggio più che altro per fame e per la miseria più nera.
Nei ricordi del prof. Angelico Brugnoli vive ancora qualche racconto del nonno nato nel 1861. In quel periodo abitava a Fumane di Valpolicella ed era chiamato l’ortolano perché aveva un piccolo appezzamento di terreno dove coltivava verdura per la famiglia ma soprattutto da vendere in città. La vita a quel tempo in tutto il Veneto era veramente dura e in più il nonno di Angelico aveva quattro figli da mantenere. Si era verso la fine del secolo Diciannovesimo, o ai primi del Ventesimo, quando era all’incirca quarantenne. Qualche volta succedeva che tornando a casa, in quel di Pedemonte, più o meno alla curva di Villa Santa Sofia, venisse fermato e invitato, quando andava bene, a lasciare metà del guadagno. Ma l’avo di Angelico, alto e molto robusto, non si lasciava certo intimorire, tanto che un giorno, stanco di tutte quelle angherie e soprusi, prese uno dei briganti e lo gettò oltre il muro di cinta della villa, che era alto circa due metri. Da quel giorno venne lasciato in pace.
Come ben si deduce da quanto fin qui raccontato, i famosi briganti, tranne qualcuno che fece storia a sé, erano più che altro fannulloni o sfaccendati, che volevano vivere alle spalle degli altri.
Per cui, almeno nel veronese, tutto il resto viaggia solo nell’immaginario collettivo mitizzato e privo di fondamenti reali, se non in qualche caso ben documentato e ben lontano da quel brigantaggio che caratterizzò la storia del centro-sud Italia nell’Ottocento.
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GEOGRAFIA E ANTROPOLOGIA DELLE STRADE
La strada diventa dunque il luogo nel quale il brigante trova la sua nicchia vitale. Già la lingua si è impossessata del termine ed ha coniato alcune espressioni capaci di dare alla “strada” uno dei suoi valori primigeni e fondanti. “Mettere sulla strada” allude alla brutalità e alla solitudine che una strada può indurre nell’individuo isolato; e così espressioni come “essere fuori strada” o “darsi alla strada” o ancora “tagliare la strada” alludono alla dimensione negativa, agonistica e ferina della strada.
Alla strada, dunque, pertiene inequivocabilmente una dimensione antropologica, radicale, fondante. Perciò è corretto e affascinante il quesito che si pongono Chelidonio, Sauro e Zanini (Quaderno culturale n° 29) a proposito di ritrovamenti preistorici a Passo Malera: «Capire se e quanto percorsi alpini storici possano ricalcare non solo piste pastorali tardo-preistoriche ma forse anche tracciati di caccia in quota praticati dalla fine dell’ultima glaciazione». Come dire: contributi per una viabilità lessinica di circa 15 mila anni fa!
In tempi più recenti l’amministrazione della Serenissima decide di redigere un elenco delle strade per il Veronese; ne nasce il Campion delle strade del territorio veronese formato l’anno 1589. È un documento prezioso conservato presso l’Archivio di Stato di Verona e ci mostra una viabilità sorprendente, in grado di garantire i collegamenti dell’altopiano con la città che si sviluppa e chiede al contado continui approvvigionamenti di derrate alimentari e di legname. Ed è a quella realtà lontana che risalgono le tracce documentali scritte di strade “famose” la via Cara, la via Vesentina e la strada di Messer Can (per restare nell’area orientale) o la via dei Lessini o la via Grande (per riferirsi, invece, all’area più occidentale).
Su queste strade – ma anche su altre che solcano trasversalmente la Lessinia (alcune delle quali sono ormai fagocitate dal bosco, ma andare alla loro ricerca è come aprire un libro di favole) – si svolge il commercio della lana e del ghiaccio, del legname e del formaggio. Ma su di esse viaggiano anche i vescovi per portare a termine le loro visite pastorali. Non sono poche le lamentele che gli stessi prelati, ma anche gli abitanti, rivolgono alle autorità. Basti questa, datata 12 febbraio 1836, presa dalle carte dell’Archivio comunale di Selva di Progno: «Le strade son tutte disastrose, scabrose, erte e quasi impraticabili, pericolose alle bestie e alla gente ancora».
Anche i registri dei tribunali mantengono la memoria di fatti accaduti lungo le strade a riprova della valenza profondamente antropologica che la strada ha sempre posseduto. In tal modo apprendiamo che il 20 gennaio 1872 viene emessa una sentenza con la quale tale Giuseppe dalla Riva, veronese di 27 anni, di mestiere fabbro ferraio, recidivo, viene condannato a due anni di carcere e alle spese processuali per aver sottratto a Leso Andrea un sacco contenente stoffe per un valore di 50 lire. Il furto avviene lungo la strada da Verona a Bosco. Ancora una volta la strada è il luogo in cui si consuma la vita con le sue emozioni e le sue pulsioni. Essa è – oltre, è ovvio, a tante altre cose – paura, rischio, destino, audacia, criminalità. Non per nulla una antichissima metafora paragona la vita alla strada.
Nota: parte delle informazioni di questo capitolo sono state tratte dal Centro Documentazione e Ricerca Antropologica Frazer
Autori: Alessandro Norsa, Aldo Ridolfi, Marisa Fabbro, Angelico Brugnoli.
Fonte. Da facebook di Velo Veronese del 10 aprile 2015