La Carta lapidaria
La Carta lapidaria di Negrar è definita la lunga iscrizione di ben 64 righe, una delle più lunghe d’Italia, scolpita in caratteri maiuscoli romani nel 1166 o poco dopo, sulla parete sud del campanile della Chiesa di Negrar. Vi è riportata una serie di contratti, tutti del 1166, mediante i quali la pieve di Negrar riscatta un vecchio censo annuale dovuto al cittadino veronese Ribaldino. Praticamente essa non è altro che un atto notarile autentico, un contratto stipulato nel 1166 fra Wizardo arciprete della chiesa di S. Martino di Negrar e gli eredi di Odelrico Saketo
La Pieve di Negrar doveva in quel tempo avere un’importanza grandissima, poiché aveva sotto la sua giurisdizione delle Cappelle, cioè delle chiese minori; aveva i diritti di decime; dei famigli e metà parte dei prodotti della Corte, com’è scritto nella Bolla di Papa Eugenio III del 1145. Odelrico Saketo, ricco feudatario della città di Verona aveva avuto un solo figliolo: Ribaldino, come risulta dal testamento che fece il 16 ottobre 1156, poco prima di morire; ed era stato nell’ambiente veronese, quello che oggi si direbbe, una personalità. (Fu anche Signore del feudo di Zevio). Luigi Simeoni in un opuscolo intitolato La Carta lapidaria di Negrar (Venezia, 1899) riporta alcuni documenti al riguardo.
La Carta lapidaria di Negrar scritta nella lingua latina del tempo con alcuni errori d’ortografia e qualche lieve omissione, è lunga 64 linee e complicata.
Cercherò di spiegarla nel modo il più che sia possibile semplice
La prima parte avvenne il 3 maggio 1166 sotto il portico della camminata della chiesa di S. Quirico, alla presenza del prete Odone, del giudice Guizone e di altri testimoni, la signora Bella, moglie di Ribaldino figlio del fu Odelrico Saketo, rinuncia a ogni aiuto della legge, affinché suo marito possa vendere alcune terre all’arciprete di Negrar.
La seconda, lo stesso giorno, nella sala del vescovo Ognibene, alla pre senza del vescovo stesso, dell’arciprete della chiesa maggiore Riprandi e di altri testimoni, Ribaldino afferma di aver ricevuto dall’arciprete di Negrar e dai suoi confratelli, in vece e in nome della chiesa, libras 200 e 20 denari (una libra = 20 soldi; un soldo = I2 denari) quale prezzo di 13 pezze de terris aratoriis et terris cum vineis et cum olivis atque cum domibus seu arboribus situate in Isola Longa et in Valle Longazeria et in Postumano, località che dovevano essere forse nei dintorni di Negrar, ma che ora i loro nomi non esistono piu.
La terza, ancora nello stesso giorno, e nella stessa sala del vescovo, alla presenza del vescovo e di altri testimoni, Ribaldino e i fratelli Bernardino e Enescalkino, figli di Warinberto suoi consanguienei; e i fratelli Robadino e Folco per se e per i loro fratelli Otolino e Sina, figli di Capra rinunciano al vescovo Ognibene il feudo che essi tenevano dall’Episcopato; e il quale a essi aspettava per diritti di successione; e per il quale la Pieve di Negrar pagava ogni anno a Ribaltino 5 lire meno 4 soldi e 9 moggia di vino. Robadino e Folco s’impegnavano sotto pena di 100 lire, di far fare la stessa rinuncia ai loro fratelli, non appena sarebbero tornati a Verona.
Nella quarta, il vescovo rimise alla Pieve di Negrar il servizio che questa faceva a Ribaldino per conto dell’Episcopato; e ricevette in compenso di ciò dall’arciprete e dai suoi confratelli la compera che essa aveva fatto da Ribaldino.
Delle terre ricevute, il vescovo investi lo stesso Ribaldino e i suoi consanguinei, come di un feudo vecchio ed ereditario (de vetere et hereditario feudo) col patto che la Pieve rimanesse sempre illesa.
La quinta parte avvenne il 4 giugno nella sala del vescovo, alla presenza dell’arciprete Riprandi e di altri testimoni; Sina figlio di Capra di S. Benedetto, rinuncia come i suoi fratelli, al feudo che doveva loro venire per successione e che teneva Ribaldino.
Questa la spiegazione, dalla quale si possono fare alcune osservazioni:
I – I caratteri maiuscoli romani sono cosi belli e perfetti, che ci doveva essere stato una fiorente scuola veronese al riguardo.
II – L’iscrizione porta la data del 1166, e ciò significa, anche se il documento è stato scolpito qualche anno dopo, che il Campanile in quel tempo esisteva già.
III- Il documento non riporta personaggi grandi o illustri, ma figure di secondo piano; un arciprete, un feudatario, un vescovo. Quindi più Cronaca che Storia. Ma è dalla cronaca (come mi diceva un giorno Monsignor Pietro Rossetti) che si fa la storia.
IV – Negrar era chiesa colleggiata; l’arciprete aveva dei confratelli, che nel documento sono tutti nominati, e coi quali faceva vita in comune.
V – La Pieve dipendeva direttamente dal vescovo e non da altri, come S. Vito che apparteneva all’Abbazia di San Zeno; Torbe, all’Abbazia di Santa Maria in Organo; Prùn al Capitolo, ecc.:
VI – Uno dei passi piu importanti del docuniento è, secondo il mio modesto parere, questo: hec nova investitura … ecclesia Sancti Martini de Nigrario perpetuo illesa …, cioè la Pieve di Negrar doveva rimanere sempre illesa, Con ciò viene a pensare che anche all’ora, nonostante si fosse nel più fiorente periodo comunale, avvenivano dei soprusi, delle ingiustizie.
Un esempio è dato da Odelrico Saketo stesso. In una lettera del 1140 Papa Eugenio II al vescovo Tebaldo, invita alcuni nobili veronesi, fra i quali Odelrico Saketo, a voler desistere dall’usurpare i beni dei canonici. Sempre i stessa la vita.
La Carta lapidaria, ecco in sintesi del contenuto dell’ iscrizione
«Il 3 maggio 1166, in Verona, nella chiesa di San Quirico, Bella, moglie di Ribaldino del fu Odelrico Sacheto, rinuncia ad impugnare la vendita che il marito si appresta a compiere. Nello stesso giorno, nell’episcopio, alla presenza di tre preti, un diacono, due accoliti, un chierico – la somma di lire 220 di denari veronesi per la vendita di 13 appezzamenti, posti nella valle Longazeria, la valle cioè di Illasi, e in altri luoghi. Nel giorno e luogo stessi e alla presenza dei medesimi testimoni, Ribaldino, con Bernardino ed Enescalchino fratelli, figli di Guarimberto, consanguineo, e i quattro figli di Capra, due presenti e due assenti, restituiscono tutti al vescovo Ognibene il feudo che detenevano dalla chiesa vescovile, consistente in lire 4, soldi 16 e moggi 9 di vino, che essi ricevevano annualmente dalla pieve di Negrar. Il vescovo rimise immediatamente alla pieve questo censo in cambio delle terre che l’arciprete aveva acquistato da Ribaldino, le quali terre il vescovo ora assegna in feudo a Ribaldino e agli altri. L’ultimo atto, datato 4 giugno, concerne la rinuncia al feudo gravante sulla pieve compiuta da Sina, uno dei figli di Capra, assente agli atti precedenti». (CASTAGNETTI 1984)
In pratica Ribaldino, in accordo con gli eredi, rinuncia ai suoi diritti su Negrar e in cambio ne riceve altri in Val d’Illasi: il tutto avviene con la necessaria intermediazione del vescovo di Verona che mantiene i diritti su entrambi i suoi vassalli.
Il costo del riscatto non fu certamente una piccola spesa per il clero della pieve, tanto che qualche anno più tardi l’arciprete Guizardo è costretto a ipotecare un casale per la somma di 40 lire, prestatagli da un cittadino veronese, Guido Zacono.
Anche se nei vari documenti non viene precisato a quale titolo la pieve dovesse pagare il censo annuale, è probabile che si trattasse di porzioni di decime spettanti alla chiesa vescovile, la quale altrove nel Veronese aveva diritto ai tre quarti della decima delle pieve; decima che spesso e.. concessa in beneficio ai laici.
Fonte: dal materiale della perpetua della Chiesa di Negrar